La giornata di oggi è iniziata davvero nel migliore dei modi possibili: con un piccolo ma me-ra-vi-glio-so assortimento di dolcetti turchi, direttamente dal ristorante accanto al mesto hotel dove abbiamo pernottato (e dormito poco a causa dell'assenza di condizionatore e di tende a fermare il sole, dalle 5 del mattino). Dunque, ben nutriti a miele e baklava, siamo partiti con l'intenzione di fermarci giusto 3 kilometri dopo, nel centro di Kokand (Qo'qon), la città dei venti (o del cinghiale...Mah).
Si tratta di una bella cittadona moderna e pulita, piena di negozi e locali e con tanta gente per le strade. Fu capitale del Khanato di Kokand e dell'Autonomia di Kokand.La città ha sempre rappresentato il più importante nodo delle rotte mercantili della valle di Fergana, fin dai tempi della via della seta.
La cosa che ci interessa innanzitutto è il palazzo di Khudayar Khan, costruito tra il 1863-1873 dall'ultimo signore del khanato, prima della conquista russa; è uno dei più grandi e ricchi edifici dell'Asia centrale. Oggi trasformato in museo, rimangono ancora integre 19 delle sue 113 stanze.
Il Khanato di Kokand era un Khanato islamico indipendente dell'Asia centrale, esistito tra il 1709 e il 1876 su un territorio oggi diviso tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan. Fu fondato dallo shaybanide Shahrukh Boi nella parte occidentale della pianura di Fergana, eleggendo come capitale la piccola città di Kokand, dove fece costruire una cittadella fortificata.
Sia suo figlio (ʿAbd al-Karim) sia suo nipote (Narbuta Beg) allargarono la cittadella, ma entrambi furono costretti a pagare un tributo alla dinastia Qing cinese tra il 1774 e il 1798, cosa che di tanto in tanto viene ricordata dai cinesi per affermare la loro sovranità sull'intera valle di Fergana. Che siano passati 250 anni poco importa.
ʿAlim, figlio di Narbuta Beg, fu tanto crudele quanto efficiente: assoldò un esercito mercenario di tagichi e conquistò tutta la valle di Fergana, incluso Khujand e Tashkent. Fu però assassinato dal fratello ʿOmar nel 1809.
Madali (ossia Mohammed ʿAli), figlio di ʿOmar, salì al trono nel 1821 all'età di 12 anni. Durante il suo regno il khanato raggiunse la massima estensione territoriale. Nel 1841 il capitano britannico Arthur Conolly, dopo aver fallito nel creare un'alleanza tra i khanati dell'area in funzione anti-russa, nel novembre 1841 lasciò Kokand per Bukhara, cercando di soccorrere il colonnello Charles Stoddart, ma furono entrambi uccisi nel 1842.
Nonostante gli sforzi della vedova di ʿOmar, la famosa poetessa Nadira, anche Madali si distinse per crudeltà e dissolutezza, dando all'emiro Nasrullah Khan di Bukhara il pretesto per invadere Kokand nel 1842. I cittadini di Kokand però, preferendo i propri despoti a quelli stranieri, si ribellarono poco dopo e si scelsero come khan Shir ʿAli, cugino di Madali.
Negli anni successivi il Khanato fu sconvolto da lotte intestine e conflitti etnici, dando buon gioco ad incursioni provenienti da Bukhara e dalla Russia.
Shir ʿAli regnò dal 1845 al 1865, eccetto un breve periodo nel 1858 quando il regno fu governato dall'Emiro Nasrullah di Bukhara. Nel frattempo la Russia continuava nelle sue pressioni, conquistando Tashkent nel 1866 e Khojand nel 1867. Sospinto dai Russi, Yakub Beg, già signore di Tashkent, riparò a Kashgar che strappò ai Cinesi.
