I cavalli saranno anche belli,
eh, (a me piacciono tutti gli animali, anzi, li considero in qualche misura
sacri in quanto viventi), però puzzano.
Davvero, puzzano molto. La camera
in cui sono ora sa proprio di cavallo, di stalla, di fieno digerito.
In effetti mi trovo in una sorta
di ranch, un enorme cavallificio abitato da circa 50 equini di razza.
Ci sono il galoppatoio, la pista
a ostacoli, un milione di foto di bimbi con caschetto e stivaloni, selle
appese, e questa maledetta puzza di cavallo.
Come io ci sia finita, qui, è
presto detto.
Questa mattina mi trovavo ancora
a Ckyne, nel ristorante-penzion cinese dove ho dormito (anche lì l’odore di
zuppa e pollo non era una meraviglia, tanto più che ha impregnato completamente
tutti i vestiti). La prima cosa che ho guardato, alzandomi, è stata il cielo.
Azzurissimo, poche nubi scenografiche sparse ad arte, ed un tepore inatteso. La
felicità nel vedere che non sarebbe stata un’altra giornata da arca di Noè è
stata tale che ho preso bene persino la notizia che non era possibile, lì, fare
colazione.
Mi sono arrangiata con le ultime
barrette tedesche alla fragola chimica, un po’ di miele e la sempre adatta eau
de rubinèt.
Riporto giù bici e bagagli per le
due rampe di scale e parto, destinazione Mnisek pod Brdy (ma sti cechi, girar
la ruota e comprare una vocale mai?).
Pensavo fosse tendenzialmente
discesa, giù dalla Selva Boema scalata ieri.
Invece è stato, soprattutto il
primo tratto di 50km, un tremendo susseguirsi di colline. Ebbene sì, ancora
colline.
La situazione, per almeno 5 ore,
è stata questa: su su su piano piano con il rampeghino, giùùùùùùùù a manetta tta
ta ta su su su piano piano con il rampeghino giùùùùùùùù con il vento tto to su
su su.
Ad ogni cima me ne si paravano
davanti altre, troppe, infinite, smisurate, a perdita d’occhio.
Che terra infame, tutta grinza a
pizziconi. Una profilo di Viennetta.
Certo, i paesaggi erano
bellissimi. Un alternarsi di campi d’oro, prati di oceanico verde e boschi
vestiti d’ombra.
Un po’ meno bello il vento,
contrario e a volte laterale, che a raffiche percuoteva le gole strette tra una
collina e l’altra, in un lamento di rami e foglie.
Io odio il vento.
E’ uno dei pochi eventi avversi
che possono minare alla mia determinazione. E’ un cilicio gratuito, una
tragedia nella più ampia tragedia che è la vita. Un far fatica per nulla, senza
motivo, senza senso e così, per fortuito capriccio di temperature e correnti
d’aria. Proprio quel giorno, proprio quell’ora, quando devo transitare io.
Grazie vento.
La mattinata è trascorsa così, con
fatica e lentezza tra paesaggi ad acquerello e cieli enormi (che sulle rampe in
salita sembrano vicinissimi. Forse è una forma di santificazione del ciclista
scalatore).
Ho accusato, e non poco, la
fatica odissiaca del giorno prima. Le gambe non giravano, erano come svuotate
di muscoli e tendini, ridotte a contenitori molli di stanchezza gelatinosa. E
dai di sali minerali, di gel, di miele, di barrette, di madonne, di cristoni
sempre più grossi paracadutati giù dal paradiso in formazione. Quando si dice
“andar su a bestemmie”… Insomma, alla fine, dopo qualche ora, le gambe sono
tornate in funzione.
Psicologicamente non è stato
facile, perché procedevo, o meglio, arrancavo pianissmo e con dolòr. In questi
casi, per affrontare la fatica, attuo una strategia banale ma utile: dividere
la tappa in segmenti più piccoli. Mi spiego: se già parti stanco perché non hai
metabolizzato lo sforzo del giorno prima e, fin da subito, ti trovi in salita e
con il vento contro, immaginare 100km e più tutti insieme ti disarma. Ti porta
allo sconforto, al “non ce la farò mai”. Perché sai che dovrai stare così, a
muscoli tesi, per 6, 7, anche 8 ore. E la testa dice di no, cerca di impedirti
la follia.
Bisogna ingannare la ragione e
immaginare distanze minori.
