17/8/21
Fáskrúðsfjörður-Djùpivogur
111km
Oggi abbiamo pedalato lungo i fiordi orientali, senza vedere i fiordi orientali.
Se questo può sembrare un paradosso, ebbene, in Islanda ne avviene un altro ben più grave e innaturale. Le nuvole non stanno in cielo, ma basse, a terra, adagiate comodamente sulla strada e sui prati e sui fianchi dei monti. Sembra quasi esalino dal terreno come spettri evocati con sacrificio di sangue, ma non ci sono Tiresia o la Sibilla a guidarci.
Stamattina, prima di ripartire, un temprato tedesco in camper ci abborda per chiederci informazioni sul nostro viaggio; è attratto dall'avventura e dalle imprese. E' contento di sapere che abbiamo attraversato le highlands e ci dice che anche lui lo ha fatto (ma con quattro ruote motrici) e ha incrociato una tempesta di sabbia con vento così forte che gli impediva di aprire le portiere. Se non altro a noi questa sorte è stata evitata.
Partiamo e già piove, o piovicchia. C'è umidità in goccioline che impregna l'aria e bagna tutto. Siamo nelle nuvole, e non nel senso piacevole, e nemmeno della distrazione. Appena si esce dalla tenda ci si inzuppa e il tempo di partire è lo stesso che impieghiamo infradiciare noi stessi, i vestiti e tutte le nostre cose. Questo è il nostro fiordo, appena prima di partire.
E questa è la sua opposta sponda, quella che non si vedeva dal campeggio, qualche km e già la cittadina da cui siamo partiti è stata mangiata dalle coltri grigie di nebbia gelida.
Questo è il mare
e queste le montagne che orlano la costa.
Non si vedono, ma ci sono. E ce ne accorgiamo ben presto perchè la strada, pur correndo in bordo alla linea di costa, sale e scende e risale in rampe bastarde che tagliano le gambe. Oltretutto, non vedendo a un palmo dal naso, le salite vanno intuite, cosa che impedisce di dosare la forza di pedalata e usare il giusto rapporto del cambio.
Paesi non ce ne sono. Solo qualche casa isolata. E molte sono abbandonate. In effetti, per quanto l'urbanizzazione sia giunta tardi qui, continuare a vivere in queste lande lontane da tutto è una scelta coraggiosa e folle, una forma di resistenza. Qualche pastore e qualche pescatore osa. I più cedono al fascino degli agi urbani.
Si procede lenti, a tratti piove con maggiore intensità. Il vento, debole ma non assente, gela l'umidità addosso e fa freddo veramente, ma veramente parecchio. Un colpo d'aria allo stomaco mi blocca la già rallentata digestione e pedalo con crampi da togliere il fiato per oltre 10km. Su e giù, nella nebbia.
Da un lato si intuisce il mare, dall'altro monti che fanno da muro all'orizzonte, roccia nera che si sgretola a gradoni regolari e lascia cadere a valle una scia di sabbia scura come lacrime. Questa è la ruina temporis. Nel verde dei prati ispidi belano pecore, bianche e nere. Ne vedo una con un corno solo e mi piace pensare sia un buon segno.
Sulle punte delle dita dei fiordi la terra spiana e scende al mare digradando in una costa che sarebbe dolce, se il sole le restituisse i colori.
Ma così non è, e delle montagne si intravedono solo le larghe radici, su cui tremano i ciuffi di cotone selvatico, madidi, a capo chino.
Passiamo accanto a un geyser che però non sbuffa, e si sente solo il rumore dei ciottoli tondi che le onde accarezzano.
Attraversiamo Stodvarfjordur, cittadina minuscola con museo di... Sassi. Ovviamente. Pietre, minerali e rocce raccolte in bella mostra per la gioia degli appassionati (non io).
Tiriamo dritti, fa troppo freddo per fermarsi anche solo a riprendere fiato. Ora non piove, ora sì. Ora la strada sale, ora scende. Ora il vento è contrario, ora ci aiuta. Sempre la terra e il cielo e il mare sono in ammollo in un freddo, lattiginoso, onnipresente vapore biancastro che tutto avvolge e cela.
Passiamo da alcune spiagge segnalate per la loro potente bellezza, di falesie a picco sull'oceano. Dei roccioni verticali si intuisce l'altezza solo osservando il volo delle migliaia di uccelli marini che vi fanno nido.
