23/08
Una tappa che si rispetti non può
che cominciare con una colazione che rispetti, così al kafè Bajkal, sperso
nelle verdi lontananze della Siberia orientale, mi hanno offerto paninazzo con
hamburger e gelato Magnat, che sarebbe il Magnum, così da iniziare con il piede
giusto la giornata.
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si digerisce.
Mi aspettava una tappa di poche salite e qualche kilometro
più del solito perché con Raymond avevamo deciso di avvicinarci il più
possibile a Irkutsk, così da poterci fare una quasi sosta il giorno successivo.
Dunque la meta era Angarsk.
Come sempre il giovanotto bretone
è partito ben prima di me, in modo che ciascuno potesse percorrere la tappa al
proprio ritmo e senza patemi. Anche oggi non ho incontrato Ray per l’intero
tragitto, anche oggi ho pensato di esser partita troppo, troppo tardi rispetto
a lui. Anche oggi l’ho trovato poi esattamente due metri prima del punto
stabilito per l’incontro, il ponte d'ingresso alla città. Oh Raymond, che tempismo!
Fatto sta che quindi ho pedalato
in solitaria anche oggi, con però la consapevolezza di non esser sola del
tutto, nè da tutti lontana; ed è bello, così.
Mi sono lasciata presto alle
spalle l’Alarskij rayon, che ha per capoluogo Kutulik, notando che proprio in
corrispondenza del cartello che segna il confine del distretto i viaggiatori
usano gettare una moneta, spesso piegata in due con i denti.
La strada, così,
si trova ad essere tappezzata di rubli e kopeki, alcuni nuovi e scintillanti,
altri infossati nel fango e mangiati dalla ruggine. E’ così da sempre, da
quando passavano da queste parti i nomadi sulla strada del principe senza casa
e guerriero Alar, che ha dato nome alla regione, è così da quando i cosacchi
transitavano su sentieri di fango nella neve sciolta a primavera, in vapori di
vita nuova. E’ così da quando i mercanti affamati di oro, pellicce e spezie
battevano per primi il tracciato che sarebbe poi diventato la grande strada di
Mosca. E’ così da sempre e ancora chi passa getta una moneta perché il viaggio
e i cieli siano clementi. Da lì sono poi ricominciate le colline, sempre più
morbide però e dolci nei loro bassi pendii, splendide d’ondante d’oro delle
spighe al vento. Spighe mature, vento contrario.
In una luce polverosa e
obliqua sono giunta a passare la Belaya, affluente dell’enorme, ultimo fiume
che incontro in questo viaggio, l’Angara.
Ad accogliere, dopo il ponte, ci
sono tre mammut, che non sono tre pelosi camionisti russki ma il monumento
dedicati ai reperti archeologici trovati dove ora sorge un antico paesino di
contadini (e stranamente non di muratori), Malta.
In un soffio di luce ramata sono
poi giunta a Usolye Sibirskoye, un’orrenda cittadona tutta a ciminiere e
palazzi di cemento che giace nel fango secco e nella polvere, ai bordi
dell’autostrada; nella tabella di marcia stilata a casa avevo previsto di
fermarmi qui, ma vista la (in)natura del luogo, forse meglio tirar dritti e
andare avanti. A poca distanza mi sono imbattuta nella bella chiesa
ottocentesca dedicata alla Madonna di Kazan, in stile barocco siberiano, che si
staglia al centro di Thelma, villaggio fondato a metà Seicento e sviluppatosi poi
nel secolo successivo grazie alla costruzione di una fonderia e di una fabbrica
di tessuti.
Ancora un po’ di fatica, ancora
qualche colpo di pedale, ancora gocce di sudore nell’ultimo sole estivo di
quest’angolo di mondo, e sono giunta alla meta prefissata: Angarsk.
E’ una città giovanissima,
costruita tra 1945 e 1948, che prende nome dal fiume Angara, ma viene chiamata
anche “città nata dalla vittoria” o “città petrolchimica”. E son proprio queste
le due anime del luogo. Da un lato le industrie chimiche, le raffinerie e gli
impianti di lavorazione dei combustili fossili; dall’altro i rifugiati, gli
esodati, i sopravvissuti, i lavoratori trasferiti a seguito della Seconda
guerra mondiale. Masse umane che, dopo 4 anni di conflitto, si sono ritrovate
senza più un tetto a cui tornare, ormai lontanissime da casa, una casa che non
esisteva più. E così si è deciso di costruire una città nuova, dove questi
naufraghi della storia potessero metter nuove radici, e crescere i figli e
lavorare nelle industrie della Russia vincitrice e così sconvolta dalla
violenza, ammutolita dal regime.
