Lei è Nina.
Avrà una sessantina d’anni. Vive
a Ubinskoye, in questa bella casetta qui.
Nina vive sola. Probabilmente da
tanto, tanto tempo.
Madonna quanto parla Nina. Un
fiume in piena, una parlantina nilotica inarrestabile, corredata di gesti e
smorfie perché così, ovviamente, è convinta che io possa capire meglio. Io
percepisco una scriptio continua e pure bustrofegica e a malapena distinguo una
parola dall’altra. Troppo, troppo in fretta parla Nina.
Mi ha raggiunta strascicando le
ciabatte fin davanti alla statua di
Lenin, che stavo fotografando.
“Hai fatto una foto alla mia
casa? E’ quella lì blablablabla” e intanto indica l’izba accanto.
Sì… E’ molto bella, ho scattato
questa foto. E le mostro l’immagine sul telefono.
“Da dove vieni? Blablablabla”
Dall’Italia. E anticipo le
inevitabili altre domande: vado in Mongolia, in bici, da sola.
E domani dove vai?
Mannaggia, questa in effetti non
l’avevo prevista. Mento. A Novosibirsk! (in realtà di arrivo tra tre giorni, ma
non stiamo a sottilizzare).
Ahhhh. Blablablabla, Vieni che ti
do qualcosa da mangiare! E blablabla…
Esito. Non ho voglia di passare
la serata con Nina; non per lei. Per la fatica del conversare. Seriamente, non
ce la posso fare.
“Dai, per favore!” insiste lei. E
parole a cascata per invogliarmi.
E va bene. Mi immaginavo già un
tè ustionante e qualche dolcino, perché alle 19 Nina ha già cenato da un paio d’ore
almeno. Mi immaginavo i supermercati poi chiusi e la cena saltata e la zuppa di
lacrime e barrette tutte spiaccicate e sciolte.
Invece… Invece Nina non mi ha
fatta entrare in casa. Voleva offrirmi i prodotti del suo orto. Un gran bell’orto
indubbiamente.
“Qui i fagioli, qui le patate,
qui le cipolle. I pomodori non sono ancora maturi perché blablablabla”. E poi
mi ha mostrato alcune erbe che si usano come spezie, triturate e essiccate. “Prendi,
prendi blablabla!”.
Ma Nina, mannaggella, ti ho detto
che viaggio in bici. Adesso mi metti in imbarazzo. Adesso ti devo dire di no,
tu ti offendi e non è bello.
“Prendi, prendi per favore” e mi
indica la terra bassa in cui ancora stanno accoccolati gli ortaggi ignari.
Non posso, Nina, è roba che
finirebbe in pattumiera. Non posso trasportare né cuocere a dovere. Dai. Fa’ la
brava.
E Nina capisce, per fortuna,
senza che io debba spiegare più di troppo.
“Avanti là c’è la piazza con la
chiesa e il monumento” mi dice. E dopo una stretta di mano, e un altro infinito
diluvio di parole, mi lascia andare. Al ritorno passerò davanti a casa sua
quasi correndo, sperando non mi riattacchi il pistolotto.
Nina, dicevamo, abita a
Ubinskoye, come me stasera.
Arrivare qui è stato faticoso. La
tappa, di poco meno di 100km, è stata quasi per intero controvento. Un vento
teso, pieno di polvere e tafani, così maledetto, gratuito, non necessario. Io
odio il vento. Fa fare la fatica che si fa in salita, ma costringe anche ad un
continuo sforzo delle spalle, delle braccia, delle ginocchia, di tutto, per non
farsi sorprendere dalle raffiche laterali. Oggi in certi tratti non sono
riuscita a superare i 16km/h. La cosa che del vento mi fa imbestialire è che
potrebbe non esserci, o potrebbe essere a favore. Una salita è faticosa, ma è
lì, lo sai, la prevedi, la metti in conto, inizia e finisce. Il vento no. Una
tappa come quella di oggi, senza Eolo incazzato, si fa in scioltezza: strade
decenti, poco traffico, dislivello minimo, kilometraggio onesto. E invece no.
Bisogna soffrire! Sarà il pathei mathos di cui parla il Prometeo eschileo, sarà
quell’imparare attraverso il dolore. Magari me lo merito, magari è il karma (e
sangue freddo), chissà che ho combinato in altre vite. Magari è proprio sfiga.
Però che fastidio, il vento.
Ho notato tra l’altro che qui la
steppa di Baraba si fa più boscosa, i cespugli e le erbe cedono il passo alle
betulle e ad altri alberi ora radi ora fitti in foreste cupe. Il paesaggio sta
mutando di nuovo. Percepisco il brivido delle radici e il bisbiglio sommesso
dei rami alti, sento le gocce di luce filtrare tra le foglie ed esplodere in un
mosaico tra verde e verde.
