Qual è la tua strada amico?... La strada del santo, la strada del
pazzo, la strada dell'arcobaleno, la strada dell'imbecille, qualsiasi strada. È
una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi.
(Kerouac, On the road)
Ed è proprio questa strada che mi conduce ora negli Stati Uniti d’America.
Che
sono grandi e terribili, come diceva Gramsci del mondo.
C'è, tra le molte, una novità importante. Ma ve ne parlo dopo, alla fine. Curiosoni!
E’ un’ardua impresa anche solo
afferrare qualche immagine precisa di questo immenso calderone di volti,
luoghi, storie e cultura, pop o meno che sia, dicerie e falsi topoi.
Mi danzano davanti agli occhi
paesaggi da Willy Coyote, skyline folli di luci e grattacieli, le tepee dei
nativi piumati massacrati, i cowboy dei film western, più o meno spaghetti. Ma
anche l’umanità incomprensibile che ribolle e ferve e inventa e sta sempre un
passo avanti, gli homeless e i multimilionari, i messicani di frontiera e le
bandiere enormi che sventolano in ogni giardino, stelle e strisce, bye bye miss american pie, i fast food e
il sovrappeso, le donne bellissime disinibite seminude e i mormoni, le chiese
di ogni genere, dio che ha preso nomi e forme ci suonano quasi eretici, i neri,
la schiavitù, il melting pot, il razzismo, la libertà estrema ma solo se hai i
soldi, la cultura feroce puritana che ti lascia morire per strada, gli eccessi,
il poter essere chiunque, ovunque, dai ghiacci d’Alaska alle corone di fiori della
Hawaii, tra una foca grassa, un grizzly, una sequoia, un gay pride mastodontico
e un roadrunner, un cappuccio del KKK e una schiera infinita di avvocati perché
la legge e la democrazia sono divinità quasi al pari del dollaro. E come molte
divinità… Non esistono, ma bisogna crederci, altrimenti è anarchia, e gli
anarchici da quelle parti finiscono male.
Insomma, c’è confusione sotto al
cielo, nel mio immaginario.
E’ proprio per questo che è
venuto il momento di andare a vedere con i miei occhi, come Erodoto già
consigliava a chi volesse occuparsi di storia e popoli altri.
Dopo aver attraversato in lungo e
in largo il nostro caro vecchio continente, ad inseguire il logos occidentale, a scavare la nostra
radice prima, tra capitali d’impero e barbari linfa nuova di sangue fertile
(Roma, Atene, Mosca). Dopo tanta Russia, e tanta Asia centrale, è venuto il
momento di scoprire l’altra metà del mondo. Badate, mi provocano solo un grande
sbadiglio i discorsi di chi sostiene a gran voce “Magnifica la Russia e viva lo
stalinismo, abbasso gli USA imperialisti guerrafondai e il turbocapitalismo” o
chi, per contro, sbraita “Viva la grande America, patria di ogni possibilità,
ricca e forte e giusta e buona e bella, abbasso la Russia e quel mondo là, che
è un mischione di comunismo e burqa, bleah”. Insomma, dai, si può fare meglio,
al di là delle proprie idee politiche.
Senza dubbio noi conosciamo, o
meglio, crediamo di conoscere gli Stati Uniti, la loro storia e la loro cultura
infinitamente meglio di quanto si conosca qualunque altra nazione, a volte
persino la nostra. Un ragazzino a scuola, in un tema, mi ha scritto di aver
chiamato il 911 per sventare una rapina, a Sedriano. Un disagiatissimo trapper
italiano, qualche tempo fa, disse in un video di essere uscito dal carcere
perché suo cuggggino aveva pagato la cauzione. A Roma. E a troppi non era parso
strano.