Nel 1868 un trattato commerciale trasformò Kokhand in uno Stato vassallo e l'ormai inutile Khudayar Khan, il nuovo khan, spese tutte le sue energie per abbellire il suo palazzo. Le relazioni dei visitatori occidentali che capitavano a Kokhand raccontano che vi si trovavano 600 moschee e 15 madrase.
Una insurrezione anti russa e contro l'oppressivo regime fiscale di Khudayar costrinse quest'ultimo all'esilio nel 1875. Gli successe Pulad, suo parente, la cui politica anti-russa provocò l'annessione del Khanato da parte dei generali Konstantin von Kaufman e Michail Skobelev nel marzo 1876, dopo accesi combattimenti.
Il Khanato di Kokand fu dichiarato decaduto e i suoi territori incorporati nella provincia di Fergana del Turkestan russo.
Il museo che si trova sparso all'interno delle sale del palazzo ospita anche alcuni pezzi risalenti ad epoche precedenti il khanato, dalla preistoria alla conquista di Tamerlano.
Diciamo che in sè val la pena di essere visitato, se non si è troppo di fretta, anche perchè il biglietto costa poco più di un'euro e i visitatori sono pochissimi, quindi si passeggia tranquillamente tra sale, cortili e portici.
Dopo aver visitato il palazzo e prima di lasciare definitivamente Kokand, andiamo alla ricerca dell'altro pezzo forte della città, la Moschea del venerdì (Jami). Non è questa sotto in foto, di cui mi piaceva soprattutto il vecio seduto fuori, con il suo berretto uzbeko.
Eccola qui la moschea Jami. Costruita all'inizio del XIX secolo, si trova a qualche minuto a piedi dal palazzo. La sua aiwan è impressionante: presenta ben 98 colonne in legno lavorato che permettono di sostenere il soffitto in legno, lavorato e dipinto con rappresentazioni floreali rosse, verdi, blu e gialle
Queste 98 colonne in legno arrivano direttamente dall'India; si dice che siano state portate qui con gli elefanti, una per ogni pachiderma. Erano 100 in partenza, ma due elefanti si son guastati sul percorso e quindi amen, s'è fatta con 98 colonne. Capita e ci si arrangia.
Vista anche la moschea, siamo ripartiti, e questa volta per davvero. La tappa non aveva una meta precisa: ad Andijon, ultima grande città della valle prima del confine kirghizo, eravamo certi ci fossero hotel, ma eran 135km. Prima, chissà.
Nel traffico della periferia di Kokand ci siamo districati tra auto, marshrutki e pedoni, bazaar e mercanzie varie. Un baldo uzbeko ha iniziato a starci a ruota e ci ha seguiti per alcuni kilometri. Ad un certo punto ha deciso di alzarsi sui pedali e superarci, mentre Raymond gridava: "Alè alè l'anziano!".
Il brav'uomo si è poi affiancato ed abbiamo conversato un po' in russo un po' in inglese un po' a gesti, e ci ha persino offerto di andar con lui a bere il tè. Ma noi eravamo già abbastanza in ritardo rispetto al solito e la tappa rischiava di esser lunga (come in effetti è stata), sicchè abbiamo declinato.
Fuori Kokand è iniziato un lungo, piatto e verdissimo rettilineo: è la strada che taglia nel mezzo la valle di Fergana. Ad un capo c'è la città da cui siam partiti, all'altro quella in cui siamo arrivati, dopo 135km: Andijon. Nel mezzo ci sono pochi e piccoli villaggi, tutti rurali a vocazione agricola vista la natura del luogo. Tuttavia non è difficile trovar acqua e cibo perchè, come sempre qui in Uzbekistan, lungo la via ci sono baracchini e ristorantini e varie amenità che sopperiscono a qualunque esigenza di chi è in viaggio, breve o lungo che sia.
L'unico problema qui è che al caldo si aggiunge un'umidità stellare, una roba che in confronto la pianura padana in agosto è nulla. Si respira a fatica e si suda come cinghiali feriti. L'umidità sale dai campi di mais e di cotone, dai frutteti (mele, uva) e dai prati, dai torrenti e dai fossi.
