L’Iran
ci ha voluti
salutare
così
con uno spettacolo pirotecnico
di pietra
e i fuochi d’artificio
altissimi
della roccia
lanciata al cielo
come l’ultimo saluto
un canto muto
levato a dio
a chi ormai dà le spalle alla Persia
e guarda a oriente.
Dopo 85km di salita siamo
finalmente giunti al confine. Questa è l’ultima notte nella Repubblica
islamica: domani mattina, presto, alle 7.30, aprono i cancelli che ci faranno
entrare in Turkmenistan. Sperando che i visti e tutte le formalità burocratiche
non creino problemi.
Oggi è stata una giornata
faticosa ma nemmeno troppo: mi ero talmente preparata al peggio che, nonostante
il gran scalare, e il sudare la cresima, e lo smadonnare contro il vento sui
tornanti esposti, non sono nemmeno troppo stanca.
Stamattina siamo partiti tardi:
la colazione era alle 8, e un motociclista tedesco neolaureato, che sta facendo
un viaggio di 4 mesi per tutta l’Asia, si è aggiunto al tavolo per
chiacchierare un po’. Inoltre, uscendo da Quchan abbiamo fatto acquisti vari,
dal pane appena sfornato e profumatissimo, alla frutta, all’acqua. Come sempre
i negozianti e i passanti ci hanno tempestati di domande ed erano soprattutto
curiosissimi, a questo giro, di sapere in che relazioni fossimo io e il Puill.
Padre e figlia? Sposati (e fanno il segno con i due indici che si intrecciano
come anelli di una catena)? Amici! E parte la grassa risata di tutti che non
credono sia possibile. E vabe’, allora padre e figlia. Sì lui vive in Francia e
io in Italia. Per lavoro. E parliamo inglese. Cos seminiamo confusione e caos e
lasciamo tutti pieni di dubbi, a dscutere. Ben gli sta.
Come al solito nelle città il
casino è allucinante e le strade sono un pericolosissimo ingorgo di auto,
motorini, mezzi vari e pedoni che attraversano alla sperindio. Anzi, alla
Inshallah, parola di cui ora ho capito pienamente il termine, imboccando le
rotonde e passando gli incroci.
Inshallah siamo usciti dal centro
e in un attimo le strade si sono svuotate. E’ stato così poi per tutto il
giorno: abbiamo percorso l via che, arrampicandosi sui monti come un serpente
dalle molte spire, porta a Bajgiran, paesino sviluppatosi intorno alla
frontiera turkmena. Non c’è altro che questo. Perciò il traffico è pressochè
nullo, tanto più che gli uffici dela frontiera aprono alle 7.30 e chidono alle
15.30, quindi nel pomeriggio la strada è un vicolo cieco. E, a meno che non si
viaggi in bici, l’ultima città in cui fermarsi è Quchan, a poco più di 80km dal
confine. Infatti del nostro alloggio a Bajgiran dopo dobbiamo parlare.
Sapevo bene, comunque, che oggi
sarebbe stata una tappa da gran premio della montagna.
Abbiamo dovuto attraversare tre
file di monti, via via più alti, e poi risalire un vallone fino in cima, prima
di giungere a Bajgiran, arroccata alla coda orientale degli Elborz, tra i monti
cupi. Cupi perché qui si addensano nubi scure che a volte mettono pioggia, e
neve e ghiaccio d’inverno. Infatti è tutto più verde e gli occhi trovano
riposo, bruciati dal troppo sole e dell’aria rovente e dalla sabbia. Il verde e
le foglie e la linfa fanno invece bene al cuore, ma tanto!
Così iniziamo a salire. Primo
passo, 1600 metri. Ci sono i campi biondi e un cielo azzurro che sorride come
gli occhi che sogno ogni notte. Ci sono i contadini e i pastori che vivono un
altro tempo e camminano lenti o attendono seduti su loro stessi. Ci sono, in
cima, i roccioni nudi affilati dal vento, che oggi un poco ci dà tregua. Poi
giù, a precipizio, in una valle stretta.
