Quasi senza dubbio in questi
raviolotti vareniki
c’era un’abbondante dose di droga. A me parevano semplici
saccottini di pasta ripieni di semolino dolce, bolliti e serviti con la smetana
a parte. Ma siccome poi ho pedalato 141km con oltre 1000 metri di dislivello,
il vento e un caldo atroce, senza nemmeno accorgermi di aver già bruciato
l’intera tappa, evidentemente, nei vareniki c’era la droga. La tappa di ieri,
in effetti, è stata lunga e tutta, dall’inizio alla fine, in un infinito
rosario di salite e discese, strappi secchi sui fianchi di queste colline
sempre più ripide, o almeno così pare quando si inizia ad agognare la pianura…
Che non verrà più, in questo viaggio. Tuttavia non posso dire di essermi
stancata o di aver sofferto più di tanto. Sarà l’allenamento, sarà che
psicologicamente sono ormai temprata e quindi, se ho molti km davanti a me,
riesco a tenere la strada anche per ore senza mollare di un soffio. Sarà la
droga nei ravioli. L’unico problema è stato quello del rifornimento idrico.
Parto sempre con la borraccia piena (e con i sali minerali) e una bottiglia di
scorta, considerando che sulla strada si trovano comunque benzinai o persino
kafè dove è possibile comprare tutta l’acqua che si vuole. Ecco, di solito è
così. Ma non nel krai di Krasnoyarsk, dove per 100km non trovi altro che bosco
e bosco, pineta e pineta, bosco e pineta, pineta e bosco.
Sicchè per circa tre
ore di sole cocente e salite malandrine che fan sudare come un cinghiale
ferito, mi son dovuta far bastare le ultime tre dita d’acqua della borraccia,
centellinandole in sorsi sempre più piccoli, giusto per inumidire le labbra e
la lingua. Al primo baracchino che ho poi trovato ho scolato un litro e mezzo
di acqua e limone così, alla goccia, guadagnandomi la stima degli astanti, dei camionisti
e della barista.
Il paesaggio è stato piuttosto monotono e piacevole, verde
verdissimo e con aperture d’azzurro tra un bosco e l’altro, strappi d’immensa
luce e orizzonti smisurati.
E di nuovo boschi davanti, sulla discesa, e boschi
dietro, sulla salita appena percorsa. Così per ore.
L’unica traccia d’umano è
ahimè, quella dei venditori di cose a bordo strada. Se le suddette cose sono,
di solito, funghi, pigne, fragoline di bosco e mele, questa volta tra le merci
esposte si annoverano per lo più pellicce e animali imbalsamati. Orsi, lupi,
cervi, volpi. Un cimitero.
In questi boschi immensi c’è ancora tanta fauna
selvatica che vive libera dalla presenza umana, in un ambiente naturale a
tratti incontaminato. Ma l’uomo c’è, eccome se c’è. E si avventura armato tra i
tronchi e le felci e spara e ammazza, in un fuggi fuggi di corvi che si levano
in volo spaventati dal colpo. E non viene risparmiata la madre, non vengono
risparmiati i cuccioli. La morte arriva improvvisa e senza motivo, se non
guadagnare qualche rublo in più e farsi fotografare, con il sorriso idiota
della violenza, accanto alla preda. Ora, fra l’altro, io posso ancora capire il
cacciatore, che qui è un lavoro a pieno titolo e non viene messo in dubbio da
ombre di coscienza. Ma chi compra, chi alimenta questo mercato no, non lo
capisco. Come può uno accostare nella polvere con il suo suv e tastare le pelli
e accarezzare le pellicce, contrattando sul prezzo di quella morte, e poi
ripartire con un orso impagliato nel bagagliaio? Specie se è qualche turista
idiota che cerca l’esotico e crede così di poter vantare di essersi spinto più
in là dei suoi amici, con i quali si fa bello dell’acquisto osceno.
E ciò vale per la pelle d’orso
qui in Russia, per la foto con la tigre sedata in India, per il giro in
cammello o in elefante e per il corallo strappato dal suo abisso. Siamo una
brutta razza.
Fine dello sfogo.
Fortunatamente non sono nemmeno
poi troppi i cacciatori che vendono la loro roba a bordo strada, e sono più gli
spazi di foresta libera e selvaggia che quelli rovinati dai nostri simili.
Almeno qui.
Pedalando presta e lesta son
arrivata, tra case di dubbio gusto, alla meta di ieri, ovvero un ostello
all’interno dell’aeroporto di Krasnoyarsk. Perché prima, come dicevo, non c’era
nulla, fuor che boschi.
