Uno si aspetta di trovare un
francese sotto alla Tour Eiffel, al Louvre, in una panetteria di Marsiglia o a
pesca con gli stivaloni di gomma su in Normandia. Uno si aspetta di trovare un
francese in molti luoghi, ma non certo in Siberia orientale, in mezzo ai boschi
neri di pioggia, in bicicletta, tu e lui.
E invece.
Questa mattina me ne sono andata
da Nizhneudinsk piano piano, quasi con lenta pigrizia di bradipo, perché
pioveva e non è che avessi troppa voglia di pedalare per 120km su e giù tra le
colline scure, esposta al vento e all’acqua come una barchetta che arranca in
mezzo al mare in tempesta. Si stava così bene all’asciutto, al morbido, al
caldo… Però, fattasi una certa, m’è comunque toccato uscire e buttarmi sulla
strada, perché i kilometri sono lì e van percorsi, non c’è modo di metterseli
alle spalle altrimenti, nessuno me li può regalare.
C’è da dire che ormai sono
talmente abituata a questo genere di fastidi da non accorgermene nemmeno più.
Non mi sono neanche accorta di impregnarmi lentamente di grigia pioggia, di
inzaccherarmi fino a diventare una statua di fango incollata alla bici. Non
faceva freddo, non c’erano problemi di visibilità e quindi via con
tranquillità. Una cosa invece continua a farmi tirar giù tutti i santi
cattolici e ortodossi: le condizioni del fondo stradale. Ma voi non avete idea,
è una cosa che per un europeo nato dopo la guerra è inimmaginabile,
inconcepibile proprio. La palta, la sabbia fradicia, le buche da bombardamento
piene di acqua marrone e schiumosa, che nasconde il pericolo come una trappola,
i sassi aguzzi, la ghiaia buttata su tutta la carreggiata dalle auto che
sbandano. Un delirio, un incubo terribile che costa fatica e ansia, ansia e
fatica. Oggi poi, a metà tappa, ho incrociato dei cantieri allucinanti: vi dico
solo che ampi tratti di AUTOSTRADA erano STERRATI con il fango e i sassi e i
camion che, pur rallentando, sbandavano e andavano tutti sbilenchi, tra un
sobbalzo e un deragliare più o meno sotto controllo. Salite così, discese così.
Bestemmie fortissime.
Facendo attenzione a tutti questi
inutili maledetti rischi dovuti al fondo stradale, sono uscita dalla città
attraversando entrambi i rami del fiume Uda, che rifletteva senza fantasia gli
umori del cielo di alluminio.
Una cosa buona è stata invece il vento, oggi
abbastanza a favore: ma che bello, che godimento! L’aiuto di quella mano
invisibile che accompagna con continue spintarelle sulla schiena è tutt’altro
che irrilevante, e sono arrivata oggi alla meta presto e senza troppa fatica.
Grazie Eolo, continua così, dai, ancora per un paio di settimane. Ho bisogno
anche del tuo aiuto per compiere quest’impresa, su, non mi sembra di chiedere
troppo, solo di venire con me a sud-est, di accompagnarmi per questo tratto di
strada; cosa saranno mai per te questi spazi, tu che corri i cieli e le terre
da un capo all’altro del mondo.
Mentre formulavo queste preghiere
pagane nella solita giostra di salite e discese, sotto lo sguardo di pini e
betulle grondanti pioggia,
vedo davanti a me, sulla strada, un puntino giallo e
blu che si sposta piano piano.
Sarà qualche motorino scassato o qualche
biroccio a scoppio di quelli che i contadini qui usano per portare il fieno, il
maiale e la moglie al mercato.
Dopo qualche minuto il puntino
sparisce e mi convinco che l’ipotetico motociclista abbia svoltato nel fango di
qualche sentiero per raggiungere la propria izba, sicuramente sbilenca, di
legno scuro con le finestre azzurre e il fumo bianco che esce dalla canna in
metallo della stufa.
