Vi racconto una barzelletta:
c’era un cinese.
In coma?
No, non in coma, sveglissimo.
Lasciatemi dire.
C’era un cinese, c’erano un T-34,
una Signora e una volpe. E altri mille cinesi. A Novosibirsk.
E i cinesi al posto di ascoltare
la loro solerte guida nelle cuffiette, invece di ammirare i monumenti nel
memoriale dei caduti della Seconda guerra mondiale, hanno rivolto le loro
attenzioni a me, che stavo visitando per conto mio il sito ed ero ignara di
esser già finita in mille alla n fotografie.
Poi si iniziati gli ohhhhh, gli
ahhhh, i ringraziamenti silenziosi a mani giunte con piccolo inchino e i giri
di valzer delle foto con tizi-uhn, cai-min, sempron-yan.
E sapete perché questa
barzelletta non fa ridere?
Perché in quei momenti stavo
prendendo coscienza di aver distrutto il cambio posteriore, e dentro di me non
piangevo solo perché ero troppo piena di cristi e madonne per far spazio alle
lacrime. Ma che sfiga, ma perché, ma come è possibile. Poi ho capito. Il fatto
che le levette andassero a vuoto con un mesto ticchettio molle e sfatto era
dovuto al cavo di trasmissione: lì, sotto al manubrio, tutto piegato e
sfilacciato. Il motivo? Il malefico borsino anteriore, che per giorni deve aver
pigiato in malo modo sui cavi di freni e cambio fino a provocare il danno.
Ma fermiamoci un attimo e
riavvolgiamo la pellicola di 24 ore, altrimenti non ci si raccapezza.
Ieri, 3 agosto, è stata una tappa
di pura fatica e poca grazia. Sono partita dopo una colazione a insalate russe
(quelle giuste stavolta, senza interiora) e Luisochka ripiena di latte
condensato, semplice ed efficace per dare energia (sempre che si sopravviva ai
picchi glicemici senza infarti).
Poi via verso… Verso una
porcheria enorme, ecco verso cosa. Un cantiere di 70km.
Stanno deviando il
corso di un fiume, la strada praticamente non esiste; è fango, sassi, catrame,
bitume fumante, sabbia spessa. E’ tutto men che strada, insomma. E poi manca
spazio. I camion già fanno fatica a passare per conto proprio, figuratevi a
scansarsi per evitare me che non ho bordo in cui pedalare e quindi occupo una
fetta di corsia. Naturalmente c’era pure il vento contrario, che sembrava
volermi ributtare indietro in quella fucina di Isengard che è stata la
non-strada. Con uno sforzo fisico e
mentale sovrumano sono riuscita a non cadere e a non farmi tirar sotto, che son
già buoni risultati. All’ultimo kilometro di cantiere mi sono infilata nel
primo benzinaio a farmi una pera di succhi di frutta gelidi, perché faceva
anche un caldo atroce, anche a causa dei macchinari mostruosi che ribaltavano
le viscere della terra e del bitume fuso con cui stavano tumulando tutto. Poi,
finalmente, la strada.
Questa è la forma che può
assumere a volte una sensazione che per ora chiameremo felicità.
"E improvvisa, inattesa,
fortuita, l'allegria.
Da sola, perché volle,
è venuta. Così verticale,
così grazia insperata,
così dono a sorpresa,
che non posso credere
che sia per me.
Mi guardo intorno,
cerco. Di chi sarà?
Sarà di quell'isola
sfuggita dall'atlante,
che mi é passata accanto
vestita da ragazza,
con spume al collo,
abito verde e un grande
spruzzo di avventure?
Non sarà forse caduta
a un tre, a un nove, a un cinque
di questo agosto che inizia?
Oppure è quella che ho visto tremare
di là dalla speranza,
nel fondo di una voce
che mi diceva: "No"?
Ma non importa, ormai.
Sta con me, mi trascina.
Mi sradica dal dubbio.
Sorride, possibile;
prende forma di baci,
di braccia, verso me;
finge d'essere mia.
