31/7/18
A lasciar Bukhara un po’ piange
il cuore, chè è stata il nostro porto sicuro, il nostro primo approdo dopo
l’oceano di sabbia, dopo il deserto e la teocrazia e il deserto e la dittatura.
In effetti pare che il più alto
minareto fosse invero usato come torre di faro, con un fuoco sempre acceso in
cima ad indicare ai carovanieri la via. Proprio come un faro. Che il deserto
non è poi tanto diverso dal mare aperto, con i silenzi enormi e le stelle e il
sole a segnare la rotta, nulla intorno, molto sale e non occhi né radici. La
luce che abbacina e il nero più cupo.
Terra in vista, città in vista!
Mi immagino la gioia dei mercanti e dei loro servi, delle bestie cariche e di
tutti, all’idea dell’acqua e dell’ombra, del riposo finalmente. Della salvezza.
Lasciare Bukhara è stato però
facile: innanzitutto non più fitte nè spasmi nè dolori; inoltre la città non è grande ed il traffico è assai ordinato; certo non è
Berlino ma rispetto all’Iran non c’è paragone. Siccome percorrere fin da subito
l’autostrada, la M37, avrebbe significato allungare di circa 10km il tragitto,
già previsto sui 110km, abbiamo deciso di riprenderla solo a metà giornata e di
optare, prima, per una serie di strade secondarie che attraversano i paesi e le
campagne.
Grave errore: pur essendo strade non piccole e ad alta percorrenza, la qualità del fondo è a dir poco pessima. Ci sono lunghi tratti sterrati, ma sterrati brutti, con la sabbia e i sassi, i tocchi ti asfalto spaccato da decenni buttati in giro e buche grandi come la porta dell’inferno. Le macchine e i marshrutki passano a manetta strombazzando e sollevano nuvoloni di sabbia che rendono tutto ancora più difficile. Non siamo mai stati costretti a spingere le bici a mano, ma questi tratti sfasciati ci hanno rallentati tantissimo, perché il rischio di cadere, se non si fa attenzione, è troppo alto.
Grave errore: pur essendo strade non piccole e ad alta percorrenza, la qualità del fondo è a dir poco pessima. Ci sono lunghi tratti sterrati, ma sterrati brutti, con la sabbia e i sassi, i tocchi ti asfalto spaccato da decenni buttati in giro e buche grandi come la porta dell’inferno. Le macchine e i marshrutki passano a manetta strombazzando e sollevano nuvoloni di sabbia che rendono tutto ancora più difficile. Non siamo mai stati costretti a spingere le bici a mano, ma questi tratti sfasciati ci hanno rallentati tantissimo, perché il rischio di cadere, se non si fa attenzione, è troppo alto.
Tuttavia, la decisione di far
strade secondarie ci ha permesso una full immersion nell’Uzbekistan rurale del
sud-ovest, che è una costellazione di paesi e paesini, alcuni più moderni e
lindi, altri più vecchi e polverosi; le cascine e le case si alternano ai campi
e i filari d’alberi segnano una linea d’ombra sotto cui riposare. I contdini
già sono al lavoro, chini a raccogliere o a zappare, o a tagliare il fieno e
accatastarlo sui carri.
Quando passiamo, si fermano e ci
guardano, appoggiati ai rastrelli e alle vanghe, e salutano con gesti ampi.
E’ tutto così verde e giusto,
così fresco e a misura d’uomo che mi pare quasi di essere in uno dei paesi di
casa, tra Cusago e Gaggiano. Mi dicono per altro che anche lì ora ci sono 38-39
gradi… Come qui praticamente (e ho parlato di fresco perché fino a due
settimane fa nemmeno pedalavo con una media di dieci gradi più alta).
Si respira un’aria tranquilla, di
vita semplice e lenta, che scorre con il ritmo della linfa e delle stagioni.
Ogni tanto sale una brezza fresca dai fossi, e le foglie cantano. Il deserto è
su un altro pianeta., non qui.
Passiamo accanto all’imponente
complesso architettoico Bahaoddin Naqshband Bokhari, con un gran viavai di
turisti e il relativo mercatino delle cianfrusaglie da rifilare a chi cerca un
souvenir. Gli edifici in realtà si sono accumulati a partire dal 1300, ma il
cuore del sito è il mausoleo del sant’uomo, sufi, mistico ed esperto di legge
che viene considerato il patrono degli artigiani (come suo padre era, con la seta).