Il paesaggio è variegato anche per la presenza di colture particolari, tipo i campi a cammelli. Cammelloni immensi che brucano lemmi lemmi nel verde, che per loro è come stare in paradiso. Son cammelle femmine invero, da latte. Poco oltre iniziano una serie di negozietti in lamiera che vendono il kumiss, la bevanda leggermente alcolica a base di latte fermentato di giumenta o cammello. Io l'ho bevuto più volte in Mongolia dai pastori nomadi e NO GRAZIE, provare s'è provato e basta così. L'odore è terrifico e sa proprio di latte andato a male, quello che dimentichi in frigo per due mesi d'estate. Viene coperto un po' con sale e spezie ma il risultato fa solo che peggiorare.
Guardato e non toccato il pestilenziale kumiss, ci fermiamo a bere un tè freddo ad uno dei molti baracchini e inizia un bel teatro sul fatto che "Ah franzus futbollll! Italianska da ahahahahah Totocutugno!" e via così. Poco oltre, Raymond si ferma a "prendere l'acqua". La pesca da una delle molte fontane, chiamiamole così, che son tubi ficcati nei torrenti fangosi a bordo strada. Sono usate per tenere al fresco bottiglie e meloni, e per raffreddare i motori surriscaldati delle auto. E, secondo Raymond, da bollire per fare il tè va benissimo. Ci sono pure dei pescioni nella pozza antistante. Io mi bagno la testa e sento proprio l'odore della malattia. Il bretone dice: "Ma l'acqua è vita". "Pure morte se bevi questa" aggiungo io, pensando che, dopo i liquami, l'acqua è uno dei vettori più terribili per diverse tipologie di batteri che possono veramente portarti tre metri sotto terra.
Per fortuna l'acqua marcia finisce ad innaffiare un albero di un ristorantino vero e proprio che troviamo a bordo strada poco oltre. Prendiamo posto su un divano-tavolo-letto (takhtana), ordiniamo due teiere di tè verde e una zuppaccia di carne in blocco unico. Poi sfoderiamo il nostro pane e il nostro miele e il nostro latte condensato, e questo è il pranzo.
Prima di ripartire prenotiamo anche l'ostello a Osh per domani e dopodomani, così da esser certi di avere un indirizzo a cui recarci senza perder tempo in quello che immagino un dedalo di strade e traffico. Naturalmont destiamo la curiosità di tutti, e i due più intraprendenti uzbeki si siedono al tavolo con noi, curiosissimi di ciò che sto trafficando sullo smartphone. La nota a margine dell'idilliaco quadretto invece è splatter. Anche qui le tyalet sono na ulitsa, sulla strada, e sono il classico buco in terra con la lamiera intorno. E sotto, ma pericolosamente vicino, un mar di liquami BRULICANTE di vermi. E' l'immagine che più mi resterà dei servizi igienici dell'Asia centrale. Le larve che si dimenano a qualche centimetro dal mio culo. Per fortuna non possono saltare. Brrrrrr brrrrrividi.
Ripartiamo lasciando ristorante, vermi e 3 auto + 1 pullmino carichi di angurie. Ormai è chiaro: l'Uzbekistan è una repubblica fondata sui poponi.
Non faccio in tempo a pensare questa cosa e trac, traffico, che significa mercato di meloni. Non ce n'è: è la base della piramide alimentare e il fondamento dell'economia del paese.
Dopo qualche estensione di campi verdissimi arriviamo a Boz, un paese dove la gente va matta per foto e selfie. Lo so perchè tra quando ci siam fermati (a comprare l'acqua) a quando siamo ripartiti, 15 minuti dopo scarsi, saremo stati immortalati in totale almeno 50 volte. Alla fine il Raymond era veramente scocciato. Io anche, non tanto con i ragazzini, a cui ormai ho gli anticorpi lavorando a scuola, ma per gli adulti. Uno in particolare era un po' ciucco, un po' troppo espansivo e rumoroso, e si avvicinava troppo. Vade retro!