Già di fronte a noi si para la
seconda catena da superare. Si risale, stavolta a quasi 2000 metri. Piano
piano. Intorno, a cerchi larghi, volano falchetti che vedo qui per la prima
volta, e si sentono gazze schiamazzare nei radi alberi. Le cavallette non si
contano, e son per lo più spiaccicate sulla strada. Quelle vive mangiano quelle
morte e saltano via quando l’ombra della Signora le sfiora. Qualcuna, con le
sue zampine artigliate, si aggrappa alle borse, qualcuna alle braghe. Compaiono
nuvole e l’aria è fresca, pulita, sembra di bere acqua di fonte. Controllo la
temperatura: 30 gradi, ma il mio corpo, ormai ridotto a pirofila, ne percepisce
la metà. Si sta bene e si avanza spediti, per quanto concesso dalle pendenze.
Non serve nemmeno far soste. Intorno a volte greggi o alveari, sempre con
accanto la tenda dei pastori e degli apicoltori che trovano così riparo dal
sole. Ma qui la luce è buona e non brucia.
Finisce anche la seconda salita e
si scende, di nuovo fin troppo, e di nuovo davanti si para un muro di roccia.
Il terzo passo ci porta a 1800 metri, scende un poco e risale a 2000. E siamo
nella valle che dovremo risalire fino in cima, ma senza più tagliare a
perpendicolo altre catene. L’ultima salita è massacrante: ripidissima ed
esposta al vento. La si fa tutta sui pedali, trascinandomi dietro il culo
pesante della Signora che ormai ha una massa pari alla mia. Tric tric tric le
gambe girano con sforzo immenso pure sul rampeghino. Tric tric tric tric… Non
c’è nemmeno un poco d’ombra per fermarsi. Allora si scollina, e via, tutto d’un
fiato.
Una volta giunti nel vallone che
seguiremo fino al fondo, per gli ultimi 30km di piena salita, decidiamo di
fermarci per il pranzo. Sono già le 2, ma non ce ne siamo accorti: il caldo non
ci ha morso le tempie come il feroce leone che è stato per un mese. Siccome
altro non si trova, optiamo per alcune case abbandnate giusto prima di un
microscopico paesino di pastori, ad un bivio. Una strada è la nostra, l’altra
va a perdersi nella sua tana tra i monti che abbiamo difronte. Tra scampanellio
di greggi e ragliare d’asini, ci riposiamo, mentre Raymond accende il suo fuoco
con la legna (tempo impegato circa 30 minuti) e fa il tè. Il pane al sesamo,
buonissimo e meraviglioso, ma fa pensare ad un ragazzino che conosco, che anni
fa aiutava il suo papà al forno, fin da prima dell’alba: quella di fare il pane
è un’arte sacra, antica e umana. Il pane è forse la cosa più semplice e insieme
grandiosa che l’uomo abbia inventato. Uno più uno non fa due, acqua e farina
non fanno acqua + farina. C’è della fantasia dolcissima, della sapienza più
fonda di qualsiasi pozzo magico, di qualsiasi libro, e più alta di ogni
religione. Il pane. Che buono!
Intanto si addensano le nuvole e
temo persino voglia piovere. Non lo farà, ovviamente, ma la luce cambia e pare
di essere già in un mondo nuovo, in altro paese. E’ scura e velata, pare quasi,
a tratti, che ci sia la nebbia. Come in Val Padana! O quasi. Intanto la strada
corre e pare d’aver preso la panoramica. Pare di essere in Nuova Zelanda, in
una pagina de Il Signore degli Anelli. E’ tutto verde e roccioso, con i monti
dalle forme curiose, spaccate, aguzze o tonde. L’umidità crea un velo opaco che
fa mistero e sacro assieme. Non si sente il minimo rumore. Solo il mio respiro.
Si sale e si sale, fino alla
moschea semiabbandonata di Emam Baad. Di fronte, una parete di roccia
perfettamente liscia che pare un’onda altissima pietrificata. E una sedia e un
cespuglio coperti di nastrini colorati.
