martedì 16 agosto 2022

36-38. Inca jungle trail. L'accesso amazzonico a Machu Picchu, su una delle strade più pericolose al mondo










Sabato, 13/8
Luogo dell'imbosco - Santa Maria
56km

Oggi vi racconto una storia in discesa, che inizia sulle vette innevate delle Ande e finisce nella foresta nebulare dell'Amazzonia. Dura esattamente 55,5km e poco tempo, perchè, come dicevo, è tutta in discesa.

Questa n


otte abbiamo dormito sonni tranquilli. Ieri siamo scesi a 3300m, dopo il passo 1000m più in alto, e, nonostante la pioggia, le temperature sono state miti (che significa dormire completamente vestiti, con due maglie termiche, due pile, il piumino e il sacco a pelo, scaldacollo e berretto... Ma senza calzini!). Mi sono svegliata intorno alle 3 e ho voluto sbirciare fuori dalla tenda per capire se fossimo ancora immersi nella nebbia luminescente. Ebbene, no! Anzi, la luna splendeva alta nel cielo e si rifletteva sui ghiacci del nevado Veronica, che ammiccava dall'alto dei suoi cinquemila ottocento e novantatrè metri di altezza. Viene anche chiamato Padre Eterno, e mi piace pensare che sia la prova che dio è donna e si chiama, appunto, Veronica.



Alle 6 il sole aveva già inondato il cielo di luce azzurra purissima, con tonalità di una dolcezza da commuovere. Ciò che mi ha stupita, oltretutto, è stata la varietà immediata di paesaggi. Da un lato le vette andine, brulle, austere, di nuda roccia e ghiaccio;


dall'altro la cosa più simile alla giungla che io abbia mai sperimentato. Un fittissimo manto di vegetazione, un'esplosione di verde, di linfa, di resina, foglie e radici. Erba e arbusti alti più di me, un rifrullo d'ali in ogni ramo, e quella nebbiolina  tiepida che sa di Equatore più di ogni linea immaginaria.


Dal risveglio alla partenza sono passate due ore, perchè quando si dorme in tenda il flusso del tempo cambia passo, e rallenta. Si fa tutto con calma, come dovrebbe essere sempre. Si attende il sole, che asciughi, che scaldi. Ci si lascia in pace, in sostanza.



Pian piano la luce ha iniziato a lambire, come marea montante, i monti intorno, mostrando su quale altissimo crepaccio si trovasse la radura dove abbiamo piantato la tenda. Ieri c'era troppa nebbia per rendersi conto.





Ho celebrato l'ultima altura bevendo, questa mattina, per la prima volta, il caffè, dopo quasi un mese di mate e infusioni varie. In quota la caffeina va evitata, e poi avevamo sempre una discreta tachicardia galoppante a ricordarcelo. Ma oggi scendiamo sotto ai 3000m e non risaliremo più così in alto. Quindi, caffè (in polvere con latte condensato, il nettare degli dei). 


Poco per volta il sacro Inti ha levato la testa alle spalle delle cime, e tutto intorno si è imbevuto di luce. Uno spettacolo continuamente rinnovato. So che le foto possono sembrare monotone e ripetitive. Ma io non mi sono annoiata ad ammirare per due ore il medesimo paesaggio, godendone le sfumature sempre differenti, e vorrei dare la stessa impressione attraverso questi scatti.



Finalmente la marea di sole è giunta a lambire anche la nostra tenda, asciugandola un po'. E noi ci siamo scaldati ai primi raggi, condividendo la venerazione con i popoli antichi di queste terre.



Chiuse le borse e rimontati in sella "senza lasciar traccia" (del nostro passaggio), abbiamo imboccato la strada verso Quillabamba consapevoli che sarebbe stata tutta discesa. Ed è una consapevolezza eccezionale, considerando che le gambe, distrutte e sfibrate dalla salita di ieri, non avrebbero sopportato altro.



Pronti, via! Giù per i primi tornanti, davanti la vegetazione da foresta, alle spalle le vette.



Dopo pochi kilomentri abbiamo incrociato una baracchetta dove la proprietaria, Dina, voleva a tutti i costi farci bere un caldo de gallina, ma alle 8 di mattina è un po' too much anche per noi. Abbiamo semplicemente lasciato la nostra immondizia nel primo cestino, per ripartire rapidi nell'aria ancora frizzante.




