Facciamo una piccola ma
necessaria premessa. Non amo i preamboli, però questa cosa va detta.
Fare più di 100km, con 2100 e
fischia metri di dislivello, con una bici che pesa 35kg, ovvero solo 15 meno di
me, non è proprio un’idea brillante. Si può fare, certo. Ma ci sono motivi
migliori al mondo per tirar giù tutti i santi in una continua giostra danzante.
Ci sono modi migliori per sudar pure la cresima.
Detto questo…
Sono arrivata sulle rive del
Bajkal!!!
Certo, il lago non si è fatto
vedere che negli ultimi kilometri di tappa, proprio sull’ultima, lunghissima
discesa che dalle creste dei monti dove sono rimasta appesa l’intero giorno
porta al primissimo paese lambito dalle acque scure di questo mare d’acqua
dolce, paese che era anche la mia meta, Kultuk.
Raymond ed io siamo partiti
insieme, stavolta, per uscire da Irkutsk nel modo più indolore possibile. Le
grandi città sono sempre un casino da attraversare in bici, soprattutto se ci
sono i bagagli ad appesantire ogni manovra, se ci sono incroci folli e con
salite a tradimento, come qui, se alla guida ci sono i russi, come qui.
Sicchè abbiamo richiuso tutta la
baracca e i burattini annessi nelle borse e via, ma via piano piano perché
davvero il traffico cittadino in Russia è letale e bisogna essere attentissimi,
cauti e concentrati a rimediar la disattenzione altrui.
Così i primi kilometri sono stati
lenti e faticosi per la testa, mentre tutti gli altri lenti e faticosi per le
gambe. Appena fuori Irkutsk ricomincia l’autostrada, l’unica via che taglia
questa catena montuosa e porta al lago. Si viene accolti da questo mendace
cartello, fin da subito, che fa presumere che il Bajkal non sia poi così
lontano.
No, in effetti in linea d’aria
non lo è.
Però, superati un paio di paesini
ancora molto, molto orgogliosi del proprio passato proletario, superata Shelekov
con la sua statua di falce e martello,
ci si trova catapultati su colline
sempre più selvagge e ripide di rocce e bosche, e poi su montagne completamente
disabitate. In tutto il giorno, iniziate le salite, ho incrociato solo due
villaggi microscopici con relativo kafè na ulitsa (on the road), e null’altro.
Non un motel, non una gostinitsa, non una casa. Per fortuna, sapendolo, mi ero
equipaggiata a dovere con cibo e acqua in modo da essere autonoma per l’intero
tragitto.
Alle prime colline Raymond mi ha
proposto di separarci e andare ognuno al proprio passo: lui era in ansia perché
stava correndo troppo, mentre io dovevo fermarmi di frequente ad aspettarlo. Mi
ha soprannominata Rita Pantanì, con l’accento sulla ì alla francese, e così ci
siamo salutati, dandoci appuntamento all’arrivo a Kultuk. Qui avevo prenotato
con Booking una stanza, ma non ero certa che la pratica fosse andata a buon
fine perché mi era stato richiesto un pagamento anticipato con bonifico che non
avevo fatto, perché qui in Russia vogliono che si trasferisca il denaro sulle
loro carte prepagate, ma è un’operazione molto complessa da fare dall’Italia
(le loro carte sono diverse dalle nostre, hanno più cifre, non si riesce ad
inserirle nei terminali ed è tutto un casino enorme). Questo però a Raymond non
l’ho detto. Se ci fossero stati problemi lì, avremmo poi cercato insieme un
posto dove passar la notte.
Con pure il cruccio dell’albergo,
mi sono arrampicata su un numero imprecisato di salite, tutte ripide, cattive,
con il bordo stretto e i tornanti pieni di sassi.
Non so se le due cose siano
collegate, ma mi piace pensarlo: qui ci sono moltissimi paesini che portano il
nome di Shamanka, e molti di essi spillano soldi ai turisti vendendo collanine
e aggeggini legati alla religione dei nativi, che venera il sole (e lo credo!),
l’acqua, lo spirito degli alberi e l’anima di tutto ciò che vive o che ha
vissuto ed ora aleggia tra muschio e corteccia.