I tronchi sfidano il vento e i
cieli inclementi. E vincono, per ostinazione e pervicacia, questa muta
battaglia.
Come accennavo ieri, non era
certa di trovare una tana in quel di Ubinskoye, primo paese sulla strada ad una
distanza giusta per fare tappa. Su internet non risultava nulla, fuorchè un
pallino marrone con il simbolo del letto su Google maps. “Chudnova” era il nome
della struttura, cosa anche sensata essendo in ulitsa (via) Chudnova. C’era
anche un commento della scorsa settimana, lapidario e misterioso: “strade
dissestate”. Zero foto, nessun numero di telefono, nessuna possibilità di usare
street view (perché in questi paesi non è passata la solerte macchinina di
Google). Mi puzzava tantissimo questa Chudnova. Aveva proprio l’aria di non
esistere. E infatti non esiste.
Tuttavia, lungo la strada, ho
incrociato questo cartello.
La distanza era più o meno giusta perché il
fantomatico hotel cadesse proprio in Ubinskoye, dove c’è anche l’ospedale, anch’esso
segnata lato sul cartello. Coincidenze? Mi sono fidata e ho fatto bene. Il
sesto senso di volpe a pedali mi diceva di andare a Ubinskoye e così è stato. Dopo
aver attraversato la campagna in periferia, mi sono diretta al Chudnova.
Lì ho
trovato sì la strada dissestata, ma non l’albergo. Un uomo curioso da qualche
minuto stava fisso ad osservarmi. Ho colto la palla al balzo. “Isvinitie,
scusi, gdie gostinitsa? Dove sta l’albergo?”. Torna indietro, a sinistra,
avanti un tot e lo vedi sulla destra. Allora c’è una gostinitsa! Ottimo,
grazie, spasiba, che figata! Torno sulla strada principale, che costituisce il
centro del paese, l’ulitsa Lenina, e seguo le indicazioni. Fatti circa 500
metri inizio ad avere di nuovo dei dubbi perché di alberghi proprio non ne ho
visti. Fermo un anziano in camicia, bretelle e coppolino e chiedo lumi. Nemmeno
risponde verbis. Con la mano fa segno di andar dritto. Ok, seconda conferma,
allora esiste davvero. E infatti eccola qui la Gostinitsa Sibir, enorme e
cadente e perfetta.
Entro e non c’è anima viva.
Il ristorante sta chiudendo
(alle 17, come quasi tutti i locali dove si mangia). Salgo e trovo una grossa
donnona in grembiule. Mi accordo per la camera (prezzi sovietici ancora
registrati sulle tariffe del ‘25) e inizia il teatrino: “Da dove vieni? Dove
vai? Sei tedesca? Vai sul Bajkal?” No sono italiana e vado in Mongolia, però
dal Bajkal sì, passo. “E’ lunga dalla Germania a qui!” Ma veramente… “La bici
mettila giù in garage, non stare a portarla su, hai già pedalato tanto da
Berlino a qui”. Va bene. Sono tedesca. Danke. La donna poi è stata così presa
nel chiamar tutte le sue amiche e conoscenti per dire che c’era una tedesca che
andava in bici al Bajkal da dimenticarsi di darmi le chiavi, farmi vedere se
dove ci fossero servizi, doccia, cucina eccetera. E’ rimasta al telefono a
parlare di me almeno due ore (e siccome in questo gigantesco e scricchiolante
edificio ci siamo solo noi due, e io taccio e lei parla a troppi decibel, non è
stato difficile capire su cosa vertesse la conversazione). Comunque benedetto
Sibir, che mi hai evitato un’altra cinquantina di kilometri controvento.
Ubinskoye si visita piuttosto in
fretta, poi.
Ci sono le casine in legno belle
e sempre più storte e provate dalle intemperie e dagli anni,
c’è Lenin,
c’è la
chiesa con la sua piazzetta
e ci sono i morti.
Centinaia di morti. Nomi e nomi,
lettere vuote e senza più volto, fredde nella pietra. Nomi e nomi. E sono
morti. Per cosa? Per essere nomi e nomi. Ecco il lunghissimo scontrino che si srotola dall'Europa all'oceano, ecco quanto è costata la vittoria.