Finito il teatrino delle foto arriviamo a Shakhrikhan, dove speravamo di trovare un alloggio. Ma nulla.
Troviamo invece delle oche che papereggiano sulla superstrada e costringono le auto a fare frenate e manovre pericolose, mentre l'anziano proprietario, sotto al berretto uzbeko e sotto alle rughe della fronte aggrottata, guarda con preoccupazione la scena. Da bordo strada assiste a quel che sarà un inevitabile patè.
Iniziano poi una serie di paesini, uno in fila all'altro, dove la lobby delle zucche sostituisce quella dei meloni e delle angurie. Ogni casa ha fuori dall'uscio le sue belle cucurbite e a presidiarle c'è un bambino annoiato, che probabilmente s'è fatto giornata lì sotto al sole sulla strada.
Poco prima di entrare ad Andijon (ormai s'è capito che ci tocca raggiungere questa città-capolinea) si aprono larghi filari e l'aria si fa più fresca e meno opprimente. C'è profumo di frutta matura e di erba umida. Il sole inizia a calare e sento dei brividini piacevoli sulla pelle bruciata e rovente.
Gli ultimi kilometri sono deliranti e, se la distanza si contrae, si dilata il tempo, come dice Einstein. Infatti il traffico diventa tremendo e disordinato, con automobilisti sfacciati e cazzoni che ridono mentre ti tagliano la strada e poi urlano "turist turist" con la mano fuori da finestrino. Che coglioni. Andijon fa quasi 400.000 abitanti, ha un'aeroporto e molti hotel. La maggioranza di essi sta pure su Google maps, ma nel posto sbagliato. Stesso problema che avevo in Russia e stesso problema di Angren. Vai all'indirizzo che trovi su internet e ti trovi in una strada sterrata tra una baracca e prato con le galline.
La città in sè non è brutta ed ha molte vie commerciali. C'è pure la carlinga di un aereo sotto cui puoi tranquillamente sorseggiare tè, sperando non venga giù.
Dopo molto disperato e vano girare tra vie e viuzze, dopo aver chiesto e non aver ottenuto risposta, mi cade l'occhio su un enorme palazzone che sa di sovietico. E, magia!, è un hotel. Non sta su Google ma è qui, reale e solido come il cemento, come i sogni del proletariato. Ci fermiamo ed apprezziamo i due insensati dragoni all'ingresso, aggiunti di recente per rendere meno orribile il comunque orribile edificio.
Dentro si aprono una hall enorme, deserta e mal illuminata. Una reception gigantesca e polverosa. Le tette gigantesche della receptionist, 90kg di donnone biondo platino fasciati in una camicia bianca. Occhiale vezzoso e subito un foglietto con scritto il prezzo, molto popolare. Aggiudicato! Mi pare d'esser tornata in Bielorussia.
Il bagno si presenta così; il lavandino si stacca dalla parete e quando apri l'acqua il tutto fa un rumore tipo decollo di Soyuz. Avanti popolo!
La carta igienica merita un discorso a parte, qui in uzbekistan in particolare. Scusate se torno spesso su dettagli infimi ma son cose che lasciano il segno. L'involucro del rotolo sorride da un lato
e avverte di possibili pericoli dall'altro
e infatti ci tocca la tipologia "carta crespa". E' identica alla cartacrespa che si usa per i lavoretti a scuola e per le decorazioni natalizie. Spessa, dura, ruvida, imparentata con il cartone e la carta vetrata. L'altro tipo che può capitare è il genere "carta velina". In medio stat virtus ma i 3 veli della Regina qui non sono ancora giunti.
