Quella di oggi è stata una giornata lunga, densa e colma di
suggestioni. Credo di aver visto alcuni fantasmi, tra i rami, e l’eco pallida
della loro ombra. Questa è una terra grassa di sangue, antico e recente.
Stamattina ho lasciato l’ostello con piena calma, anche
perché c’era la colazione ad abbuffet, e capirai. Tra l’altro è stato l’unico
pasto oltre alla cena, perché ho dimenticato le due mele di pranzo nel frigor comune; tale consapevolezza ha
squarciato il velo del tempio solo al volgere del sessantesimo km. Ciao mele,
per voi non torno. Vi mangerà qualcuno. Che la sua fame sia degna quanto la
mia. Amen.
Ho salutato Varsavia in fretta, quasi fuggendo. E’ sempre
difficile lasciarsi alle spalle la bellezza, la meraviglia che muta subito in
acuta nostalgia. Il cielo plumbeo, grigio come la strada, mi ha aiutata; via
quindi per il centro, è solo un
arrivederci, via per il ponte sulla Vistola e per i lunghi vialoni che, in
breve, portano fuori città.
C’è molta umanità che s’arrangia, in periferia;
anziani, alcolizzati, semplici poveri senz’altra connotazione vendono di tutto
e di più al ciglio della strada, per terra, su banchetti improvvisati; chi tre
pomodori, chi un paio di scarpe, chi tè caldo. Sembra quasi di esser tornati a
Belgrado, chi l’avrebbe mai detto? La grande, prussiana Polonia ha anche lei un
volto umano dolente; ma la sovrapposizione di panorami dura poco.
Una rotonda, un passaggio a livello ed eccomi di nuovo in
campagna. Nel frattempo si è anche rasserenato il cielo e tutto si scrolla di dosso
l’ombra e torna a ridere di verde e azzurro immenso; riecco i pratoni, le
casette di legno, i crocifissi addobbati, le mucche, i fiori e le cicogne. I
primi 50km sono volati via così, in un’ubriachezza da paesaggi dolci e
ritrovata semplicità, dopo gli affascinanti e molli sofismi della capitale. Ero
felice di essere tornata dove ci sono solo la terra, le radici e il cielo, dove
l’uomo c’è ma solo in parte e la vita e la morte si succedono senza finte
eternità di pietra.
Poi sono cominciati gli ostacoli. Il vento, forte e laterale
o contrario. E la sabbia.
Sapevo che nella tappa di oggi ci sarebbero stati alcuni
sentieri. Non immaginavo però che anche quelle segnate dalla mappa come strade
fossero sterrate. Quasi tutte, tra un paesino rurale e l’altro, sono sterrate.
In fondo passano più trattori e bestie che auto, l’asfalto serve a poco.
Ma non si tratta di sterrato normale. No, è sabbia. Sabbia
finissima, asciutta, spessa. Come quella della spiaggia, per intenderci. Avete
mai provato a pedalare sulla sabbia? Gli effetti sono due: il primo è che le
ruote girano a vuoto, e per fare pochi metri serve tanta forza quanta ne
basterebbe per far avanzare un T-34 a pedali. Il secondo è che tenere la bici
dritta e non cadere è impresa ardua. La Signora ha un culone pesante che amplifica
entrambi gli effetti. Quindi sono partita a bestemmie e sgommate, ho proseguito
a piedi e ho concluso ridisegnando lì per lì la traccia (allugandola e non
poco, ma son meglio 30km in sella che 15 a piedi). In tutto ciò considerate il
vento, che sollevava la maledetta sabbia a raffiche; me ne son ritrovata nelle
scarpe (ohhh quanta strada nei miei sandali/ quanta ne avrà fatta Bartali…),
fra i capelli, fra i denti (cric cric… La nuova frontiera del fastidio) e cara
grazia non nel bucio, che sai che male smerigliarsi così.
Ogni tanto pioveva per qualche minuto, in tutto questo.
Però, pian piano, mi sono portata fuori dalla ragnatela di
sentieri assassini.
E mi ci sono trovata in mezzo. Ai boschi antichi e alti,
estremo lembo della foresta Bialowieza; la vedrò domani, nella parte polacca, e
dopodomani, in quella bielorussa. E’ l’ultima traccia di quella che viene
definita “foresta originaria” europea, ovvero quel fitto manto verde che,
millenni or sono, copriva il Vecchio continente. Vi si trovano ancora i bisonti
europei, i konik (cavallini sevatici), cinghiali, alci, orsi, linci, lupi e
querce che avrebbero molto da raccontare. Oggi, di tutto questo bendiddio di
natura, non ho visto nulla. In compenso, fra i tronchi fitti e il muschio, ho
visto numerose anime strappate, a brandelli, fluttuare nella penombra.
Queste radici hanno bevuto moltissimo sangue. Gli alberi
sono infatti silenziosi e neri, pura diffidenza verticale; lo si percepisce
sfiorandoli. Hanno visto anche troppo. Qui, nel voivodato di Podlachia, sono
passati l’esercito polacco-lituano, in marcia verso Tannenberg, il Diluvio
(Potop) dell’esercito svedese, i russi, quasi ogni secolo, con il fuoco e il
piombo, i tedeschi, i russi di nuovo e non come liberatori, ma come invasori
(grazie al trattato Molotov-Ribbentrop), i tedeschi e i sovietici. A fasi
alterne, tutte finite in massacro. Katyn non è distante, ci passerò e ne
parleremo. Qui hanno vissuto i tatari venuti dalla Siberia, lasciando piccole
moschee di legno e occhi felini; qui sono morti gli ebrei, a centinaia di
migliaia, per mano russa, prima e dopo lo zar, e per mano del Reich. Qui
c’erano Treblinka, Sobibor e gli altri campi satellite. Fucine di morte.