Si giunge finalmente a Breiddalsvik, cittadina a quasi metà strada dove facciamo tappa. Siamo surgelati e bagnati fino al midollo, abbiamo bisogno di scaldarci un poco. Le mani sono così fredde e compressi i nervi che non riesco quasi più a fare nulla: non a usare le leve del cambio, non a togliere i guanti. Approfittiamo del "general store", che è ristorante, bar e market per bere una cioccolata calda, un caffè caldo, e mangiare qualcosa. Facciamo anche la spesa per la cena e la colazione: fino all'arrivo, ovvero altri 60km, non c'è più nulla, e il supermercatino della meta chiude alle 18, troppo presto per essere certi di arrivare in tempo.
Poi si riparte, per affrontare l'ultimo lunghissimo fiordo, il Berufjordur
A parte una fattoria e qualche casina spersa e sparsa, ci sono solo sassi e nebbia, monti fradici e l'acqua placida del mare che si intreccia alla costa come mani che si giungono.
Intorno, i monti si mostrano un poco sopra alle nuvole, dando l'impressione di pedalare in un quadro romantico di pieno Ottocento.
"Scolliniamo" l'ultima baia e ci prepariamo ad affrontare l'ultima risalita di oggi. Per via incrociamo un ciclista, italiano. Ci chiede se abbiamo visto il suo amico con il cappello di paglia. No. Scopriremo poi la sera che sono due bresciani simpaticissimi, fatti giù di grosso, che viaggiano insieme per il mondo ma con amore particolare per il Brasile e il Nepal. Ci raccontiamo, poi nel salottino comune del campeggio, storie di viaggi, ed è un attimo di grazia.
Con una tirata pazzesca, tra rampe in salita e vento in faccia, riusciamo ad arrivare alla meta di oggi, Djupivogur, alle 17.55, giusto in tempo per scaraventarci nel supermercato ad acquistare quegli sfizi che una spesa a metà giornata impedisce, per peso e volume. Ci raggiunge anche il bresciano, Stefano, che compra due brioches ben grandi una lattina di birra e consuma tutto lì dov'è, nella pioggerella, davanti alla porta del market. ma è solo l'aperitivo, cui seguiranno secondo aperitivo con birra e cena a base di tortellini (intanto è arrivato anche il suo amico con il cappello di paglia, che ha davvero un cappello di paglia).
Djupivogur è un paesino di 450 anime che sorge proprio in cima al fiordo, sulla punta più estrema, di fronte all'isola di Papey, scoperta dai monaci irlandesi e colonizzata dai vichinghi.
Anche questa cittadina è nata dall'agglomerarsi di comunità rurali, nel 1992, ma ha uno dei più antichi edifici ad uso commerciale dell'isola, un negozio che risale al 1790. Il paese è anche stato dimora di uno dei primi neri d'Islanda, uno schiavo scappato dal suo padrone, un mercante danese. Per l'appunto, nell'Ottocento qui si trovava un minuscolo porto sfruttato da mercanti danesi.
Troviamo posto nel MERAVIGLIOSO campeggio, che ha docce calde, salotto comune e cucina attrezzata tutti riscaldati e prese per la corrente, wifi e ogni sorta di comfort per sfuggire alla gelida sera dell'Austurland.
Mentre monto la tenda e sbaracco le borse, faccio amicizia con un cane grasso e bellissimo che vuole mimetizzarsi con le borse o far da guardia all'ingresso.
Poi la serata trascorre tranquilla, si cena al caldo e si chiacchiera con italiani e francesi, cicloturisti e non. Domani saranno ancora fiordi, e per 100km non ci sarà pressochè nulla d'umano. Puntiamo a Hofn, prima città sulla 1. Passeremo dalla riserva naturale della spiaggia di Hvalnes e da una natura grandiosa e intatta che forse, forse, riusciremo a godere sotto un timido sole. Intanto, qualche perla dalle pareti dell'ostello.
Djupivogur-Hofn
111km (precisi pettinati come ieri!)
E' il sedicesimo giorno di viaggio. Abbiamo percorso quasi 1400km, il dislivello non lo contiamo perchè so che in un giro che è un terzo del nostro sono oltre 11.000 metri. Ci sono ora, alle 21.50 locali, 8 gradi centigradi, e piove. Le coordinate esatte del nostro campeggio sono 64°15'29.6"N 15°12'10.6"W. Abbiamo pedalato altre 7 ore, nella giornata odierna, quasi senza soste, e dopo vi racconto come. E a questo punto del percorso posso affermare, molto gentilmente,
garbatamente,
urbanamente,
che ne ho pieni i coglioni di questo clima di merda.
E dai, va bene tutto, va bene la terra dei ghiacci, ma suvvia, un po' di ritegno. Ora vi spiego le mie ragioni, testimone Gigi.