Ubinskoye è uno dei villaggi
rurali più grandi della regione (conta circa 6000 abitanti) ed è anche uno dei
più antichi; infatti non è stato fondato con la Transiberiana, che pure ferma
anche in questa stazione, ma già a inizio Seicento, con le prime spedizioni
esplorative russe in Siberia, in cerca di oro e pellicce. Il primo insediamento
venne presto bruciato (nel 1628) in una rivolta dei tartari Baraba, che, all’inizio,
riuscivano anche a far valere le loro ragioni con le fiamme e i coltelli. Nel
1675 il villaggio viene ricostruito e diventa un punto di appoggia per i
viandanti sulla strada tra Tara e Tomsk. Durante il ‘700 vengono costruite
fortificazioni tutt’intorno, nella zona, presidiate da guarnigioni di cosacchi
(che gli zar mandavano volentieri così a oriente, nel nulla, oltre i confini
noti e disegnati sulle carte). Così, da una di queste fortificazioni, nasce
anche Kargat, da cui passerò domani. A metà del XVIII secolo vengono qui
deportati prigionieri politici e dissidenti perché lavorino la terra. Il
villaggio cresce, vengono costruite case, aziende, la chiesa, altre case. Nel
1896 viene costruita la stazione della Transiberiana e il processo di
espansione del paese accelera. Per il resto le vicende qui seguono il fluire
della storia del resto della Russia senza attriti.
Un’altra cosa va detta. Proprio
qui a breve distanza si trova il lago Ubinskoye che dà nome alla città; in
tataro Ubu significa palude, acquitrino. In effetti le acque sono basse e
stagnanti e piene di alghe e insetti.
Dal fondale si estraggono pregiati fanghi
usati come cosmetici. Un tempo era ricchissimo di pesci ma, dagli anni ’90 del
secolo scorso, sono quasi del tutto scomparsi a causa dello sfruttamento eccessivo
e dell’inquinamento; ora le cose stanno di nuovo migliorando e ci sono buone
speranze per il futuro. Tenetevi forte perché adesso vi do una notizia che vi
cambierà la vita: qui, per la prima volta in tutta la Siberia, nel 1929, è
stata acclimatata l’orata d’acqua dolce. La pratica si è poi diffusa in tutti i
laghi della regione.
No, in realtà la questione
interessante è un’altra. La leggenda narra che sulle sponde di questo lago Kuchum,
l’ultimo re del khanato di Siberia, abbia sepolto il suo enorme tesoro perché non
cadesse, anche in caso di sconfitta, in mano ai russi.
Siamo nel 1580. Ivan il
Terribile scaglia contro l’ultimo dei khan i suoi cosacchi a cavallo, veloci e
terribili come una tempesta nera. Kuchum è una figura eroica e tragica che si
staglia grandiosa sulla prua di una nave che affonda. Era riuscito a prendere
il potere eliminando due suoi potenti rivali che già erano vassalli della
Russia; aveva imposto la fede islamica per compattare tutte le etnie e le
popolazioni su cui regnava, dedite a religioni sciamaniche e animiste, aveva
compiuto raid a Perm e in territori cosacchi, fatto che diede a Ivan il
pretesto di scagliarli contro il khanato, guidati da Yermak; la capitale,
Qashliq, cadde in mano loro in brevissimo, ma Kuchum continuò a lottare
ritirandosi nelle steppe e radunando ribelli, soldati e mercenari; all’alba del
6 agosto 1584 il khan attaccò i cosacchi di sorpresa. Quasi nessuno scampò alle
frecce e alle lame ricurve, nemmeno Yermak. Kuchum tornò a Qashliq, ormai
distrutta, e tentò di stringere alleanze con altri nobili tartari e khan, per
creare una forza che si opponesse al Terribile; tuttavia non riuscì a
concludere nulla: tutti erano ormai vassalli e fedeli al russo; dopo un
attentato alla sua vita per mano di uno di questi signorotti asserviti, il khan
si ritirò con la sua orda a sud, sull’Irtysh, e qui fece un ultimo, disperato
tentativo di costituire un regno antirusso, liberando i tartari locali dalle
imposte in pellicce (yasaq). Ma sull’Ishym vennero catturate il figlio e due
mogli, poi i russi si accanirono contro i prigionieri che venivano presi in
raid nei villaggi alleati al khan; allo scorcio del secolo furono catturati
altri figli e figlie, altre mogli e amici e sudditi di Kuchum. I russi
credevano di poter negoziare la resa per la restituzione degli ostaggi, ma il
khan si mostrò sordo e fiero nella sua ormai inevitabile sconfitta. Morì per
cause sconosciute, non si sa dove, nel 1605. I suoi figli si convertirono al
cristianesimo e furono assorbiti dalla nobiltà russa. Il suo tesoro, vuole il
mito, riposa qui, sulle rive del lago.
E mentre mi chiedo se sia più prezioso il tesoro del khan (o del gat) oppure quello di Nina, entrambi sepolti in questa terra, il sole scende e porta
il fresco della sera anche in questo agosto siberiano di cieli immensi.
Sono contenta di rivedere anche il tuo bel sorriso e non solo una parte di braccio bionico. Due frasi mi hanno colpita: il "lunghissimo scontrino che si srotola dall'Europa all'Oceano, ecco quanto è costata la vittoria" e i "pregiati fanghi del lago usati come cosmetici. Ciao. Sila
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