Siamo permeati dalla cultura che
arriva da Oltreoceano. E’ così da più di cent’anni. Sanno ben farsi pubblicità,
per così dire. Producono arte, cultura, modelli e stili di vita da esportare,
con le buone o con le bombe. Han salvato il culo all’Europa in fiamme in due
guerre, salvo poi presentare il conto, e hanno accolto tanti, tantissimi
italiani, ieri e oggi, andati là per cercare fortuna. Hanno esportato di tutto,
dalle armi alla Coca Cola, dalle serie tv alla musica, dalla letteratura alla
“democrazia”, quella intrisa di sangue, tecnologia avanzatissima, cultura e
controcultura, e contro-controcultura. Vi lascio qui un breve estratto di un
estratto del convegno “La cultura italiana e il secolo americano”
dell’Università di Lecce:
“In che modo il modello americano è stato recepito e come ha
influenzato la mentalità italiana nel corso del XX secolo? V’era la
consapevolezza, nei primi anni del secolo, delle straordinarie potenzialità del
sistema economico americano e della possibile influenza del suo modello
sociale? A differenza di quanto scrivevano, con grande lungimiranza, due
intellettuali inglesi dei primi del Novecento (William Th. Stead e Herbert G.
Wells), l’americanizzazione del mondo non sfiorava neppure la cultura italiana
prima della Grande Guerra. Durante gli anni del fascismo, poi, l’americanismo
fu considerato come l’antitesi del sistemi dei valori dominante. Vi sono, quindi,
due momenti nella storia dell’influenza americana in Italia: una cesura fin
troppo nota nella storia complessiva del Novecento. Fino alla seconda guerra
mondiale, la conoscenza dell’America e la ricezione del suo modello sociale fu
assai frammentaria, lacunosa e spesso rifiutata. Prima dalle élites politiche
del periodo giolittiano, poi dalla cultura fascista, che vedeva
nell’americanismo e nel bolscevismo due facce della stessa medaglia. In un caso
e nell’altro, tuttavia, è indiscutibile che il mito dell’America fosse
prepotentemente presente, minacciosamente democratico, potenzialmente
destabilizzante gli assetti di una società profondamente diseguale. Ma sono gli
anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, come è noto, a sancire
il trionfo dell’americanismo. […] Il fenomeno, nella seconda metà del secolo,
ha acquisito dimensioni molto grandi e profili assai diversificati”
Ma davvero conosciamo gli USA e
chi ci abita “solo” perché hanno scritto la storia recente (anche la nostra) e
sono riusciti a dipingere ai nostri occhi come “cattivi” coloro che non
accettavano l’ideologia a stelle e strisce (vedi Iran, dove ho pedalato l’anno
scorso)?
Davvero siamo occidentali allo
stesso modo, noi che, rispetto a loro, abbiamo una sensibilità allo spazio e al
tempo opposta? Mi spiego: per noi è lontano nello spazio un luogo che per uno
statunitense è vicino, perché il nostro continente è angusto, il loro
sconfinato di orizzonti. Ma per noi non è lontana nello spazio una cosa
accaduta 100 anni fa, o un edificio o un’opera; anzi, son già moderne,
dell’altroieri. Per uno statunitense, invece, la storia è contratta, e quindi è
antico quel che per noi è solo passato recente. Perché ovviamente la storia
comincia dai bianchi, prima “non c’era nessuno”… Conosciamo davvero questa
cultura di patriottismo e cambi automatici, dove non si festeggia il 1 maggio
ma si celebrano i saldi del Black Friday? Siamo davvero così vicini a un paese
che garantisce sanità e istruzione solo a chi ha sufficiente denaro per permetterseli,
perché la vita umana ha un prezzo ben preciso, e finire per strada tra gli
homeless è questione di un attimo, in una società ferocemente capitalista dove
chi non lavora, o non guadagna abbastanza, si merita l’inferno qui e di là,
come vuole l’etica protestante? Ma ancora, in positivo, dopo anni e anni di
discriminazioni, tutti i cittadini godono (almeno in teoria), degli stessi
diritti? Siamo sicuri di conoscere questa terra di natura sconfinata e intatta,
che però non esita a calpestare qualunque tentativo di inquinare meno, per
produrre di più? Dove si può dire di tutto e di più, ma non si può offendere
nessuno, e si teme che la parola ferisca più di un proiettile?