Poi, il puntino ricompare e vedo
che si muove quasi a zigzag, come se stesse andando troppo piano per restare in
equilibrio. Accelero il passo. Eh ma quella è una bicicletta però. Sempre più
chiaramente si delinea lì in quel vuoto d’umanità un cicloturista fatto e
finito, con borse anteriori e posteriori, caschetto, antivento giallo fluo. Mi
accodo e, prima di affiancarmi spero forte che non sia un cinese di quelli che
sorridono molto ma non parlano un’acca di inglese. Perché, in tal caso,
l’incontro mi darebbe tanto quanto la conversazione con uno dei molti corvi
imperiali che incrocio quotidianamente per via.
Mi accosto. “Hello!” esclamo
sorridendo e vedo che il volto è da “occidentale”. Un omino secco e cotto dal
sole e dal vento, sicuramente non giovane, piccolo e infagottato in vari strati
antipioggia, con le gambette magrissime, abbronzatissime e muscolose che
sbucano dai pantaloni corti e finiscono in un paio di sandali. Miiii con sto
freddo i sandali! Che coraggio! “Hello” mi risponde stupito. E inizia così una
bella chiacchierata con Raymond Puill, bretone, anni 66. E’ partito da casa e
sta andando a Vladiostok, dove si imbarcherà per il Giappone. Ma attenzione,
questi sei mesi di viaggio cadono dopo altrettanti passati a pedalare in
Thailandia con la figlia, il marito di lei, e il nipotino di un anno, imbustato
in un carrettino a traino. E quando è partito per quel viaggio era da poco
tornato dal periplo degli States, sempre in bici ovviamente. “Ma sei stato
dappertutto!” “Eh, se contiamo anche l’Australia, la Cina e la Mongolia, il
Sudamerica e l’Europa… Un po’ quasi, sì. Approfitto della pensione!”. Giusto,
grande Ray. Ero già convinta di aver trovato, almeno fino a Ulan Ude, un
compagno di viaggio. Purtroppo i 40 anni di differenza che ci separano pesano
sulle gambe e sulla schiena di Raymond, che a fatica stava al passo (ed io
stavo comunque andando piano), soprattutto in salita. Si sarebbe infatti
fermato a metà della mia tappa. “Vai troppo forte per me”. Ma uffa. Così,
perché io non rallentassi troppo e lui non infatuasse, ci siamo dovuti salutare
presto. Ci siamo fermati a bordo strada, lui ha fatto foto con una Nikon grande
e con il tablet e con il telefono, lamentandosi poi di aver portato troppa
roba. “Mi si è pure rotto il borsello davanti. Sono caduto ieri l’altro per
colpa del fango” e mi mostra le gambe piene di croste e lividi. Ah il fango,
vedi ben che c’è da stare attenti. Ci siamo scambiati i contatti Facebook e poi
via, ognuno per la sua strada, che è la stessa, ma in tempi diversi. Perché in
questi viaggi tutto si gioca sull’improvvisazione e sul cogliere l’attimo, ma
non ci si può inventar nulla, non ci si può fingere altro da ciò che si è. La
realtà chiede costantemente il conto e gli spazi, i tempi, la natura concreta
delle cose si impongono su tutto. Non ci sono i vorrei, i se, i magari. C’è la
strada, ci sono le proprie forze su cui contare, e c’è la sorte. Virtù e
fortuna, per dirla con Machiavelli. Fine dei giochi.
Bonne route! Sento alle mie
spalle e sono già nel vento. La tappa era quasi ancora tutta davanti, tutta da percorrere
ed era già tardi. Eolo e le pendenze meno aggressive rispetto ai giorni
scorsi mi hanno permesso di scivolare tra la ferrovia e paesaggi più umani,
campi e pratoni, tra colori che ormai sanno di autunno. La bella stagione sta
per volgere al termine e si legge nella luce obliqua e nel seccarsi delle
foglie, nel cielo e nella terra. Conviene andare, e senza esitazioni.