Poco sotto ancora, lo spettacolo più grande. Il mirador Alfamayo da cui l'intera valle si è spalancata ai nostri occhi, verdissima, assoluta nella sua grandiosa bellezza, percorsa per intero dall'omonimo fiume.





un Gigi in prospettiva

e un ultimo saluto al Padre Eterno. Ciaone!


E via di nuovo, giù in picchiata verso quote più umane, verso cime coperte di alberi, verso la foresta.




Non senza un iniziale stupore abbiamo scoperto che tutti i tornanti a monte sono attraversati dalle acque del fiume, che crea cascate e torrentelli sulla carreggiata. L'acqua è bassa, e si può guadare restando in sella. Ma ci si bagna i piedi, quasi inevitabilmente. Islanda vibes fortissime.




Il primo tratto di discesa ci lascia in vista delle vette innevate, che, da qui sotto, sono forse ancora più spettacolari perchè danno la misura della loro grandezza.


Poi ci si immerge sempre più nel verde dei fianchi boscosi, tra fiumi e rami, e scendere è una giostra di pura vita. A tratti si intravede la strada, che si attorciglia come un serpentone sulle alture. Da questo lato, è un invito cortese e benaccetto, non un minaccia.






Raggiungiamo il centro poblado Alfamayo, il primo villaggio legalmente riconosciuto come tale che incrociamo da ieri mattina. Ci sono due case e tre bodeguite/ristorante, già frequentate da passanti che disossano e sorbiscono polli bolliti. Ci sono pure quattro perri amichevoli, tre dei quali zoppi. Noi facciamo una lunga pausa per: acquistare acqua, bere una cioccolata calda (da qui in poi sarà un must: siamo in zona di produzione del cacao) e approfittare della rinvenuta connessione telefonica e dati. Stupisce che in questo paesucolo sospeso a 3000m tra le Ande e l'Amazzonia sia così vitale e abbia una clinica per il test del dna, per il riconoscimento della paternità dei bimbi. La dice lunga su molte cose...





perro escondido

Dopo più di un'ora, nella quale ci beviamo tutto il sole e il calore possibile, facendo anche asciugare i vestiti ancora fradici da ieri, ripartiamo. Ora sì che le temperature, anche con l'aria fresca della discesa, sono piacevoli. I guadi si susseguono con il ritmo dei tornanti, il traffico è quasi inesistente e il fondo non è ammalorato come nei primi kilometri di discesa, percorsi ieri. Si va giù come olio.




Compaiono poi i primi alberi ad alto fusto, e tiepido cede il passo al caldo. Una sensazione di pelle che non avevamo il piacere di provare da gran tempo. Iniziamo a spogliarci, abbandonando i primi strati di vestiti, il guscio antivento.



Sotto ai 2500m si moltiplicano i paesini. Umasbamba, con le sue baracchette che vendono frutta e tè,


poi Humanmarca, con le rovine e il sito archeologico di epoca inca. Intorno, foglie larghe di banano e alberi che palpitano del rifrullo gracchiante di pappagalli verdissimi. E' incredibile come il paesaggio e flora e fauna siano mutati nel giro di una manciata di kilometri!









E ora fa caldo, caldo davvero! Via il berretto sottocasco, via la giacca, via i guanti. Sembra estate persino qui! La discesa ci porta in picchiata a perdere quota, compaiono fiori dai colori sgargianti, bouganville, campanule enormi, piante con le foglie enormi, più alte di me.




Attraversiamo Inkawasi, una cittadina con addirittura qualche struttura per turisti e un'azienda che produce e vende tè di diverse qualità. Ricompaiono gli insetti, molesti (zanzare, mosche e moscerini) e non, come le farfalle che a decine volano oblique nella verzura. Passano anche un paio di gruppi autotrasportati di ciclisti. Non solo salgono in furgone, ma anche parte della discesa viene percorsa a motore! Ma dai... Però ci incoraggiano, dal finestrino, e fanno il tifo per noi. Grazie!




Dai 1500m, quota a cui si trova il pueblo di Huayopata, è un susseguirsi ininterrotto di abitazioni e negozi e strutture, per quanto sparsi e distanti tra loro. E', questa, zona di produzione di frutta tropicale e tè. A bordo strada si vedono banani carichi di caschi maturi e piante di mandarino dai rami piegati per i troppo frutti, immensi, tondi, succosi. E da qui viene il tè Huyro, uno delle due marche principali che si trova in tutto il paese.