Questi sono gli inquietanti corridoi dell'edificio, che è un enorme blocco ci cemento su 4 piani; gli ascensori non funzionano
c'è anche, su ogni piano, una sorta di salotto per guardare la tv e leggere e svagarsi. E' il komitato della ricreazione kollettiva del dopolavoro, a che il proletario si informi con il tg e legga il manifesto del partito in santa pace, e poi torni in fabbrica ben acculturato e riposato. Così produce di più. Da notare il curioso termosifone accanto alla tv.
Le scale sono soviet quanto la hall
ma tutto questo clima di serietà e cemento va a perdersi nel ristorante-disco-pub accanto, dove ceniamo sotto i colpi mortali della musica russa e uzbeka pop o neomelodica a tutto volume. Siamo gli unici clienti a mangiare, gli altri vanno e vengono intorno alla piscina illuminata strobo solo per bere.
Il menu è solo in russo (manco in uzbeko) e senza foto. Ordiniamo un po' a caso e concludiamo in bellezza con una macedonia da 20kg di frutta freschissima, dolcissima e buonissima. Il cameriere ha iniziato a proporcela come aperitivo, poi come accompagnamento alla birra di Raymond, come antipasto, come primo, come contorno... Alla fine, per accontentarlo e farlo tacere, l'abbiamo ordinata e s'è fatto bene.
Oggi per strada ho trovato questa bandierina uzbeka. Mi ripaga di quella italiana che si è staccata dalle borse l'anno scorso, in un giorno di vento atroce, ed ho perso in Russia. Ed è un ritrovamento simbolico: ho catturato le insegne. Questa è l'ultima notte uzbeka: domani si passa in Khirghizistan, e si fa tappa ad Osh.
Concludo con una nota, a mio avviso importante, sulla città di Andijon, perchè non si distacca dai molti discorsi letti e sentiti sugli attacchi terroristici, rivendicati dall'Isis, avvenuti ai danni di cicloturisti proprio da queste parti, in Tajikistan, sulla Pamir Highway. Fatti tragici ma da capire.
SUL MASSACRO DI ANDIJON
Nel 1990 l'intera regione di Andijan entrò in una situazione di grave instabilità. L'arretratezza economica, nonostante la presenza di abbondanti risorse naturali, e l'ascesa del fondamentalismo islamico si tradussero, nell'aprile di quell'anno, in una serie di episodi di violenza contro le minoranze ebraiche e armene. La situazione economica peggiorò notevolmente a seguito della dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991 aggravata dalla scarsa cooperazione commerciale fra le ex repubbliche sovietiche confinanti.
Ad accrescere la già grave situazione, l'integralismo islamico divenne una presenza stabile in città: nel 2003, Azizbek Karimov, un cittadino di Andijan venne arrestato e condannato a morte l'anno seguente come terrorista dell'IMU (Movimento islamico dell'Uzbekistan, non la tassa). Inoltre, dal 1996, opererebbe soprattutto nella valle del Fergana l'Akramiya, un altro movimento terroristico uzbeko di matrice islamica, fondato da Akram Yuldashev, originario proprio di Andijan, ed attualmente in carcere.
Ma il panorama dei movimenti religiosi comprende anche la setta dell'Hizb al-Tahrir (Partito della Liberazione): un movimento non violento panislamico, che come obbiettivo si propone la ricostituzione del califfato ovvero dell'unità politica (al di là delle differenze religiose) dei paesi islamici sotto l'autorità di un califfo.
La destabilizzazione della regione concorse ad accrescere e giustificare una situazione di repressione e controllo del governo sulla popolazione che culminò, il 13 maggio 2005, nel cosiddetto massacro di Andijan, in cui un numero non precisato di persone (tra 140-180 e 1000 a seconda delle fonti) vennero uccise dall'esercito durante una insurrezione cittadina che il presidente uzbeko Islom Karimov affermò, il giorno seguente in una conferenza stampa, essere stata fomentata dai fondamentalisti islamici e che «nessun civile era stato ucciso».