Andrò, andrò con lei
ad amarci, a vivere
tremando di futuro,
a sentirla veloce,
secondi, secoli, eternità,
niente. E l'amerò
tanto, che quando verrà
qualcuno
- e non lo si vedrà,
non si potranno udire i suoi
passi - a richiederla
(è il suo padrone, era sua),
quando la condurranno,
docile, al suo destino,
lei si volterà indietro
a guardarmi. E vedrò
che ora è mia, finalmente."
fortuita, l'allegria.
Da sola, perché volle,
è venuta. Così verticale,
così grazia insperata,
così dono a sorpresa,
che non posso credere
che sia per me.
Mi guardo intorno,
cerco. Di chi sarà?
Sarà di quell'isola
sfuggita dall'atlante,
che mi é passata accanto
vestita da ragazza,
con spume al collo,
abito verde e un grande
spruzzo di avventure?
Non sarà forse caduta
a un tre, a un nove, a un cinque
di questo agosto che inizia?
Oppure è quella che ho visto tremare
di là dalla speranza,
nel fondo di una voce
che mi diceva: "No"?
Ma non importa, ormai.
Sta con me, mi trascina.
Mi sradica dal dubbio.
Sorride, possibile;
prende forma di baci,
di braccia, verso me;
finge d'essere mia.
Andrò, andrò con lei
ad amarci, a vivere
tremando di futuro,
a sentirla veloce,
secondi, secoli, eternità,
niente. E l'amerò
tanto, che quando verrà
qualcuno
- e non lo si vedrà,
non si potranno udire i suoi
passi - a richiederla
(è il suo padrone, era sua),
quando la condurranno,
docile, al suo destino,
lei si volterà indietro
a guardarmi. E vedrò
che ora è mia, finalmente."
(Salinas)
Sì, tra me e una strada bella e
dritta nasce amore al primo sguardo. E’ una storia lunga, ma credete a me e a
Salinas.
Così è iniziata la mia nuova
parte di avventura sull’autostrada Bajkal, perché pian piano mi sto avvicinando
al lago dal cuore nero, e i nomi sono qui a dimostrarlo.
Nel giro breve di qualche respiro
sono arrivata alle più lontane propaggini dell’enorme Novosibirsk, che è
circondata da una costellazione di villaggi rurali ora cadenti e mogi, ora
tutti nuovi per coloro che dello stress della vita metropolitana si son
stancati e tornano a vivere in campagna. Ci sono la falce e il martello e il
venditore di aquiloni, che volete di più?
Ho pedalato l’ultimo tratto
costeggiando, da un lato, la ferrovia (sempre lei), dall’altro l’aeroporto di
Tolmachevo, il più grande dei due di Novosibirsk. La mia destinazione era Ob, paesino
senza storia (è città dal 1969) che orbita intorno all’economia mossa dallo
scalo aeroportuale, nonché sede della seconda più grande compagnia aerea russa,
la S7 airlines. E’ tutto casine e palta secca, zanzare e luce al caramello.
Reperire una quasi cena è stato pure difficile, non ci sono negozi né
supermercati, ma solo baracchini dei gelati e della vodka. Che tristessa.
La mia meta era lo Skazka Hostel,
un asettico luogo di transito per gente rincoglionita dai fusi e dalle troppe
ore passate in volo.
Da notare l’insegna con la volpe
al secondo piano. Non potevo non fermarmici!
Per fortuna la Siberia si è fatta
perdonare la giornataccia di fatica con il consueto spettacolo del crepuscolo
che sale come una marea che culla al sonno.
La mattina di oggi, invece, è
iniziata bene. Il ragazzino della reception, vedendomi fare una colazione
tristissima con le barrette avanzate, mi ha preparato e offerto ben due
palacinke, una alla marmellata e una alla carne e cipolla. Ma che amorino!
Grazie gentile sconosciuto, hai dato avvio ad una serie di colpi di culo che
nemmeno immagini, pur in certe sfighe.