Legolas, cosa vedono i tuoi occhi
di elfo? Le bianche torri di Minas
Tirith? No! Altra salita. E poi il paese di Dorbadam, che ha un fiume vero con
l’acqua vera e alberi alti e prati dove pecore e bimbi riposano. E poi cosa
vedono, Legolas, i tuoi occhi acuti? Un bivio, una strada vecchia che sale a
tornanti, e un’alta che invece finisce in un tunnel.
Scegliamo questa, più lunga
forse, ma meno ripida. E al tunnel si arriva, in effetti. All’inizio è
illuminato, poi si fa completamente buio. Accendiamo le nostre lucine ma son
solo di segnalazione, si procede, a quanto pare in discesa, senza vedere
alcunchè, se non il puntino di luce in fondo che s’allarga man mano. Pare una
giostra a metà tra la casa degli orrori e le montagne russe. Iraniane. Fa pure
freddo, lì dentro.
Una volta di là, poi, però, è
tutta discesa, a parte gli ultimi 2-3 kilometri. Attraversiamo in un lampo la
bella valle Shamkaal, che vanta pure cascate e altre attrazioni turistiche e
arrampichiamo su per l’ultima rampa, tallonati da due importuni ragazzini in
moto che ci investono di rumore e fumo, curiosi e pressanti come non mai.
Ah, alla fine eccolo il cartello
di Bajgiran! Ci siamo, dunque! Sappiamo che in paese, meno di 70 anime totali,
sulla strada principale, ovvero l’unica, c’è un hotel. Forse anche due, ma uno
è sicuro. Pedaliamo in salita per qualche centinaio di metri e, a parte un paio
di negozietti e due stazioni di polizia e militari, un cane tante case
abbandonate, non vediamo nulla. In fondo alla strada un cancello chiuso. E’ la
frontiera!
Mannaggia, e sto hotel mo? Torniamo indietro e chiediamo ad un
negoziante, di fronte al quale sono riuniti praticamente tuttigli uomini del
paese. Ci dice che sì, l’hotel sta lì poco distante. Torniamo indietro ancora
un po’ e nulla. Chiediamo a un passante e ci conferma che l’albergo è lì,
giusto dall’altra parte della strada. Eppure non si vede nulla, se non una
caserma e un edificio chiuso da secolo e con segni di un incendio all’esterno.
Ci avviciniamo e due militari, di cui uno in divisa l’altro mezzo biotto, ci
dicono che l’hotel è proprio quella struttura sinistra e gremata, e che per di
più non c’è una reception ma bisogna chiamare. Gli porgo il mio cellulare conla
sim iraniana. Sparisce e torna poco dopo, facendoci segno di aspettare lì. In
un secondo compare il proprietario, che ci porta all’hotel e ci lascia le
chiavi dell’intero complesso. Longa brevis: questo paesino esiste solo in
funzione del confine. Il confine è stato più chiuso che aperto per anni, fino
al 2016 circa, e dunque le attività sono fallite e tutto è stato lasciato
all’abbandono. L’albergo è inquietante e sinistro, zozzo con resti di cibo e
bagno non lavati, unto e polvere.
Ma ci sono i letti, la cucina (enorme, con
stoviglie e padellame e fuochi enormi da ristorante, tanto che il Puill mette
su una teiera da 20 litri).
C’è tutto. Non funziona quasi nulla, dall’acqua
allacorrente elettrica, però oh, abbiamo le chiavi. Domattina possiamo
andarcene quando più ci garba, e ci viene lasciata istruzione di nascondere le
chiavi sotto ad un sasso in un’aiuola del giardino. Portiamo dentro tutto.