Insomma, sono tante le domande,
poche le certezze, se non quelle relative alla meraviglia dei luoghi e alla
voglia di scoprirli, ed infinita la curiosità. Per questo è tempo di partire.
Per vedere il meglio e il peggio, come sempre, e respirare un cielo nuovo,
immenso, che si stende sulle strade del viaggio per eccellenza.
L’itinerario è un tentativo di
vedere il più possibile nel tempo che ci è concesso, benché gli spazi
sconfinati e la miriade di luoghi e attrazioni interessanti obblighino a una
scelta.
Innanzitutto, quanto tempo? Dal
28 giugno al 7 settembre.
Quanti kilometri? Poco meno di
6000, stimati. Al solito.
Hai fatto il visto? Sì, in
ambasciata. Non ho potuto godere del facilissimo ed economicissimo Esta perché
lo scorso anno sono stata in Iran, paese canaglia per loro, e dunque ero troppo
sospetta e necessitavo di un controllo ulteriore.
Hai fatto l’assicurazione? Sì,
con una compagnia inglese, dopo estenuanti e tremende ricerche tra parole
spaventose del lessico giuridico. Siccome la compagnia ha sede ha Londra e gli
operatori parlano con accento molto molto britsh, sarà bello nel panico
comunicare loro che sono stata azzannata da un “coyotiiiiiii” o sono stata mozzicata da una “taràntula” (detto con spiccato accento british).
E ‘ndo si va?
L’idea è quella di partire da San
Francisco, città assurda dalle mille contraddizioni, ma colorata, bellissima,
iconica, tra un carcere e un ponte. Da lì, dopo una visita di qualche giorno,
inforcheremo le bici per scendere lungo la costa della California fino a Los
Angeles, il grande parco divertimenti sul Pacifico. A quel punto lasceremo la
costa per seguire la mitica “Route 66” in Arizona; ma, poco prima di Flagstaff,
lasceremo la famosa strada per visitare prima il Grand Canyon poi la Monument
Valley e le riserve degli indiani Navajo e Hopi, al confine con lo Utah.
Che ccce sta il deserto lì?
Sì, con i coyote, gli avvoltoi, i
crotali, i ragnacci pelosi enormi e quant’altro. Ma dopo l’Iran con i suoi 52
gradi e il nulla per 400km non mi spaventa affatto questa sgambata.
Poi si arriverà a Durango e alle
Montagne rocciose del Colorado meridionale. Qui ci attende una serie seria di
salite abbastanza impegnative, fino al passo più alto, il Wolf creek, che
supera di poco i 3300 metri.
Da lì inizierà la parte
psicologicamente impegnativa: le infinite pianure polverose del Kansas, tutte
un po’ uguali, tutte un po’ Mago di Oz, tutte a campi coltivati e fattorie e
poderi da sorvolare in elicottero, un elicottero a pedali, che non vola, e va
piano, e non passa più. Una sorta di pedalata tra San Pietro all’Olmo e Cusago
estesa per più di 2000km, dove tutto è più grande ma ugualmente monotono.
Fortunatamente, una volta in Missouri, seguiremo il fiume omonimo lungo una
bella ciclabile di 400km che ne costeggia le sponde, il Katy trail, vecchia
linea ferroviaria riconvertita. Illinois, Indiana e Ohio saranno il “rapido
transito” per poi imboccare la Great Allegheny passage, altra lunghissima
ciclabile che conduce da Pittsburgh alla capitale, Washington D.C, sopra gli
smussati Appalachi. Da lì sarà poi questione di pochi giorni risalire lungo la
costa atlantica a Filadelfia e poi New York, meta finale del viaggio.
Ho cambiato anche la bici.
Eh già. La Signora era ormai
troppo provata dalla vita di fatiche cui l’ho sottoposta.
Quindi è nata lei.