Fatta colazione, dicevo, sono
partita per una breve tappa per raggiungere il centro della terza città più
grande di Russia (dopo Mosca e San Pietroburgo) e la prima più grande della
Siberia, con il suo milione e mezzo e più di abitanti. Ho percorso un immane
stradone semideserto, godendo di ogni centimetro di asfalto liscio e pettinato.
Sulla strada ho incrociato il polo fieristico della città, che ospita centinaia
di esposizioni che vanno dall’agricoltura al software,
e anche questi due
personaggi qui.
Poi, prima di attraversare l’Ob,
ho fatto una deviazione per visitare il memoriale delle vittime delle guerre
(principalmente la Grande guerra patriottica, ma ci sono anche i nomi dei
caduti in Afghanistan e su tutti gli altri fronti in cui la Russia ha
combattuto). Oltre ai monumenti enormi e alle liste immense di nomi su nomi,
nomi e nomi e stelle per altri eroi da dimenticare,
sono qui esposti alcuni
mezzi militari, carri armati, aerei, cannoni e katyushe, con tanto di
caratteristiche scritte in bronz sul marmo (peso, gittata ecc). Un inno alla
pace e alla fratellanza, insomma.
Il memoriale termina con una chiesina
dedicata a San Giorgio, simbolo del bene che combatte il male e trionfa. E’
l’immagine, quella del santo a cavallo che trafigge il drago, più spesso
associata alla vittoria russa sui nazifascisti. Ah, i simboli… Che gran presa
di culo.
Qui è venuto fuori tutto il tran
tran coi cinesi, che hanno mollato guida e monumenti per fotografare me e la
Signora. Qui mi sono accorta del cambio rotto. Con un filino di morte addosso,
perché oggi era l’ultima tappa in piano. Da domani, superato l’Ob, finisce la
steppa di Barabinsk e inizia una zona di colline. Senza cambio posteriore, con
le borse, in salita… Un inferno. Subito ho cercato su internet se ci fossero e
dove ciclisti, che in Russia non è mica così scontato. Google risponde: a decine!
Apro il primo pallino suggerito sulla mappa e compare l’immagine di un
baracchino che noleggia risciò. No. Apro il secondo e balza fuori la foto di
due clown sul monociclo. Ma che cazzo. Apro la terza ed è un negozio di ricambi
per auto e moto. Ok, sono spacciata, è li fine. Con l’ultima goccia di speranza
apro il pallino rosso sulla mappa più lontano dal centro, dall’ostello, da me,
dalle cose del mondo e… Mi si palesa l’immagine di due ragazzi intenti a
trafficare in un’officina vera, degna di tale nome. Bingo. Veloservis,
aspettami che volo da te. Un po’ rincuorata riparto con l’idea di andare in
ostello, lasciar giù armi e bagagli e correre dritta dai meccanici per capire
se sno in grado e hanno il materiale per riportare la Signora in salute.
E’ un arrancare il mio cammino.
Con il cambio più duro tutto è fatica spropositata, anche lo strappetto più
breve.
Però, tra uno sbuffo e un grano
del rosario, arrivo da lui, al grande Ob.
Porta le acque degli Altai e di
migliaia di fiumi fino all’Artico, al mar di Kara. Nasconde sotto al suo
mantello azzurro ricchesse di petrolio e gas, reca il canto antico delle steppe
e della tundra, accompagna, da metà Ottocento, l’andare dei mercanti e degli
esploratori. Il grande Ob, signore della Siberia occidentale.
Proprio mentre ero sul ponte
un’aquila deve aver scambiato il caschetto o qualcosa di simile per una preda
facile, ferma e ignara, perché ha iniziato a girarmi intorno in cerchi sempre
più stretti e più bassi, accennando a delle picchiate. Poi si è resa conto
dell’errore, del fatto che siamo una volpe e una Signora dal culo grosso, e se
ne è andata. Ma che spettacolo meraviglioso.
Una manciata di kilometri ancora
e sono finalmente giunta all’ostello.