Diceva Nashqbanf che Allah è nel pensiero e nelle mani, nel lavoro, e chi
produce e crea con la propria arte è
libero davvero. Nel mausoleo c’è anche una pietra che, se toccata, permette di
esaudire i desideri: non pochi pellegrini vengono qui per questo ogni anno.
Inoltre si dice che lo spirito del santo avverta di disastri e calamità
naturali. Niente di nuovo sotto il sole, insomma.
Noi ci siam spinti oltre, non
avendo percepito alcuna vibrazione che ci avvertisse di mali imminenti. Abbiamo
passato i diversi canali che escono dal bacino artificiale Kuiymzarskoe,
accanto al grande lago Tudakul che fa verde di linfa e bionda di spighe
l’intera regione.
A parte le strade distrutte, è
stato un piacere pedalare tra i campi di cotone e i frutteti, tra le cascine
profumate di fieno d’oro e i muggiti delle vacche che brucano pacifiche
all’ombra, sulle rive dei fossi, a bordo strada.
Se fino a prima dell’ora di
pranzo la gente si limitava a salutare, dopo siamo stati anche più volte
fermati da simpatici uzbeki mezzi pieni di vodka, che qui scorre in letti di
fiume ampi come l’Ob’. La gente, che poi son pastori e contadini, operai e
camionisti o semplici sfaccendati, ci raggiunge in auto e ci chiede di
accostare, o esce dall’ombra delle frasche dove riposava per parlare con noi.
Di solito lo fanno con tale enfasi che pare abbiano qualcosa di urgente e
importante da dirci, come volessero avvisarci di un pericolo o darci un
consiglio importante. Invece poi son strette di mano, sorrisi e domande. Il
tutto fatto a voce troppo alta e senza rispettare le giuste distanze tra
persona e persona, come tipico degli ubriachi. Di questi primi due, estasiati
dal fatto di parlare con un’italiana e un francese, posso contare tutti i denti
d’oro e i gradi alcolici che hanno nel sangue.
Ci fanno molte domande e si parla
un russo sbilenco da alconauti: loro perché pieni, io perché non so la lingua.
Curiosamente per i successivi
30km TUTTI gli automobilisti e i passanti sanno da dove veniamo, ed è un
profondersi di “Bella Italia ciao arrivederci Sicilia da karashò ciao!” dai
finestrini delle macchine e dal bordo della strada.
Proseguiamo lenti perché la
strada è urenda e ci fermano in mille. Le profferte di tè e vodka si
moltiplicano, ma noi vogliamo almeno riportarci sull’autostrada.
Così facciamo. Scopriamo che
anche là dove i paesi sono un poco più radi (e comunque mai più distanti di
5-10km uno dall’altro) ci sono persone che vendono di tutto a bordo strada,
ogni pochi metri, sotto a grandi ombrelloni o gazebo sbiaditi al sole. Sono
tutti muniti di frigo e freezer, in cui tengono acqua, alcolici, un energy
drink che qui viaggia a manetta e altre bottiglie dal contenuto indefinito.
Qualcuno ha frutta, angurie e meloni, qualcuno pane e prodotti da forno che
vende sfusi. Ci fermiamo ad un baracchino e due donne simpatiche e ciarliere,
anche loro assai curiose, continuano a capir vodka per voda, che è l’acqua.
Mannaggia, voda, voda, non vodka! Che ce stan 40 gradi e dobbiamo pedalare!
Passiamo alcuni tratti più
desertici e all’orizzonte si profilano, dopo giorni di totale pianura, i primi
rilievi, azzurri per la distanza e sfocati dal calore dell’aria. Per ora noi
resteremo in piano. Poi no, ma ci penseremo a tempo debito, verso il montuoso
Kirghizistan.
Passiamo la cisterna e il caravanserraglio
Rabat Malik, che risale a metà dell’XI secolo ed è uno dei più antichi e
decorati tra quelli rimasti sulla via della seta. Ovviamente la posizione era
strategica: tra Bukhara e Samarcanda, a mezza via.
Notevoli anche i negozietti che
vendono acqua e bibite, collocati, perché sia chiaro cosa vendono, in una
grande ampolla. Ovvio, no?