Così mi sono potuta fermare in periferia, per spostarmi
in centro con tutta calma il giorno successivo, cioè oggi, tattica ormai
consueta quando intendo visitare una città grande. L’ostello, popolato da
hostess assonnate e da personale dell’aeroporto, è più che buono, quasi deserto
e tranquillo. Ha solo due problemi: il primo è che non c’è modo di cenare o di
reperire cibo, se non cose piccole e tristi nell’unico negozietto in zona; la
micro-cena mi ha costretta a un infinito via vai alla macchinetta delle
schifezze e del caffè, perché sono una volpe ma mangio come un lupo famelico.
Il secondo problema è che c’è un solo bagno ed è al pian terreno. Io ero al
quinto. A parte le rampe di scale fatte su e giù con le borse, su e giù coi
sacchetti e il resto dei bagagli, su e giù con la bici, su e giù per ogni
richiesta e informazione, si aggiunge la questione della pipì notturna; che non
sarebbe nemmeno grave, non fosse che nel rincoglionimento, tornata in stanza e
senza accender la luce, ho preso in pieno un mobiletto in legno massiccio;
quello si è fracassato, io anche. Sono qui piena di lividi… Lo so già che, mai
dovesse succedermi qualcosa, non sarà in bici o sulla strada, ma nelle
situazioni più innocue e tranquille, quando ci si sente al sicuro e l’attenzione
cala. Tipo tagliarmi un dito mentre apro una latta con il coltello o
arruzzolarmi sulle scale mentre vado al cesso. In fondo la gente si fa male per
lo più in ambiente domestico, e non è un caso.
Fatto sta che, tutta sacagnata e
livida, stamattina sono scesa a far colazione, quella sì offerta dall’ostello e
davvero ben degna. Il salametto lì nel panino non l’ho ancora digerito ma amen.
Sotto un cielo plumbeo sono
ripartita alla volta del centro di Krasnoyarsk, capoluogo del krai; dopo dieci
minuti mi son resa conto di aver sbagliato tutto nell’abbigliamento: ieri
c’erano 30 gradi, oggi 6. E ha iniziato presto a piovere di una pioggina
finissima e gelida, spilli di ghiaccio. Che tempo di merda. O troppo caldo o
troppo freddo. Siberia, mon amour, sei tanto bella ma quanto a clima fai
proprio cagare.
Così i 50km scarsi di oggi non
son stati piacevoli affatto: freddo, freddo, sempre più freddo nonostante i
vari strati aggiunti mano a mano. Perché in salita sudi comunque, in discesa ti
surgeli come un’aringa del Baltico, con la pioggia e il sudore che ti si
raffreddano addosso e mi vengono i brividi solo a ripensarci. Tra l’altro, con
la pioggia, le strade si erano trasformate nell’ormai nota apocalisse
siberiana, che è fango, è ghiaia, è acqua lercia che nasconde le infide buche.
A ciò, si aggiungano le bande di cani randagi che ho incrociato nel primo
tratto di strada, che, in due casi, mi hanno inseguita abbaiando forte e
ringhiando. E in quei casi te la fai sotto davvero, perché lì, appesa alla bici,
in equilibrio sempre precario, c’è poco da fare. Fortuna ero in discesa e sono
filata via come una volpe in fuga dai bracconieri, una scheggia bianca e rossa
nel vento di piombo. Certo che quei mentecatti che abbandonano i cani
andrebbero rieducati come si usava qui un tempo, con le buone maniere e tanto
lavoro con la schiena piegata. Perché la colpa non è mica dei cani, che fan
quel che possono per campare.
Insomma, quella che doveva essere
una tappettina breve e semplice si è trasformata in una piccola agogè spartana,
tra freddo e bestie.
Visto che mi pareva di far troppo poca fatica, ho anche
pensato bene di fare una deviazione, prima di spingermi in albergo (in realtà è
una nave ma dopo vi spiego meglio). Mi sono issata su su fino alla cappella
Paraskeva Piatnitsa, che è un bussolotto bianco architettonicamente irrilevante
e non dissimile da una supposta, che però compare sulla banconota da 10 rubli.
In realtà quel che mi interessava era il balcone panoramico sulla città, un
must per chi visita Krasnoyarsk. Nonostante in nuvoloni, devo dire che la
fatica della salita in più è stata ampiamente ripagata.
Tra l’altro, proprio mentre
fotografavo il panorama, due simpatici soldatini hanno esploso un colpo a salve
con quel cannone che si vede lì sotto, che pare piccino e però fa un casino
allucinante. Era mezzogiorno. Mi pare un modo saggio per scandire le ore, le
campane non son mica roba da compagni bolscevichi.