subito il proprietario ci chiede se vogliamo cambiar valuta e prendere dei
Manat, la moneta turkmena. Sappiamo dagli amici di Raymond che sul mercato nero
1 euro son 15 manat, 3 volte tanto il cambio ufficiale. L’omino tuttofare ci
propone 1 euro 13 manat. Accettiamo. sicchè va a chiamare un altro amico, che
si presenta con il denaro in banconote di piccolo taglio. Diamo tutto i Ryal
avanzati, 10 milioni, circa 100 euro. Sicchè ci vengono dati, dopo qualche
tiramolla di trattative, 1300 manat, perché all’ultimo cambio il Ryal non
valeva più nulla e si era svalutato tantissimo, tanto che un euro era arrivato
a varne 100.000 (al nostro arrivo a Teheran 50.000 ufficiali). Insomma, tra un
maneggio e l’altro ci liberiamo di tutta la moneta iraniana, salvo
l’equivalente di un paio di euro che spendiamo di lì a poco: bussa alla porta
dell’hotel un giovanotto che chiede se vogliamo cenare. Certo! Ero già
rassegnata all’ennesima pasta alla Raymond. E invece in breve, oltre al
portafogli pieno, ci troviamo in mano anche due pani arrotolati intorno a kebab
d’agnello e verdure, due bottiglie di Coca cola e un tot di salsine. Insomma,
un affare!
Ora siamo davvero pronti a
varcare il confine. Domattina la sveglia è alle 6, per essere al cancello
intorno alle 7. Uscire dall’Iran non sarà un problema, ma richiederà molto tempo
entrare in Turkmenistan: né io né il Puill abbiamo il visto, solo una mail che
conferma che la nostra application, la lettera di richiesta, è stata accettata.
Ma chissà se in questo bucio di culo d’ufficio avranno i nostridocumenti, che
dovrebbero esser stati loro inviati dai consolati di Parigi e Roma. Chissà se
ci faranno domande o perquisizioni. Il Turkmenistam ha leggi assurde che
regolano con follia lucida il numero di sigarette (40), di medicinali, di
tappeti (non più vecchi di 40 anni, se no è vietato) e di cianfrusaglie varie
che si possono importare ed esportare. Non si possono fare foto e c’è il
coprifuoco dopo le 23. Perdiamo mezz’ora di fuso, sicchè saremo a +3
dall’Italia. Abbiamo 5 giorni per fare 620km di deserto, con giusto una città
ogni tanto, soprattutto dopo Mary. Internet sarà per lo più bloccato (speriamo
nella Vpn) e costoso. Insomma, un bel casino. Ma richiedere un visto turistico,
e non di transito (massimo 5 giorni) significa spendere fino a 200 euro al
giorno per avere una guida 24 ore su 24 che ti “accompagna a vedere i posti
migliori”, ovvero controlla ogni tuo movimento. E noi siamo randagi, selvatici.
Sono una volpe, non un cane al guinzaglio!
Vedremo dunque domani come butta.
Se tutto va bene, passeremo per la vicina capitale, Ashgabat, e poi ci
spingeremo a sud il più possibile, seguendo l’unica strada che attraversa il
paese. Non si può sbagliare.
Spero di riuscire ad aggiornare
il blog. Nel caso no, ricomparirò il 28 o il 29 direttamente dall’Uzbekistan!
Per i curiosi, un paio o tre
numeri dell’Iran:
permanenza: 30 giorni
percorsi in bici: 2200km circa
(poco più, ma poco poco), di cui 800 nel deserto
percorsi in bus: 250km
dislivello positivo:
incalcolabile
vento: *censura*
temperatura massima vista sul
termometro, non esposto al sole: 52° C
C’È VACANZA E VACANZA
RispondiEliminaPedalando di gran fretta
spinge sulla bicicletta,
col suo gran temperamento
del deserto sfida il vento!
Non c’è sabbia che la freni
lei e il Puill come due alieni
indovina dove stan?
Bravo! Nel Turkmenistan…
E in due l’è sto posto qua?
Se dumanda chi sta a cà.
Boh! Mi pare che stia a Oriente,
di sicuro non c'è niente,
quel che è certo cari miei
non è meglio ad Ortisei?
🤠
RispondiEliminaOn pense à vous, bon courage. Germaine et André
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