Il procuratore generale Rashid Kadyrov, il 17 maggio, stilando un bilancio dei fatti di Andijan dichiarò che i morti erano stati 169, fra cui 32 soldati e alcuni civili uccisi dai terroristi islamici che li avevano presi in ostaggio; una versione dei fatti contestata da diverse organizzazioni umanitarie come Human Rights Watch che accusarono il governo uzbeko di compiere sistematiche violazioni dei diritti umani usando come pretesto la lotta al terrorismo islamico.
La brutalità della repressione comportò una diffusa condanna dell'operato del governo uzbeko da parte della comunità internazionale; la chiusura del confine tra Uzbekistan e Kirghizistan (in cui, nei giorni immediatamente successivi, era stato allestito dall'UNHCR e dal governo kirghizo un campo profughi per accogliere centinaia di fuggitivi da Andijan); l'adozione di un pacchetto di sanzioni commerciali e l'embargo militare da parte dell'Unione europea nel novembre del 2005 (e rinnovato un anno dopo) per l'«uso eccessivo, sproporzionato e indiscriminato della forza» e il rifiuto ad accettare un'indagine indipendente sullo svolgimento dei fatti.
DUE PASSI INDIETRO NEL TEMPO
LUNGO LA VIA DELLA SETA
La valle di Fergana, in epoca classica, era parte della Sogdiana. Alessandro Magno vi fondò, nel 329 a.C., la città di Alessandria Eschate, dipendente nel II secolo a.C. dal regno ellenistico della Battriana.
La città di Andijan costituiva, fin dall'Alto Medioevo, un'importante tappa lungo la via della seta. Distrutta da Gengis Khan, fu ricostruita dal pronipote Kaidu nel XIII secolo e, nei secoli successivi, divenne la capitale di varie entità politiche della regione della valle del Fergana: dai Turchi Karlūk e dai Qarakhanidi (dipendenti dai Selgiuchidi) fino al regno di Bābur.
Il principe timuride Zāhir ud-Dīn Mohammad, meglio conosciuto come Bābur, nacque ad Andijan nel 1483 e fu il fondatore della dinastia imperiale Moghul che resse, per tre secoli, un vasto impero islamico che si estendeva dall'Afghanistan all'India.
Dopo la caduta dell'impero Moghul, la città venne incorporata nel khanato di Kokand (Khūqand) agli inizi del XIX secolo seguendone le sorti.
SOTTO IL DOMINIO RUSSO
Nel 1868 il khanato di Kokand, indebolito nei decenni precedenti da guerre civili, dallo scontro con il khanato di Bukhara e dall'espansione militare russa nella Transoxiana, firmò un trattato commerciale che lo trasformò, di fatto, in uno stato vassallo dell'impero russo. Ma, infine, fu proprio un'insurrezione scoppiata ad Andijan che fornì nel 1875 alla Russia il pretesto per l'invasione e la definitiva annessione del khanato nella provincia del Fergana. Seguirono diverse rivolte nella regione di Andijan - l'ultima delle quali nel 1898, guidata dall'ishān Dukči - ma vennero tutte represse nel sangue.
Nel 1902 la città venne colpita da un terremoto che distrusse buona parte degli edifici storici e provocò la morte di 4000 persone.
Sotto l'Unione Sovietica, la valle del Fergana, che fino ad allora aveva mantenuto una sua unità territoriale e culturale, venne suddivisa fra tre Stati: la RSS Uzbeka (di cui entrò a far parte la stessa città di Andijan), la RSS Kirghiza e la RSS Tagika.
IN CIMA
RispondiEliminaC’è una strada stretta stretta
che conduce fin lassù,
è da fare in bicicletta?
O Madonna d’un Gesù!
È un sentiero sgarrupato
che più scrauso non ce n’è,
non c’è niente di asfaltato
me vegn vòia de turná indrè.
Ma il motore della volpe
è di prima qualità
e vedrai che piano piano
sulla cima arriverà!
“Io son quasi liquefatto,
non ce la facevo più…”
dice il Raymond soddisfatto
“Ma che bello star quassù!”