E’ frutto di un lunghissimo parto
e di decine di prove ed esperimenti, tutti permessi dalla pazienza non comune
dei Boglia, Massimo e Mario (e consorte), che mi vogliono bene e sono bravi
davvero. Li ho conosciuti ormai diversi anni fa, quando, un giorno, mi sono
schiantata di testa contro un autobus parcheggiato a bordo strada, proprio
davanti al loro negozio. Bici in frantumi, volpe contusa e senza memoria a
breve termine a terra. Massimo mi ha raccattata e portata in casa, e da lì è
nato tutto.
Abbiamo costruito pezzo a pezzo
la bici senza che loro mi mandassero mai a da’
via l’organ, ed è la bici da viaggio perfetta (per quel che so e ho
imparato): telaio Ridley X bow in alluminio, leggera ma resistente, senza più
forcella ammortizzata (mai usata nei viaggi). Il manubrio è stato cambiato con
uno da Mtb a barra dritta perché con quello da corsa, il drop, non mi son
trovata affatto, benché esteticamente fosse una figata. Ho anche aggiunto degli
inestetici corni e manopole Ergon, che per chi ha i gomiti bionici come me sono
una goduria. Freni a disco, sì, ma meccanici e non idraulici, visti gli
scherzetti che mi han fatto l’anno scorso. Sistema di cambio Shimano impastato
e reimpastato come una polpetta, fino a trovare, corona per corona, il giusto
assetto di rapporti. Portapacchi posteriore Tubus direttamente avvitato al
telaio e anteriore Tubus low rider alla forcella; per fissare questo, visto che
la bici non è predisposta con fori sulla forca, ho penato per settimane, speso
36 euro per due adattatori/agganci poi rivelatisi inutili e poi risolto
chiedendo a papà, che da zero ha costruito in alluminio i supporti giusti.
Grazie papà!
La bici non è certo più leggera
della Signora, ma è solida, inaffondabile, stabilissima e manovrabile. E’
comoda insomma. Dalla sella, sembra di stare sulla prua di un transatlantico,
di una corazzata o di una rompighiacci. Ha un assetto per il quale puoi starci
sopra 12 ore senza accorgerti e par di stare in poltrona.
Non ha ancora un nome definitivo,
ma riceverà il suo battesimo in questo viaggio.
Ah, è color volpe, arancionero.
Ci sono novità rispetto
all’equipaggiamento?
Oltre alle nuove borse sia
posteriori sia anteriori, sempre Ortlieb classiche ( color rossovolpe),
qualcosina di nuovo c’è. Per lo più sono accorgimenti mutuati dall’esperienza
comune con Raymond Puill, cicloviaggiatore da cinquant’anni con il quale ho
pedalato un pezzo di Siberia e tutta la prima parte della Via della Seta.
Essere compagni di viaggio è stato difficile perché siamo due capoccioni dalla
testa dura e abituati a viaggiare soli entrambi, abbiamo ritmi ed esigenze
diverse, nonché un’idea diversa di viaggio. Ma mi ha insegnato molto (per chi
lo ha seguito: ora è in Tajikistan, sta facendo il Pamir, poi entrerà in Cina e
andrà fino a Xian).
Sicchè ho cambiato tenda e
materassino, mi sono munita di fornello mini leggerissimo e di più borracce (e
più capienti), nonché di uno sfizietto: i pannelli solari da bici, perfetti per
tenere in carica, mentre si pedala, smartphone, luci, powerbank e pc.
Sicura di aver detto tutto? Mh…
Forse no!
La vera grande bella novità di
quest’anno si chiama Gigi, detto Furpe (che è un animale tra il furetto e la
volpe, ma è complicato da spiegare), al secolo Pierluigi Mondani. Abita a
Vittuone, a 5km da dove vivo io, ed è un collega insegnante di educazione
fisica (e per anni allenatore di basket). Pedala un bel po’. E’ con lui che,
l’anno scorso, ho fatto il mio record personale di km in una tirata sola, 213
in specifico. Dall’inizio dell’anno abbiamo già percorso 7000km e fischia, per
cui la gamba c’è. E anche l’affiatamento, ormai consolidato in un anno e mezzo
di allenamenti insieme e piccoli viaggi in zona. La cosa principale è che possiamo essere scemi insieme, ma di quella scemenza intelligente che è l'unico modo per attraversare il mondo.