Questa regione precisa in cui mi
trovo ora è nota e studiata dagli esperti per i bruschi, improvvisi e
imprevedibili sbalzi di temperatura e meteo schizofrenico, che fa saltare il
termometro da un opposto all’altro. Confermo. Se al mattino pioveva, il
pomeriggio si era steso in un pallido azzurro polveroso, ma pur sempre baciato
dal sole. In un paio di minuti, a 13km dall’arrivo, si è addensato un temporale
nero come l’apocalisse, tra tuoni, fulmini e scrosci violentissimi che mi han
costretta a riparare ad una fermata del bus: non si vedeva nulla. Ma niente
proprio, pareva di stare sul fondo di un lago torbido.
Fortuna vuole che la
follia del cielo va in entrambe le direzioni, quindi nel giro di una mezzora i
nuvoloni si sono sciolti e il sole è riemerso tra lame di luce.
Tutto il
pomeriggio è stato poi così, come ho potuto notare dalla finestra, comodamente
spaparanzata in camera.
La destinazione di oggi era
Tulun, capitale del meteo matto e sbagliato.
Sorge sulle sonde dell’Ija e
infatti il nome deriva dalla parola in linua sacha, o jakuta (parlata dai
sacha, popolazione turco fona della siberia del nord, animista, che si nutre di
latte e carne di cavallo e cervo), “tolon” che significa valle. Già all’inizio
del XVIII secolo sorgeva qui un villaggio, menzionato nel 1735 da un botanico
(Gmelin) che ha tenuto un diario della spedizione in Kamchatka di cui faceva
parte. Parla di ben 10 case di contadini. A permettere lo sviluppo
dell’insediamento è, questa volta, non solo la Transiberiana ma la strada da
Mosca, nella seconda metà del Settecento; la ferrovia avrà lo stesso effetto ma
un secolo più tardi, dal 1897. Tulun cresce, sorgono fabbriche, soprattutto
legate alla lavorazione del legname e all’estrazione del carbone, di cui qui
c’è un giacimento enorme. Convivono qui cinesi, russi, buriati, ebrei, zingari,
polacchi, tedeschi, ucraini. La rivoluzione e la guerra sortiscono però un pessimo
effetto sull’economia del paesino, che rimane spopolato. Una ripresa si avrà
solo negli anni Cinquanta, con l’apertura di nuove aziende, per poi ricadere
nella crisi del crollo dell’Urss. Vanta una bella e particolare chiesa, oggi in
ristrutturazione, che risale al 1913 ed era parte di un convento ormai in rovina; poi ci son izbe e periferie di lamiera e fumo, campetti da
basket con le capre, vecchi palazzi molto storti, che resistono con quella inspiegabile, irrazionale e cieca forza russa, e un Lenin che osserva tutto il viavai del divenire in
silenzio.
Io sto ‘na crema, invece, in
questo bellissimo alberghetto tutto carino, fresco e nuovo, incastrato al secondo piano di un sovie-palazzone nella via centrale del paese. Via Lenin, ovviamente.
Il personale, dopo
avermi detto di portar pure bagagli e bici in stanza e aver visto le quantità
di fango e schifo gocciolante che ho menato meco, sta un po’ meno bene. Ma che
ci volete fare? Io e la Signora abbiamo la strada addosso, e tutta questa terra
son granelli di libertà.
E zozzura. Sì. Siamo luride e sporche. Ma a me basta una doccia, alla Signora un acquazzone notturno, e siamo bellissime e scintillanti, rosse schegge di vento nei cieli di Russia.
Poi g'avemo l'anguria che è un sorriso scarlatto per natura sua, che vuoi di più?
Tu, bellissima e scintillante, hai scattato una foto che è un capolavoro di fresca gioia. Sila
RispondiEliminala tua avventura è straordinaria brava volpe e grazie x i posti che a me sconosciuti mi fai conoscere anche nei dettagli sei mitica
RispondiElimina