Al parador turistico il monumento è dedicato a un orso andino, o orso dagli occhiali, che cerca di arrampicarsi su un albero sorvegliato da un pappagallo rosso. Basta pannocchie e lama, insomma. L'orso andino è erbivoro e in via di estinzione, porello.

Oltre ai venditori di frutta a bordo strada, qui si susseguono fundos agricoli ed ecolodge, alberghi ecologici e agriturismi che offrono sistemazioni immerse nella natura, o almeno così dicono.




Ancora un passo, e ormai siamo immersi in una calura afosa che ci coglie impreparati e siamo a Santa Maria, lo snodo tra Machu Picchu e la foresta Amazzonica. E' luogo di transito, polveroso e grande come un guscio di noce. I pappagalli berciano a qualsiasi ora del giorno e della notte, e dalla piazza sale musica lamentosa, del pari, senza sosta. L'unico hotel degno di tale nome è al completo, sicchè optiamo per un hospedaje proprio di fronte alla strada che domani ci porterà a Santa Teresa, in risalita verso Machu Picchu. E' un posto veramente marcio, sporco e pericolante. Però costa poco, ha l'acqua molto calda, una stanza grande come un appartamento e un cortile e un terrazzo dove stendere. E' presto, il sole è rovente. Ne approfittiamo per fare un bucato generale, tenda compresa. Certo si deve fare attenzione, perchè scale, balconi e solaio sono architetture molto approssimative, solo abbozzate, completamente fuori norma, senza balaustre nè corrimano nè altro. Un piccolo inciampo e si finisce a terra tre piano sotto.



Il pomeriggio lo passiamo a sistemare bagagli e itinerario dei prossimi giorni. Viaggiamo con oltre 24 ore di anticipo sul giorno di visita al Machu Picchu (ma chi sapeva che saremmo stati così presti e lesti?).
Domani risaliremo fino a Santa Teresa, lungo una ripida sterrata che, per di più, viene chiusa a traffico alternato ogni ora e mezza. Sono 25km ma potrebbe volerci più di mezza giornata, anche perchè, dai racconti degli sloveni con cui siamo andati alla Vinicunca, il fondo e le pendenze e il traffico pesante che solleva polvere sono insoffribili.
Dopodomani, invece, percorreremo 9km in bici da Santa Teresa a Hidroelectrica II, punto di accesso amazzonico al sito archeologico più famoso del Sud America. Lì lasceremo bici e quasi tutti i bagagli in un parcheggio custodito, per proseguire piedi fino ad Aguas Calientes, il villaggio sotto alle rovine. Sono 10km di foresta nebulare che si possono affrontare solo in treno o a piedi. Noi andiamo per la seconda, non potendo pedalare.
Poi ci resta un giorno libero, il 16, ad Aguas Calientes, che servirà per visitare il museo e magari fare un salto alle piscine termali.
Il 17 è il gran giorno, il giorno di una delle sette meraviglie del mondo. Da lì, poi, sarà Amazzonia.

Il pomeriggio vola e quasi scordiamo di cercare un ristorante per cena. Qui a Santa Maria ce ne sono un decina, uno accanto all'altro. Sono TUTTI pollerie. e TUTTI fanno solo un piatto: pollo grigliato con riso e patatine, insalata e salsine. Siamo tornati nei luoghi dove l'angoscia dell'infinito campo di possibilità di scelta kierkegaardiano non è un problema.
E comunque sono molto bravi a cucinare e tutto è buono e basta. Tento la fortuna persino con insalata e salse, è una roulette russa e a me il brivido piace.


Ah, nelle quitne (locande) marce e nelle picanterie di paese si cena sempre almeno in tre: i locali, la cui porta è sempre spalancata (e qui ci sta, perchè fa caldo. In altura con -5 gradi la sera anche no) sono pieni di cani randagi che gironzolano tra i tavoli in cerca di cibo.


Ora siamo in camera vestiti con abiti leggeri ma lunghi, affumicati di Autan, e leggermente imperlati di sudore. Abbiamo vissuto uno sbalzo termico di circa 30 gradi in poche ore, il nostro corpo deve ancora abituarsi!