Dopo uno stretto susseguirsi di
paesini dall’anima rurale giungiamo finalmente alla periferia della città meta
di oggi, Navoiy. Ci accolgono la centrale nucleare in pieno stile sovietico,
cioè mezza cadente e spaventosa così grigia nei suoi bianchi fumi, e la zona
industriale.
La città infatti si trova inuna
regione ricca di gas naturale e di metalli, tra cui una tra le più pure qualità
d’oro del mondo. Inoltre è stata creata una zona a tassazione ridotta per le
industrie straniere, la Navoiy Free Industrial Economic Zone. Inutile dire che
ciò ha attirato numerosi investimenti esteri e tante fabbriche sono state
aperte. Nel bene e nel male, è un modo con cui l’Uzbekistan, che fu una delle
più povere e arretrate repubbliche sovietiche, sta tentando di sollevar la
testa e far decollare la propria economia. Navoiy si è così sviluppata come
centro industriale e, seppur non grande (100.000 abitanti) e priva di qualsivoglia
attrattiva turistica, presenta tutti i servizi necessari, dai negozi agli hotel
ai ristoranti agli uffici.
Originalmente la città era
conosciuta come Kermine sotto l'Emirato di Bukhara, ma venne rifondata
nel 1958, e fu allora intitolata al poeta e statista uzbeko Alisher Navoi, che
scrisse in persiano e Chaghatai alla corte dell'emiro Husein Boykara a Herat.
Il poeta, vissuto a metà del XV
secolo, difese la superiorità del Chagatai e delle lingue turciche sul
persiano, scrisse un trattato dove comparava questi idiomi ed è considerato il
primo grande letterato ad aver usato il chagatai e non il persiano. E’ il Dante
uzbeko, praticamente. Non parliamo qui di latino e volgare ma di lingua
persiana e lingue turciche, però la sostanza è la stessa.
La città oggi è un perfetto
esempio di architettura sovietica pesa: palazzoni in cemento, separati da
miseri giardinetti con scivoli e altalene che paion patiboli. La gente vive in
questi grandi formicai, tutti affacciati sulle strade principali e protetti
alla vista da una fila di alberi. Sembra di essere tornati in Russia, ma
d’altronde la città che vediamo oggi è del ’58, quindi proprio russa.
L’unica cosa a cui stare attenti
sono i numerosi taxi, che si fermano continuamente a caricare e scaricare gente
e accostano e ripartono senza guardare.
Dopo 4km verso il centro
raggiungiamo l’hotel a cui stavamo puntando, il Techno park (TEXNO-PARK), un
edificio orribile, un tubo nero di quattro piani MA dotato di ogni comfort. a
parte l’ascensore. Ai piani inferiori ci sono negozi e locali, mentre
all’ultimo, dopo la terrazza l’hotel. Lasciamo le bici nella saletta delle
guardie giurate, e me le immagino e pedalare in tondo nel salone principale per
tutta notte, perché qui è frequente la richiesta di provare le nostre bici. Poi
prendiamo le stanze, e anche qui ci dicono che ben siano separate perché per
legge se non si è sposati non si può dormire insieme.
C’è il tè ad libitum self service
come in molte strutture, dalla Persia al centr’Asia. E noi ne approfittiamo.
Cala il sole sulle statue di
dubbio gusto e sulla soviet-città, mentre noi, con 111km sulle zampe, ci
dirigiamo a cena e diventiamo l’attrazione pricipale di tutti i presenti. Ma
son persone gentili e tentano ogni cosa per farti sentire a tuo agio. Non ci
riescono, perché è imbarazzante aver gente che ti fissa mentre mangi e mentre
parli, mentre cammini e mentre riposi. Ma non importa. Samarcanda è sempre più
vicina. “Fiumi poi campi poi l’alba era viola, bianche le torri che infine
toccò…”
SAMARCANDA
RispondiEliminaReligioni ce n’è a josa
in sta terra misteriosa,
fanno a gara per trovare
qual è il Dio per cui tifare.
Bah...pensiamo a pranzo e cena
dove il Puill mi si scatena:
“Qui si mangia alla francese
non possiam fermarci un mese?”
Pensi sempre alla vivanda
c’è da andare a Samarcanda!
“Samarcanda del Vecchioni?
Mamma mia che due co****ni!”
Samarcanda città antica
arrivarci è una fatica,
però quando sei arrivato
poi rimani senza fiato!
Volpe, il viaggio ormai è a metà,
chissà quando finirà...