Dunque ci sono i paesi Shamanka,
e ad ogni vetta di collina si trovano alberi coperti di nastri colorati e fili
di perline; a terra, monete piegate in due, lanciate da chi passa perché la
strada sia clemente e il viaggio propizio.
Nel grigio sempre più cupo del
temporale che mi si sarebbe rovesciato in testa di lì a poco, ho attraversato i
neri boschi nel più totale silenzio,
incrinato solo a volte dal grido di un’aquila.
Salite, discese. Salite, discese.
Una cima. Discesa. Salita. Un’altra cima.
E’ stato davvero faticoso e in
più di un’occasione mi son dovuta fermare per riprender fiato e sgranchire
gambe e schiena. Son stata costretta a far gran parte della tappa sui pedali,
fuori sella, anche perché il cambio anteriore più morbido, il rampeghino, ha
deciso di scioperare.
E sali, e scendi. E risali, e riscendi.
Sempre davanti agli occhi altri
muri da scalare, muri verdissimi di bosco fitto, in un orizzonte chiuso e umido
di linfa, altero nel silenzio in cui stava chiuso quasi a giudicare la mia
hybris, io che oso sfidare i monti di Siberia e dovrei soccombere.
E invece no.
L’unica anima incontrata lungo la
via è stato Dmitry, questo grosso e sorridente omone.
Gentilissimo, buono come
il pane davvero. Mi sono fermata a 30km dall’arrivo nel suo kafè, uno di quei
posti tutti in legno e con gli attrezzi agricoli, che mimano antichi
insediamenti cosacchi. Un po’ kitsch, ma nemmeno troppo vista la location.
Volevo soltanto dell’acqua, per non restare completamente a secco e non sapendo
cosa ancora mi aspettasse lì negli ultimi strappi. Lui invece, quando ha scoperto
che sono italiana mi ha offerto, oltre all’acqua, tè nero con miele, frittelle
appena cucinate, ravioloni dolci con panna… Insomma, una cena più che una
rapida colazione. Non che io abbia disdegnato, anzi! Diceva che lui è
innamorato dell’Italia, è stato tante volte a Milano e a Venezia con la sua
donna, che gli ha fatto spendere una fortuna in vestiti e scarpe e borse e
tutte quelle porcate d’alta moda per cui i russi ricchi vanno matti. Mi ha pure
lasciato il suo numero, pregandolo di chiamarlo in caso avessi avuto qualunque
tipo di problema. Poi mi ha chiesto se poteva provare a parcheggiare la Signora
sulla rastrelliera per bici costruita con le sue manine d’oro e saldata pezzo a
pezzo da lui. Certo! Voleva vedere se le misure eran giuste. Poi ho capito.
Aveva lasciato, tra una barra di metallo e l’altra, spazio per la ruota di una
moto, ma una moto bella grossa. La bici ovviamente non stava in piedi. Tutto
sconsolato mi ha spiegato che lui non ha una bici e non ne ha mai viste da
vicino, aveva controllato le misure su internet ma evidentemente aveva
sbagliato.
Povero Dmitry, pieno di soldi,
con le scarpe di Armani e il borsello di Gucci, e nessuna idea di come sia
fatta una bicicletta.
Nel giro di poco ho incrociato la
ferrovia, che non corre in valle ma a mezza costa, tagliando a metà i boschi
come una lunghissima cicatrice.
Poi, finalmente, l’agognata
discesa. 10km di precipizio.
E il lago, là sotto, immenso
nelle nuvole basse, ora spalancato alla vista e non più nascosto da monti e
alberi.
Sua maestà il Bajkal. In Mongolo
e in Buriato si chiama Dalai-Nor, mare sacro.