900.000 anime in pochi mesi, solo 18 sopravvissuti.
“Questi luoghi isolati erano stati scelti, con l'approvazione del Reichsführer
delle SS Heinrich Himmler, per farne un enorme carnaio, quale l'umanità non
aveva ancora mai conosciuto prima dei nostri giorni crudeli, neanche al tempo
della barbarie primitiva” scrive Chil Rajchman.
"Durante tutto l'inverno, ogni volta i bambini
piccoli, nudi e scalzi, restavano per ore e ore all'aperto, in attesa del loro
turno nelle camere a gas, sempre più affollate. Le piante dei piedi si
ghiacciavano e s'incollavano al suolo gelato diventando un tutt'uno con esso.
Lì fermi piangevano; alcuni morivano congelati. Nel frattempo gli aguzzini,
tedeschi ed ucraini, battevano e li prendevano a calci. C'era un tedesco di
nome Sepp, o forse Zopf, una bestia vile e feroce, che traeva piacere nel
torturare i bambini, nell'abusare di loro. Spesso strappava una creatura dalle
braccia della madre e squartava il bambino a metà oppure lo agguantava per le
gambe e gli fracassava la testa contro un muro [...] tragiche scene di questo
tipo si verificavano continuamente. La gente di Varsavia veniva trattata con
straordinaria brutalità e le donne ancora più degli uomini. Sceglievano donne e
bambini e, invece di portarli alle camere a gas, li conducevano alle graticole.
Lì costringevano le madri impazzite dall'orrore a mostrare ai figli le griglie
incandescenti dove, tra le fiamme e il fuoco, i corpi si accartocciavano a
migliaia, dove i morti parevano riprendere vita e contorcersi, dimenarsi; dove
ai cadaveri delle donne incinte scoppiava il ventre e quei bambini morti ancora
prima di nascere bruciavano tra le viscere aperte delle loro madri.
Dopo che gli assassini si erano riempiti gli occhi del loro terrore, erano
uccise lì, accanto ai fuochi e gettate direttamente nelle fiamme. Le donne
svenivano per la paura e le bestie le trascinavano ai roghi mezze morte. In
preda al panico, i figli si aggrappavano alle madri. Le donne imploravano
pietà, con gli occhi chiusi come per risparmiarsi quella scena spaventosa, ma
gli aguzzini le guardavano divertiti: tenevano le vittime in straziante attesa
per diversi minuti prima di finirle. Mentre si uccideva un gruppo di donne e di
bambini, gli altri erano lasciati lì davanti ad aspettare il proprio turno. Di
volta in volta i bambini erano strappati dalle braccia delle madri e gettati
vivi nelle fiamme, mentre gli aguzzini ridevano e incalzavano le madri ad
essere coraggiose e saltare nel fuoco per seguire le loro creature [...].Gli abitanti di Wólka, il paese più vicino a Treblinka, raccontano che a volte le urla delle donne erano così strazianti che l'intero paese, sconvolto, scappava nel bosco, lontano, pur di non sentire quelle grida lancinanti che trafiggevano gli alberi, il cielo e la terra. E che, di colpo, si zittivano, per ricominciare altrettanto improvvise, altrettanto tremende, e penetrare di nuovo nelle ossa, nel cranio, nell'anima [...] Tre, quattro volte al giorno. Gli abitanti di Wólka, il paese più vicino a Treblinka, raccontano che a volte le urla delle donne erano così strazianti che l'intero paese, sconvolto, scappava nel bosco, lontano, pur di non sentire quelle grida lancinanti che trafiggevano gli alberi, il cielo e la terra. E che, di colpo, si zittivano, per ricominciare altrettanto improvvise, altrettanto tremende, e penetrare di nuovo nelle ossa, nel cranio, nell'anima [...] Tre, quattro volte al giorno." (Wiernik)
Ecco dove sono finite Varsavia e tutti gli abitanti di questa zona, che contava villaggi contadini con più di metà popolazione di discendenza ebraica. Sono qui nei boschi neri. Sono qui nel silenzio.
Anche la città dove mi trovo ora, Ciechanowiec, è stata flagellata dai russi e dai tedeschi, e da allora non si è più ripresa. Da centro di studi zoologici e di piccola manifattura è diventato un paese fantasma per lunghi anni. Ora si è ripreso e convertito al turismo, con ben due o tre strutture, un fiume pieno di morti, boschi pieni di morti, campi pieni di morti e vento pieno di cenere dei morti. Ma non si vedono, i morti, ormai. E fingiamo non ci siano. E’ stato anche messo in piedi un museo a cielo aperto della vita rurale polacca. Ci sono, ricostruite, le abitazioni in legno e paglia dei contadini. Identiche a quelle che ho visto io attraversando la nazione da parte a parte, ancore usate.
L’hotel in cui sono si trova proprio nel parco-museo, e vanta un menu tradizionale con piatti polacchi e tartari, pesce fresco pescato nel fiume e cose ben buone.
Certo, io da queste parti non andrei in giro, di notte. Già da qui sento, nello stormire delle foglie del bosco, a pochi metri dalla finestra, il lamento di chi, sotto a questo strappo di cielo, ha trovato la sua ultima, eterna casa. Nella linfa e nella corteccia corre la memoria, e son tutte tombe questi alberi d’ombra.
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