Oltretutto, scendendo dalla
collina, ho anche incrociato il grande monumento ai caduti della Guerra
patriottica, con i mezzi militari e la fiamma che dicono eterna e invece dura
solo un po’ di più delle vite di tutti questi ragazzi massacrati al fronte.
Da
lì è stata una volata di discesa ripida verso l’Enisej, l’enorme, grandioso
signore della Siberia, che, insieme all’Ob, fa da confine alla steppa e
all’altopiano. Il fiume immenso dove desiderava tornare Mandel’stam in una
febbre di nostalgia, l’Enisej, con le sue acque cupe e le sue storie d’oro e
sangue che corrono verso nord, culla e tomba di tanti popoli.
Dicevo, la mia tana di oggi è il
Mayak, il faro. Che è un traghetto sul fiume, cosa di cui mi sono accorta solo
in loco. Una bellissima sorpresa!
Tra l’altro il Mayak è attraccato
proprio sotto al Kommunalnyy most, il ponte simbolo della città; perché ai
russi piace quest’idea di aggiogare la natura, novelli Serse, di unire ciò che
è separato per natura e avvicinare ciò che è distante.
E’ una loro fissazione.
E’ per la terra crudele in cui vivono, credo. Qui, oggi, ho avuto proprio la
sensazione concreta e ineffabile, ho com-preso quanto questa terra sia
maledettamente inospitale, e lo sia stata ancor di più in un passato privo di
tecnologia. Krasnoyarsk ha un volto duro, freddo, austero sempre, anche là dove
si è tentato di ingentilirla con l’arte. Le statue sono di metallo nero, i
palazzi imponenti e pesanti anche là dove vorrebbero essere fini e leggiadri.
Per certi versi mi ricorda Belfast, in Irl… ahem, Inghilterra, che mi aveva
dato la stessa impressione di austera durezza.
E in effetti vivere qui non è mai
stato facile. Se a Ferragosto ci sono 6 gradi, pensate d’inverno. Pensate alla
neve e al ghiaccio, a farsi largo in quella morte bianca con fiammelle
minuscole, prima dell’energia elettrica e prima del motore. Niente strade,
niente riscaldamento, niente luce. Niente. Solo distese di boschi e di neve e a
perdita d’occhio. Altro che into the wild.
Dopo una doccia bollente e un po’
di tregua, mi sono buttata sotto al diluvio per visitare un po’ il centro;
visto il prezzo popolarissimo e i commenti positivi, ho visitato il museo di
cultura locale, che merita anche solo per la struttura in si trova: una specie
di tempio egizio farlocco, ben più kitsch degli interni del Pergamon. Perché
nell’Ottocento l’antico Egitto piaceva, oh se piaceva! Certo è che un edificio
così, qui, fa proprio ridere fortissimo, da far risuonare tutte le vallate
dell’Enisej, che no, signori miei, non è il Nilo.
L’interno è quello classico
del vecchio museo, anzi, del vecchio museo russo: le cose sono buttate lì alla
rinfusa, in modo più artistico che scientifico, e servono a catturare l’occhio
del visitatore e impressionarlo più che a dargli nozioni precise.
Un esempio su tutti: la sala
centrale è occupata da un velieri tradizionale con cui i primissimi russi e
cosacchi condussero esplorazioni sull’Enisej; intorno, ma senza soluzione di
continuità, vari modellini di aerei, civili e militari, di ogni epoca, nonché
un satellite spaziale. Ma che c’entra? Non bisogna chiederselo, solo ammirare
la grandezza del popolo russo che ha conquistate le terre e i cieli. Almeno
credo sia questa l’interpretazione.
Macabre le sale con la ricostruzione degli
ambienti naturali del krai, tutte fatte con animali impagliati male (a parte il
mammuth e i rinoceronti pelosi preistorici); diciamo che va già bene se non
sono cadaveri impagliati i manichini dei tartari e dei nenet.
Il vero pezzo
forte della collezione, che merita sì una visita, è proprio il piano dedicato
alle popolazioni indigene pre-russe, per lo più sterminate o russificate a
forza nei secoli, esattamente come accaduto con gli indiani d’America. Volti
scomparsi, inghiottiti per sempre dal silenzio della storia.
Molto interessanti
anche le vetrine dedicate alle esplorazioni Sette e Ottocentesche della
Siberia, che dimostrano lo sforzo immenso e la follia che han spinto l’uomo
fino a qui, a caccia di pelli e di oro, di ricchezza per la quale tanti han
ritenuto giusto morire.