Anche qui è stato tutto
complicato. Il 18 di ulitsa Lenina, dove sta la struttura, non è una casa, ma un teatro delle marionette (giuro) seguito da
un gruppo di edifici tutti accostati senza logica né ordine. Porte, androni,
finestre. Non un cartello. Non un’insegna, non un’indicazione, mannaggia ai
russi che fan le cose mezze illegali e quindi si tengono nascostoni.
Avevo
fretta di andare dal ciclista e il maledetto ostello non si faceva proprio
trovare. La traccia lo dimostra.
Nella disperazione, chiedo a un tizio che stava trafficando intorno
alla sua auto e mi guardava incuriosito. Dov’è il Retro Hostel? “Ah!” risponde
“La metro si prende in piazza Lenina, qui a destra a 500 metri blablabla”.
Madonna che rincoglionito. Retro non metro. “Sì sì la metro, la linea 1, è qui
in piazza”. E va be’. Davanti a questo portone, che poi si rivilerà quello
giusto (ma da cosa dovrei capirlo, io?)
fermo una ragazza della mia età che,
già dalle prime parole, mi fa capire che parla inglese. Oh benedetta fanciulla!
Le chiedo, non sa. Idea! Le dico se, chiamando la reception con il mio
telefono, può parlare lei e chiedere informazioni e poi riferirmele in inglese.
Perché al telefono i russi sono ancor peggio che di persona: se dopo tre
secondi non capisci e non rispondi in russo fluente, buttano giù la cornetta.
Sicchè chiamo, la ragazza parla, chiede e in due secondi digita il magico
codice e il portone si apre. “Mi ha detto che sta al secondo piano, ciao!”.
Grazie anche a te, gentile fanciulla sconosciuta.
Salgo, mi sistemo e, sempre con
la fretta di andare dal meccanico, devo sorbirmi le menate del proprietario. Gentilissimo eh. Ma mi dà in mano un mazzo di chiavi per aprire tutte le porte
e le porticine, me le fa provare una ad una, gira di qui, si apre, gira di là
si chiude, magia!, e poi su e giù per provare quella della porta esterna e del
portone e di ognissanti. Tra l’altro il buon uomo ha disseminato in punti
segreti e strategici copie di ogni chiave, perché qui le porte son vecchie e
scassate, ergo se ti si chiudono alle spalle che so, per un colpo di vento, e
la chiave è dentro, tu sei chiuso fuori per sempre come Adamo ed Eva, e puoi
solo piangere sulle sponde del fiume Ob’ ed aumentarne la portata. Ma lui ha messo una chiave sotto allo
zerbino, una nella casella della posta, una nel frigo, guarda!, e una probabilmente sta
incastrata nel suo retto, sicchè nema problema. Finita la manfrina, sono
finalmente partita in direzione meccanico. La bici, senza borse, è così leggera
che mi sfugge e fatico a controllarla; trema il manubrio, scodinzola il retro.
Pedala pedala sono arrivata dal mio nuovo vero eroe, il proprietario del
Veloservis. Il negozio, all’inizio, mi ha spaventata: è un buco umido nello
scantinato di un supermercato, con quattro bici da nonna che va a funghi e poco
più. Ma lui no, lui sa fare bene il suo mestiere. Spiegato il problema, ha
cambiato il cavo in un breve. Intanto mi ha offerto caramelle, tè e un gelato (che
stava per mangiare lui prima che entrassi).
Poi, dopo avermi chiesto dove
stessi andando, ha deciso di farmi a gratis un check-up completo. Ha registato
anche il cambio anteriore, ha tolto le bolle d’aria e rimesso il liquido dei
freni, ha controllato e cambiato le pastiglie. Mi ha pure gonfiato le gomme. Il
paradiso ritrovato. Il tutto mentre mi riposavo, mangiando e bevendo. Costo
dell’operazione e dell’ora e mezza di lavoro: 15 euro. Meccanici del Veloservis, vi si ama una cifra. Così, dopo la foto voluta per il loro Instagram,
sono uscita dallo scantinato con il cuore
leggerissimo, e c’era il sole e tutto era meraviglia. Ma che bella Novosibirsk,
non ci avevo fatto caso prima.