La giornata è anche partita bene. Dopo una notte di vento che ha sepolto la tenda sotto un tappeto di muschio secco, come le case tradizionali qui, che hanno il tetto erboso, la mattinata si è aperta in un azzurro splendido e luminoso, terso, brillante, capace di riportare in vita i colori persi ieri tra grigio e grigio. Oh, ecco, finalmente i fiordi! Ecco la roccia a picco sul mare, ecco i monti che si tuffano tra le onde, in una festa di gabbiani e uccelli in volo!
Persino la ridente Djupivogur si è mostrata con un volto nuovo, il porto e le casette. Faceva anche un piacevole tiepidino, al punto da farci partire solo con l'invernale, senza i parafernalia antipioggia e antivento.
Così, dopo una spesina di emergenza perchè i prossimi servizi sono a oltre 100km, a Hofn, dove faremo tappa, e qui non si sa mai quali sorprese riservi la strada e quali buffi modi trovi per scompaginare i piani, partiamo, lasciandoci il consorzio umano alle spalle.
Ci troviamo subito immersi in un paesaggio incantevole, che mi ricorda la Norvegia, ma meno aspra e più dolce. Sembra di pedalare in una illustrazione di libro di fiabe nordiche, e il contrasto tra la pietra cupa dei monti e lo specchio limpido di mare e cielo crea armonie spettacolari.
Oltretutto il vento è una brezza gestibile, che soffia a favore quando risaliamo dalla punta dei fiordi all'entroterra, mentre ci rallenta un poco quando muoviamo in direzione opposta, verso il mare. Un modo equo, salomonico direi, di accompagnare il nostro viaggio.
Come sempre qui la strada non corre in piano, ma alterna salite e discese abbastanza morbide e pedalabili, senza strappi, senza rosari da sgranare.
Così i primi 40km scivolano leggeri sotto alle ruote, e si riesce a parlare, si riesce a guardare il paesaggio intorno. Che è bello davvero, e su questo nulla si può dire.
Oltre al mare che si insinua nella costa e la sfrangia, attraggono la mia attenzione i fianchi delle montagne, che si sgretolano in gradoni regolari fino a creare strutture di roccia che paiono templi d'Estremo Oriente. Ma non sono rovine d'opera umana, bensì l'inesorabile sbriciolarsi del tutto che si fa sabbia, e questa sabbia riempie l'immensa clessidra del tempo che scorre. altro che mementòmo. E in quelle fratture e in quelle nicchie migliaia di uccelli vocianti fan nido, perchè in natura mai nulla è di troppo.
Poi, in un attimo, il cielo si fa scuro, e ci troviamo di nuovo immersi nelle nuvole fradicie e gelide di ieri. Così, nel giro di colpo di pedale, un battito di ciglia.
Siamo costretti a coprirci man mano, perchè l'umidità crea goccioline finissime che ci si appiccicano addosso, inzuppano tutto e diventano freddissime con il vento. Che intanto, malefico, bastardo, si alza.
Da qui in poi sarà un precipitare d'eventi. La nebbia fredda diventa pioggia, la brezza una furia d'Eolo che piega le goccioline e le butta negli occhi, in viso, gelando ora un lato ora l'altro. Mi ricorda un po' il dolce clima irlandese; un giorno sulle isole Aran sono rimasta semiparalizzata nella metà di corpo esposta al vento e all'acqua. Qui non ci si fa mancare nulla e si fa un lavoro completo.
Nei rari momenti di tregua immortalo il magnifico sfondo di questa via crucis meteorologica, che ancora, a quest'ora, si lascia guardare nella sua maestosa bellezza intatta.
Ogni tanto si intravede un tetto, e poi l'intera casa. Ma molte abitazioni sono ormai abbandonate, anche se, pare, da poco. Alcune hanno ancora le tende pulite alle finestre. Mi immagino dentro uno scheletro che penzola dal lampadario, appeso per il collo, spolpato trent'anni fa dai gabbiani.
In uno dei fiordi il cielo ci illude per qualche istante e sembra aprirsi in un sorriso azzurro. Forse questa grazia giunge dopo tutte le madonne cacciate per pedalare sulla ghiaia. Chè oggi ogni pochi kilometri incappiamo in cantieri di operai che rifanno le strade. E qui le strade si fanno buttando giù uno strato di catrame e poi tonnellate di sassolini, che un rullo poi compatta. Noi si passa nella fase post ghiaia pre rullo. Una spina nell'ano. se avessi voluto fare ancora sterrato, sarei rimasta nelle highlands, no?