Bella, da ultimo, la
ricostruzione della vita quotidiana da queste parti nei secoli scorsi, e
soprattutto l’eco dei grandi eventi della storia russa giunta fin qui: il
reclutamento per la prima guerra mondiale, i prigionieri austriaci deportati in
Siberia e poi arruolati nelle file dei bianchi durante la guerra civile,
l’arrivo della rivoluzione, spiegata ai Samoiedi e agli allevatori nomadi di
renne (e mi vengono in mente certe scene del film Reds), le deportazioni in
gulag, il crollo dell’Urss, in cui ancora alcuni non credono.
Insomma, bello.
Da lì mi sono poi spostata
all’inizio del ponte, dove sorgono il Big Ben de noantri e il municipio,
nonché, difronte, la piazza centrale, con il teatro dell’opera e del balletto.
E le fontane, perché piove abbastanza poco già. Accanto varie statue, tra cui
quella composita dedicata ai fiumi.
Infine mi sono trasferita
sull’Ulitsa Mira, considerata nel suo insieme patrimonio culturale perché ricca
di teatri, università, case mercantili e palazzi dei secoli scorsi, sia di fine
Ottocento, sia di epoca stalinista. Antico e moderno si mescolano in un
alternarsi di stili archiettonici. E nemmeno qui c’è un senso logico, solo
senso di straniamento e meraviglia.
Fermiamoci un attimo a dir due
parole su questa città, fermata di Transiberiana e terza per numero di abitanti
in Siberia. La fondazione risale al 1628, quando un manipolo di cosacchi fu
inviato a costruire una fortezza a difesa delle strade commerciali e delle
rotte sull’Enisej;
si chiamava, la fortezza in legno, Krasnyy Yar, Riva rossa,
nome che fu poi trasformato in Krasnoyarsk nel 1822, quando divenne città. Tra
1735 e 41 l’insediamento crebbe grazie all’arrivo della vecchia strada postale
(oggi l’autostrada M53, quella che sto seguendo io) che la collegava ad Achinsk
e poi a Mosca. Nel 1895 fu poi costruita la stazione della Transiberiana e
l’economia della città decollò. Fabbriche e magazzini si moltiplicarono, e
questa tendenza rimase sia poi durante i piani quinquennali sia durante lo
stalinismo, sia dopo la guerra, che portò qui numerose industrie dal fronte. Fu
anche, e da sempre, luogo di confino ed esilio: per i decabristi, per i liberi
pensatori invisi allo zar, prima, e per i nemici del popolo e della rivoluzione
poi. Furono esiliati qui sia Lenin sia Stalin, che poim dopo aver ben appreso
la tecnica della repressione sulla sua pelle, la mise in atto facendo sorgere
qui e nei dintorni ben tre campi di lavoro forzato
Dopo la seconda guerra mondiale,
oltretutto, Krasnoyarsk divenne “città proibita” sia agli stranieri sia ai
russi stessi, se non con speciali permessi, perché ospitava industrie di armi e
di lavorazione del plutonio. Dopo il crollo dell’Urss la città ha sofferto di
quella crisi che ha investito l’intera Russia, tra privatizzazioni selvagge,
oligarchie a capo di politica e aziende e altre malversazioni. Oggi la
situazione pare stia migliorando e anche l’aspetto della città ne trae
giovamento. Anche se, ripeto, da ogni mattone, da ogni asse di legno, da ogni
lastra di cemento emerge tutta la mastodontica fatica che la gente ha fatto per
poter vivere qui. “La terra è bassa, la vita è storta e al camposanto poi nun se
canta” insomma.
Un po’ per questo un po’ per
necessità, mi son rifatta della magra cena di ieri con una mangiata imperiale,
unica cliente del ristorante con vista.
E il fiume scorre qui sotto ai
miei piedi e porta il canto muto dei popoli scomparsi, le risate ubriache degli
esploratori e dei cacciatori d’oro, la voce fioca di una rivoluzione che voleva
esser giusta, ma poi non lo è stata. E la storia scorre, con l’acqua, e va al
nord, nel tremore delle ultime luci e del lamento di un gabbiano.
Domani sarà già tutto alle
spalle, domani saranno di nuovo strada e monti e boschi e cielo d’Oriente.
Ho letto e riletto questo racconto e ogni volta un groviglio di sentimenti e sensazioni mi suggeriva di rileggere. E' tutto così discorsivo, quasi amichevole e pure così leggero mentre parli di un ambiente freddo, strano, lontano da quelli noti,... Buon proseguimento. Sila
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