Sono tornata in ostello, ho messo
la Signora tutta bella ristrutturata e fresca e funzionante al sicuro, mi sono
fatta una doccia e via, a visitare la città.
Novosibirsk è una città giovane,
giovanissima. E’ stata la più giovane, il secolo scorso, a superare in meno di
cento anni il milione di abitanti (negli anni Sessanta). Chi dice che sia tutta
a palazzoni non mente: palazzoni di inizio Novecento, in mattoni rossi e legno,
case di mercanti e banchieri. Palazzoni grigi che sanno di comunismo pesante,
sempre più claustrofobico e asfissiante. Palazzoni ultramoderni, alberghi,
banche e sedi d’aziende. Perché qui i palazzoni piacciono, e vanno a braccetto
con gli immensi viali e gli spazi sconfinati anche in città, spazi cui noi
europei non siamo abituati. Qui le vie sono enormi, dritte e non ci si può
perdere. Tutto è razionale e moderno. Non come i dedali dei centri storici e
delle medine, nati dal disordine e dalla follia medievali. No. Vialoni. Piste d’atterraggio
per aerei presidenziali. Strade su cui far sfilare carri e uomini. Strade su
cui trasformare la rivoluzione in dolente marcia di proletari senza volto. Insomma,
una città sovietica.
Dicevamo che Novosibirsk è
giovane. E’ nata nel 1893, non distante da un piccolo villaggio tartaro poi
spazzato via dalla terra e dalla memoria. E’ nata in occasione della
costruzione del ponte ferroviario sull’Ob, presente anche nello stemma. Questa città
ha cambiato nome ben tre volte, seguendo i flussi della storia di Russia. All'inizio
era chiamata Aleksandrovskij, in onore dello zar Alessandro III, cui è dedicata anche la cattedrale (la sua statua, non si sa perchè, è incappucciata e par altro).
Dal 1895
il nome divenne Novonikolaevskij, in onore del nuovo zar Nicola II (metti mai
di fargli un torto…). Nel 1925, poi fu ribattezzata Novosibirsk. Di zar in effetti non ce n’erano più e anche la loro memoria
dava un certo qual fastidio.
Comunque, prima della
rivoluzione, anche qui si parlò di Chicago della Siberia per la rapida e forte
crescita economica e di popolazione, generata dalle numerose industrie e dal
settore dei trasporti, su strada, ferrata e non, e sull’acqua.
La guerra civile, tuttavia, fu
pagata anche qui e a caro prezzo. Il ponte sull’Ob fu distrutto. Un incendio
devastò la città e decine di migliaia di persone furono costrette a vivere in
strada, cosa che provocò fulminanti epidemie di colera e tifo. Dopo esser
passata dalle mani dei rossi a quelle dei bianchi e di nuovo a quelle dei
rossi, Novosibirsk era un rudere in declino, spopolata e povera. La ricostruzione
iniziò nel ’21. La nuova politica economica di Lenin la volle capitale della
regione e gli investimenti qui furono ingenti.
Si costruì il monumento ai
martiri della rivoluzione, con i soldati di qui e i contadini di là, e Lenin
nel mezzo con quel mantello al vento che lo fa sembrare più un cavaliere Jedi
che altro.
Dietro, il più grande teatro di Russia. Era stato pensato perché vi
si potessero anche tenere comizi, far sfilare cortei e far atterrare aerei.
Alla morte di Lenin gli operai finanziarono la costruzione di una
casa-memoriale in suo ricordo, che ora è la sede della filarmonica.
Stalin portò avanti il progetto
di fare di Novosibirsk una potenza industriale e così avvenne, tra industrie
pesanti, siderurgiche e di macchinari, e alimentari. Si rifugiarono qui, per
questo, a inizio anni ’30, molti scheletri in fuga dalla grande carestia
sovietica; sorsero baracche e accampamenti, ma la città resse il colpo. Sorsero
scuole, teatri, comparve il tram. Durante la guerra furono poi trasferite qui
oltre 50 attività produttive sensibili, per produrre carri armati e cioccolato,
bombe e gallette. Il fronte era distante, ma la guerra arrivò anche qui e portò
via migliaia di figli.