Lui non ha mai fatto viaggi
lunghi in sella ed è una sorta di battesimo del fuoco. Anche per questo la
scelta della meta è ricaduta sugli USA, che, per quanto non siano una
passeggiata, offrono sicuramente alcune sicurezze e non provocano uno shock
culturale eccessivo. Poi oh, lui è uno che all’età sua leggeva i poeti della
Beat generation, era un capellone di quelli nati con il mito dei cowboy,
cresciuti con la musica che veniva da Oltreoceano e la carica di ribellione di
quegli anni là. Ha il ricordo vivido dei colori psichedelici di Easy rider e di
quando l’India sembrava offrire valide soluzione tra Krishna e Buddha. Insomma
lui, se pensa al viaggio, pensa a queste strade d’America. In più ha appena
compiuto 66 anni, quindi mi sembra giusti pedali sulla Route 66.
Dunque, oggi, giorno in cui
scrivo e pubblico il primo post di questo nuovo viaggio, è il giorno di panico
e delirio che precede la partenza. Dobbiamo smontare e imballare le bici, chiudere
gli scatoloni e non scordare nulla di importante. E’ il giorno in cui, come
sempre, mi assale quel brivido: so
davvero cosa sto facendo?
No.
Ed è giusto così. Mi è chiaro che
ciò che metto ora nella scatola della bici è ciò su cui potrò fare affidamento
da qui a settembre, e ciò che resta a casa resta a casa, e bisogna scegliere
bene e stare attenti. E’ una vertigine, un salto nel vuoto. Come quando da
bambini abbiamo deciso di arrampicarci su quello scoglio alto, troppo alto, e
ci han detto di tuffarci, e abbiamo chiuso gli occhi, trattenuto il fiato,
deglutito la paura… E la vertigine è diventata un volo.
Oggi è anche il momento dei
ringraziamenti (oltre ai Boglia, Gaetano Veronelli della Farmacia Caiezza di
Bareggio) e dei saluti. Ai miei genitori, che ormai sono rassegnati ad avere
una figlia così, ma anche orgogliosi, sotto sotto (almeno credo. Mammaaaaaaa?).
Ai miei mici, Platone e Briscola, che andranno al mare in villeggiatura con i
miei. E agli amici, che tanto ci si ribecca a settembre e ci saranno tante
storie da raccontare e sarà bellissimo ritrovarsi.
Ah, in autunno, se tutto va bene,
dovrebbe uscire il nuovo libro relativo al viaggio dello scorso anno in Iran e
Asia centrale. State sul pezzo che vi darò informazioni man mano!
Per il momento è tutto, mi farò
viva da San Fran (dove per altro, questo weekend c’è il mega gay pride. Wow!).
Buona strada a tutti e a presto!
What's your road, man? — holyboy road, madman road, rainbow road, guppy road, any road. It's an anywhere road for anybody anyhow.
Ciao. Ma sei in partenza ancora, allora? Come ti invidio. Di più.....per come mi sento. Fammi sapere. Peppe sottile
RispondiEliminaO già sei andata?
RispondiEliminaSarà un viaggio bellissimo. Buona fortuna
RispondiEliminaBuona partenza, allora! Bella la bici nuova, assomiglia un po' alla mia. Posso sapere che corone/pignoni hai montato?
RispondiEliminaUno delle due capoccioni dalla testa dura : mi ha anche insegnato molto, Rita
RispondiEliminaEd è stata una grande avventura. Gratzie tante e buon viaggio con Gigi
Complimenti Rita, sono un tuo ammiratore, amante di passeggiate in bici, seguo sempre con curiosità ed ammirazione i tuoi stupendi itinerari ben descritti e ampiamente documentati. Ho partecipato alle tue riunioni fin dal viaggio che avevi fatto da Cornaredo a Mosca. Buona fortuna e continua a farci sognare!
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