I colori vivi nella luce si spengono di nuovo e definitivamente. Oltre all'acqua grigia, al cielo grigio e alla roccia grigio scuro, si distinguono il verde fradicio dei prati e la bianchissima danza di sufi del cotone selvatico al vento.
E pure centinaia di cigni e pecore che stanno acquattati gomito a gomito, zampa ad ala, sulle spiagge di nera sabbia lavica.
Di lontano si stagliano alcune incredibili strutture di basalto, simili a colonne, torrioni, e merlature rovine di castelli dei giganti.
Gigi che lotta contro il vento mentre cerca di infilarsi un k-way |
La strada si arrampica (sì, sempre con il ghiaino spesso) fino a un costone di roccia e sabbia che fa da muro verticale a questo tratto di costa, e poi rimane a mo' di balconata panoramica a mostrare lo strapiombo sulla spiaggia scura e l'acqua fredda. Immagino gli uomini che si mettevan per mare nei secoli passati, ai mercanti e ai cacciatori di balene, e al coraggio che dovevano avere per affidarsi alle onde.
Torniamo sul livello del mare, con un freddo fradicio addosso che non si può descrivere (siamo sempre all'aperto, a pedalare, a mangiare, a dormire, e ormai ci è penetrato nelle ossa, come si suol dire).
Qui un vallone dai monti che paiono maschere scolpite nella roccia ci accompagna alla spiaggia-riserva naturale di Hvalnes, striscia di minuscoli tondissimi sassolini neridistante dalla linea di costa.
Mentre cerco di pensare a quanto il vento mi stia raffreddando i vestiti bagnati addosso, l'occhio cade su qualcosa che sta in mezzo alla strada. E' un diario.
E' scritto in inglese, con grafie differenti e colori diversi. Ci sono anche dei disegni e dei simboli, ma niente nomi. Le prime memorie risalgono al 2018, un viaggio in continente africano. Ci sono molti riferimento a dio e le ultime pagine sono bianche. Che peccato aver lasciato così per via tanti ricordi... Penso al mio lavoro di scrittura dei diari di viaggio, al blog e ai libri... Chissà quando l'autore o l'autrice si accorgerà di aver perso il manoscritto, chissà se tornerà indietro a cercarlo o lascerà che la strada prenda in pegno qualcosa, in cambio di tutto ciò che regala.
Oltre alle creste dei monti, zigrinate e imprevedibili nel loro diroccare,
della riserva mi colpisce l'innumerevole quantità di cigni che qui abita. Sono veramente migliaia e fanno un chiasso di tubi intasati che si sente per centinaia di metri.
Proseguiamo e siamo ormai derelitti di fatica e freddo, ma non ci si può fermare perchè l'unico calore è quello prodotto muovendosi.
Superiamo un fiordo con un lungo ponte di legno a una corsia
A noi.
Appare così.
Ultimo tratto, ultima fatica. La strada si infila tra due monti e così fa il vento. Si sale, sotto la pioggia, controvento, intirizziti oltre ogni dire. Per fortuna un tunnel ci evita di scollinare fino in cima e ci sputa direttamente nell'ultima piana che conduce a Hofn.
Tirando le somme, stiamo bene e siamo in salute. Entrambi siamo acciaccati in un ginocchio, io il destro e Gigi il sinistro, a causa del lungo pedalare storti, con un piede sganciato, a causa del fondo sconnesso. Ma un anti-infiammatorio basterà per risolvere il problema. Siamo in largo anticipo sui tempi, che avevo lasciato larghi sapendo che ci sarebbero stati imprevisti e rallentamenti vari. Per questo, da domani, faremo tappe più brevi. Non più 100-120km ma 75-95. Abbiamo comunque 4 giorni e mezzo di margine rispetto al volo da Reykjavik. E per di più, causa mancanza di strutture, domani ci concediamo una tappa breve e con sosta in guesthouse, per conoscere l'ospitalità islandese e vedere da dentro una casa, nonchè testare un materasso (praticamente da due mesi dormo in tenda ogni giorno, ci sta). Sicchè ora, essendo stati puntualissimi, possiamo concederci di rallentare la corsa. Domani inizieremo a costeggiare (da un rispetto diverso!) il grandioso ghiacciaio Vatnajokull, esplorandone ora i lembi meridionali. Di questa cappa di ghiaccio che cela vulcani attivi vi dirò di più eplorandola, nei prossimi giorni.
Per ora posso dirvi di Hofn, la città in cui siamo. Il nome significa "porto" e già dice tutto, visto che l'attività principale, oltre al turismo (per il vicino ghiacciaio) è la pesca, seguita dalla lavorazione del pesce.
...io in passato regalavo le storielle he scrivevo al primo che mi stava simpatico.
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