Patrimonio dell’umanità, una
delle 7 meraviglie di Russia. Uno dei più grandi laghi al mondo, steso per
oltre 600km, con una superficie immensa, quasi impronunciabile, 32000km. Ed è
pure il più profondo al mondo: arriva a 1600m, in un abisso nero che si mangia
la luce, tra misteriose creature cieche e un mondo di gelido fango abissale. I
suoi ghiacci sciolgono completamente solo a maggio, csa che lo rende adatto
alle foche che lo abitano, le piccole nerpe*; il clima disumano è reso ancor
peggiore dal sarma, il gelido vento che frusta la superficie cupa con raffiche
fino a 150km/h. Nonostante i numerosi disastri ambientali che han messo a
rischio l’ambiente, le acque sono rimaste purissime e si può vedere fino a 40m
di profondità tanto sono cristalline.
Lungo le sue sponde si sono
alternate popolazioni diverse, che han portato qui diversi cieli: quello dello
sciamanesimo tibetano dei nomadi buriati, di cui parleremo domani, quello
azzurro e oro del buddhismo e infine quello di nero legno del cristianesimo
ortodosso, quando Kurbat Ivanov scoprì il lago nel 1643.
Sulle sue rive in tanti sono
morti, e le sue acque son diventate una grande tomba per i nomadi, per i cinesi
che qui combatterono nel ridicolo tentativo di aggiogare le acque a sottrarle
ai nativi siberiani, fin dai primi secoli dell’evo antico. Dal 1896 morirono
troppi operai e forzati ai lavori per costruire la grandiosa e tragica ferrovia
lungo la costa meridionale, tra ponti, tunnel e cadaveri congelati nel
bagnasciuga. Dopo la rivoluzione Bianchi e Rossi si scontrarono anche qui, e
qui passò la grande marcia nel ghiaccio siberiano, nel 1920. Le armate
anti-bolsceviche, ormai sconfitte, tentarono la ritirata attraversando a piedi
la superficie ghiacciata del lago. Morirono quasi tutti, i soldati, le loro
famiglie, gli uomini, le donne e i bambini, tutti congelati, nel sonno e mentre
camminavano, a causa del vento da nord. I loro cadaveri rimasero lì rattrappiti
sul ghiaccio fino al disgelo, quasi in estate, quando gli abissi senza luce
inghiottirono ciò che restava dei Bianchi. Kolchak era prigioniero a Irkutsk e
stava per essere fucilato. Il comandante Kappel tentò di portare in salvo in
Cina i superstiti, con l’oro dello zar, e di salvare Kolchak, ma il suo cavallo
cadde nelle acque gelide del fiume Kan e a lui, risvegliato dal coma, furono
amputate gambe e dita con un coltello; continuò a guidare i suoi legato al
cavallo per non cadere, quasi in coma, ma morì di polmonite. Vinsero i rossi,
il resto è storia già scritta.
Ed ecco che anch’io ci sono
arrivata, qui al grande mare sacro, e vederlo, pur grigio nelle nuvole basse
del temporale, è stata un’emozione grandissima. Ci sono, l’ho conquistato, e
sarà mio per sempre.
Quest’istante, l’attimo di volata
in discesa, il primo sguardo alle acque scure. Ormai sono frammenti del mosaico
della mia vita, e risplendono forte.
Per fortuna anche con l’albergo è
andato tutto bene. Trovarlo è stato difficile, perché situato in una via
sterrata che è un sentiero, ma c’erano le camere e la cucina, c’era un piccolo
negozio alimentari lì sotto nel fangoe c’era la finestra bella con vista sul
Bajkal. C’era anche un grado sotto zero, per cui i riscaldamenti erano accesi e
fumava il camino di fumo bianco, in questa piccola casa dall’altra parte del
mondo che ci ha accolti con il suo calore dopo tanta strada.
camera con vista |
EVVIVA!!Sei alla meta più ambita. GRANDE GRANDE, FORTE E CORAGGIOSA VOLPE!
RispondiEliminaUn abbraccio affettuoso. Sila