Comunque, oltre ai morti, arrivarono i vivi, i
rifugiati, la forza lavoro e le imprese; tutto questo restò anche dopo la
vittoria. Negli anni ’50 fu costruita una gigantesca centrale idroelettrica che
sfruttava il bacino artificiale sull’Ob, comparvero nuove industrie e le
università, soprattutto nella cittadina satellite di Akademogorodok, un vero e
proprio villaggio della scienza, tuttora in prima linea nello sviluppo di
tecnologie informatiche (e in epoca sovietica sede di segretissimi studi sul
nucleare e sulla genetica, pagando gli scienziati con razioni di cibo più
abbondanti). Negli anni Ottanta fu costruito pure il metrò, con un ponte sul
fiume lungo più di 2km.
Insomma, Nvosibirsk è un cuore di
cemento e acciaio, pistoni, vapore e scintille da fonderia che pulsa un ritmo
profondo nel suolo di Siberia. Per assurdo, tolti gli spazi enormi e i Lenin,
sembra di essere in Europa. Ci sono i centri commerciali, i ragazzi e le
ragazze vestiti “come da noi”, cioè scimmiottando la moda americana, con i
capelli colorati e lo skateboard. Ci sono i Burger king e Benetton, tra una
falce e un martello, tra una banca e un senzatetto. Novosibirsk è giovane e
imita i più grandi, cambia pelle continuamente e, a volte, finge di essere ciò
che non è. Qui ho trovato la bellezza dei luoghi ma pure il dono prezioso della
gentilezza, quella goccia di luce che passa di mano in mano quando due
stranieri si incontrano e si riconoscono, quando uno sconosciuto tende la mano
al foresto, al barbaro, e non la ritrae per proteggere la borsa e la roba. Novosibirsk
è bella, e lo sapevo. Già la devo salutare: domani si riparte. Mi aspettano una
nuova steppa, nuovi cieli, altre luci e altra strada. Parto serena per la
Signora in ordine, la meraviglia raccolta tra le ciglia e tutto quell’ineffabile
d’azzurro e vento che mi ricama il cuore non si può raccontare, solo sentire
sulla pelle.
Vi lascio con altri scorci della città, così che i colori e le immagini si imprimano in un mosaico fluido nella memoria.
(il circo. In Russia quasi tutte le città più grandi ne hanno uno stabile)
Ultima curiosità. Questa cappelletta dedicata a San Nicola, che negli anni del regime sovietico è stata sconsacrata e semidistrutta, è da sempre considerata il centro geografico della Russia. Una bella responsabilità per un edificio tanto piccolo, no?
❤️ Indomita donna con indomito cuore ✊️
RispondiEliminaCiao Rita Le tue foto nei paesi e citta riprendono prevalentemente edifici, monumenti, memoriali..detto tra noi alla fine , visti una volta poi sono tutti uguali....lo so che non è facile, ma includere anche le "ghegne"(faccie in bergamasco) di questi russi, sarebbe un valore aggiunto. Perche la foto di una gegna giusta dice molto piu di mille parole. Non mollare !
RispondiElimina..........Qui ho trovato la bellezza dei luoghi ma pure il dono prezioso della gentilezza, quella goccia di luce che passa di mano in mano quando due stranieri si incontrano e si riconoscono, quando uno sconosciuto tende la mano al foresto, al barbaro, e non la ritrae per proteggere la borsa e la roba........
RispondiEliminaBello questo
"...il dono prezioso della gentilezza, quella goccia di luce che passa di mano in mano..." sono parole bellissime. E poi... il resto dei tuoi pensieri per spiegarlo sono il segno di un cuore semplice e ricco di umanità. Sila
RispondiElimina