I 100km van divisi prima in due
parti, una del “mattino” (che spesso si protrae fino alle 16) e una del
pomeriggio, con pausa merenda in mezzo. Al pomeriggio lascio 30km, anche meno,
perché sarò già stanca. I 100km sono già ora 70+30. Questi 70 possono essere 30+20+20,
con cittadine o svincoli, laghi o altre cose colorate sulla mappa come punti di
riferimento. Più si è stanchi più si divide: i 20km da A a B preventivati prima
diventano 10+5+5, e così via, fino a tratti da 1 o 2 km. Bisogna prefissarsi
mete intermedie vicine, raggiungibili, che promettano qualcosa di piacevole:
qui mi prendo qualcosa di fresco da bere, qui mi fermo a fare foto al fiume che
dev’esser bellissimo, qui mi merito una barretta, qui c’è un castello da
vedere. Quando ci si arriva il pensiero è: “Toh, credevo di metterci di più”.
In questo modo inganno la mente e, tratto a tratto, porto a casa l’intera
tappa.
Oggi è stata così, una divisione
continua, uno spezzettare linee in segmenti sempre più piccoli. Su e giù,
sperando, ad ogni cima, di non vedere più colline davanti a me. Non è stato
così. La strada ha proseguito a gobbe e tornantini, tra paesi di un altro
secolo, contadini curvi e una costellazione di laghetti e boschi.
Anche a questo giro trovare un
posto per dormire è stato a dir poco adrenalinico.
Faccio le ultime due salite
secche e già pregusto la penzion restauraja magna-dormi che mi aspetta lungo la
discesa. Intanto inizia a piovere. Arrivo, è in corso una cena di matrimonio.
Full full mi dice il cameriere da dietro una selva di bicchieri di birra.
Nema problema, stronzetto, nella
città ci sono molte altre strutture.
Già. O chiuse, o piene. Full booked, no room, no place, no
space, all full. Queste le risposte frettolose che mi vengono date.
Cerco su internet. Nel paese successivo (altre colline in mezzo) c’è un posto.
Arrivo. Chiuso da anni, abbandonato. Comincio a pensare che mi tocchi arrivare
a Praga già oggi, pedalando in notturna. Carico la nuova mappa, quella della
tappa di domani, e inizio a seguirla, ricacciando al fondo delle coscienza la
stanchezza, e al fondo della vescica la pipì (sempre così, nei momenti critici
scappa). Riparto. Vedo un cartello che indica, a 6km, una penzion. Bella! Via
dritti. Ma mi si parano davanti ancora colline. Cambio morbido e denti stretti.
Sarà lunga. Dopo un paio di saliscendi, nella luce fioca del sole ormai basso,
vedo un manifesto che, nella mia testa, secondo una traduzione a buffo e
dettata dalla mania folle, dice: “Cavalli, camere, fermati, qui è ok”. C’è
anche il disegno, ma solo dei cavalli. Magra consolazione. Prendo il sentiero
che porta verso quella che è evidentemente una stalla enorme. Non c’è nessuno.
Mi avvicino, la porta è aperta. Un cane inizia ad abbaiare e sento che mi corre
incontro… Sto per fare un rapidissimo dietro front quando mi accorgo che è solo
un bassotto ciccione e coccolone. Entro. “Hello! Hellooooo!” dico esitante nel
corridoio buio, in cui rimbalza l’eco. Nel giro di qualche minuto compare
l’angelo custode di oggi. Una signora non parlante inglese né tedesco con cui
mi intendo a gesti. Mi chiede, a diteggi e manate: “Sei italiana e non sai il
ceco?”. Eh, signora mia, sa com’è, il mondo è strano. Poi mi fa capire che c’è
la stanza, c’è posto per la bici, ci sono le docce. Ma, prima, mi porta a
vedere i suoi cavalli.
Grondante di pioggia, unta,
stanca e affamata, ho dovuto ammirare le sue bestie puzzone, tutte girate di
culo, una per una. Ho anche commentato con dei poco convinti “Oh wonderful!
Lovely! Beautiful! Mollami per giove te prego, basta equini dammi la stanza
pietà! Very very nice!”. La stanza me l’ha data, alla fine. E mi ha anche
offerto la cena, chè mi ha presa per un’amante dei cavalli. La proprietaria ha
una strana idea di cucina: antipasto con torta fatta da lei, buonissima, al non
so cosa verde e rosso. Portata principale: pizza con ananas, prosciutto,
formaggio, basilico e altri troiai indefiniti di salsine che solo in Cechia uno
potrebbe mettere su una pizza, che comunque, alla fine, era pure buona. Da
berci insieme te caldo o caffè, a scelta. Mah.
Ora sono qui nella camera, tutta
in legno e molto carina, non fosse per la puzza di cavallo e gli sbroffi che
questi animali dal ventre teso emettono, da uno o l’altro orifizio.
Domani sarà una tappa leggera:
Praga dista meno di 40km. E mi fermerò lì un giorno, per riposare e vedere di
nuovo questa città meravigliosa.
La puza dei cavalli non ci fermerà. Jamais!
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