Angarsk è una città ancora in
espansione: ci sono nuove case e interi nuovi quartieri in costruzione, una
chiesa di cui per ora ci son solo i muri portanti e tra le impalcature e tutto
ferve in un’aparente quiete di cupo cemento. Gli anni scorsi han trovato qui rifugio numerose famiglie di ucraini.
il centro geometrico della città, con un bel Lenin nero nero |
il municipio |
il csiddetto carillon, una sorta di campanile ma senza chiesa, bensì con stella rossa |
il prestigioso museo degli orologi, con bus con la data di fondazione della città |
il monumento ai gloriosi costruttori di Angarsk |
un monito: come si diventa a viver qui |
In tutto questo, io e Raymond non
avevamo un posto dove passare la notte.
Stando al menzognero Google, la
città è piena di alberghi. Tre in ogni via, cinque nelle vie più grandi. Pieno,
pienissimo di strutture ricettive. Quindi ci siamo dati appuntamento al ponte
per oi cercare insieme l’hotel che più ci sarebbe piaciuto. Cerca il primo
della mappa, e non esiste. Cerca il secondo, ed è chiuso, cerca il terzo, e ci
sono i lavori in corso. Il quarto non ha posto. Primi brividi d’ansia. E mo?
C’è il Pushkin, ma costa troppo. E’ di lusso, cinque stelle, non ci siamo. Cerca ancora, chiedi, fruga la
città e nulla. I millemila hotel si rivelano tutti, mano a mano, miraggi
inconsistenti, ombre vane della speranza di potersi riposare. Mentre io e
Raymond cercavamo soluzioni alternative sotto una pioggia fina fina che
accompagna sempre i momenti più drammatici, veniamo raggiunti da un uomo in
bicicletta, un pescatore evidentemente, con i baffi e il sorriso largo e d’oro,
stortissimo d’alcol e obliquo nel pedalare. Ci chiede se abbiamo bisogno. “Sì!
Cerchiamo una gostinitsa!”. “Ah, bene, seguitemi!”.
Inizia così la corsa dell’Angara
Dream Team, composto dal campionissimo Raymond, 66 anni, veterinario bretone,
cicloviaggiatore; dalla Volpe a pedali, 26 anni, italiana, esordiente in
confronto ai veterani là avanti; dal pescatore in mimetica, tanto gentile
quanto ubriaco.
Battiamo ogni hotel della città,
guidati dal buon uomo, e la risposta è sempre la stessa: niet.
Si finisce così tutti e tre
davanti al Pushkin, unico albergo in cui non abbiamo nemmeno messo il naso. Ed
è lì che finiremo a dormire io e il buon Ray, per altro dividendoci la suite,
un po’ perché è l’unica rimasta libera,
un po’ per divider la spesa.
In breve diventiamo i nuovi idoli
della receptionist, abituate a spocchiosi borghesucci di provincia con il
portafoglio pieno, il vestito buono e le cattive maniere.
La giornata si conclude con una
cena a base di spiedini cotti sulla griglia e luci sempre più basse, in questa
parte di mondo che per qualcuno è un ombelico, per altri una tomba, per altri
ancora un semplice nome mai sentito sulla mappa, denso d’anime e altro fumo bianco e denso.
Irkutsk ci aspetta, qui poco avanti, e l'orizzonte si fa meno sconfinato.
Questa nuova svolta insieme al signor Raymond è favolosa. È straordinaria l'intesa che si può trovare con un altro viaggiatore che condivide i tuoi stessi obiettivi, quel vostro lasciarvi la mattina per ritrovarvi la sera, per avere e dar modo di proseguire il VOSTRO PROPRIO viaggio. Un saluto immenso a tutti e due!
RispondiElimina"...La consapevolezza di non esser sola del tutto, né da tutti lontana...".Sì, è davvero molto bello condividere le proprie passioni, le proprie aspirazioni, le proprie fatiche nel raggiungimento di una meta. Sila
RispondiElimina