Domenica, 14/8
Santa Maria - Santa Teresa
25km (più che bastanti, per fondo e dislivello)

Sveglia presto e colazione in camera con fornello a fiamma viva, tanto qui nel lerciume più totale un po' di fuoco può solo giovare. Oggi è il gran giorno: si comincia la lenta, complessa risalita che ci porterà ad uno dei punti centrali del viaggio: Machi Picchu. Abbiamo deciso di affrontare la via più lunga, cioè l'Inca jungle trail, perchè si può pedalare per intero, al netto degli ultimi 10km che si devono fare per forza a piedi, lungo i binari.

Io non ho dormito molto. Il caldo umido e la presenza di insetti molesti mi han tenuta sveglia almeno quanto la musica altissima di un locale sulla strada; per trattenere gli ubriachi e convincerli a bere ancora, alcune bodeguite usano questo stratagemma della musica sparata a tutto volume, come un locale, ma sulla pubblica via.

Dopo qualche discussione con l'anziana proprietaria dell'ostello e del negozio sottostante (non voleva una moneta da un sol perchè un po' annerita... Continuava a dire che era "negra" e non buona... E noi s'aveva fretta di metterci in moto... Le ho risposto che il sol era negro, io blanca e molti ciaoni) siamo finalmente partiti.

Perchè s'aveva fretta? Perchè la via che conduce verso il sito archeologico più importante del continente è anche la più disgraziata, malmessa e derelitta strada del Perù. Innanzitutto è completamente sterrata, di sassi e polvere che diventa fango appiccicoso. In secondo luogo, è stretta e ripida e piena di tornanti a strapiombo sul canyon dell'Urubamba. Da ultimo, è funestata dai cantieri al punto che ogni ora di apertura corrisponde a una e mezza se non due di chiusura, per consentire alle ruspe e agli operai di lavorare su quel fondo così friabile e cedevole senza il continuo passaggio di mezzi. Anche perchè al Mahu Picchi salgono 6000 persone al giorno, non noccioline.




Il bivio per Santa Teresa, nostra meta di oggi, a metà strada rispetto ad Aguas Calientes (cittadina sotto alle rovine) si trova proprio di fronte all'hospedaje dove abbiamo alloggiato. In un attimo lasciamo l'asfalto e siamo nel pieno dell'avventura. Il fiume qui è ampio e scorre fragoroso, manifestando con la sua voce possente la sua presenza anche quando alla vista è nascosto dalla fitta vegetazione.





Passato il primo ponte ci lasciamo alle spalle le ultime case, pronti ad affrontare la ripida salita sterrata, e poi l'altrettanto ripida e sterrata discesa.



Nonostante i racconti horror degli sloveni della Vinicunca, non troviamo assolutamente traffico, anzi, c'è una calma surreale. Forse chi sale predilige orari diversi, magari di primissima mattina-quasi notte, per essere al sito alle 6, quando apre. O forse si tratta della domenica che precede Ferragosto e tutto tace. Fatto sta che ci siamo solo noi e alcuni cani assonnati. La valle resta ancora chiusa allo sguardo: dobbiamo risalire il corso del fiume perchè si disveli senza enigmi.

Seguiamo la sottile striscia di polvere chiara che è la strada, circondati da fiori e da una vegetazione rigogliosa e grassa, tropicale.




Fin dai primi kilometri alcune rampe ci costringono a scendere e spingere le bici, operazione che mi costa forse ancora più fatica che pedalare. Ogni pochi passi devo fermarmi a rifiatare, perchè la Signorina Felicita, carica, pesa quanto me.





E' palese che questa strada sia in rifacimento. Qui le alluvioni fanno crollare interi fianchi dei monti ad ogni stagione delle piogge; nel 2015, poi la strada e il paese di Santa Teresa sono stati quasi completamente spazzati via, e questo è quanto si è riusciti a fare da allora. Scopriamo che anche oggi si guada, perchè gli affluenti dell'Urubamba scorrono giù dai fianchi dei monti intorno e attraversano la strada, creando ampie pozze di fango.


Se non è per l'acqua è per la sabbia o i sassi aguzzi, e se non è per il fondo è per la pendenza: si fa un gran camminare e si procede piano, pianissimo, sotto al sole che man mano diventa cocente e ruba il fiato e stordisce.


Guadagniamo quota in fretta e il canyon si apre sotto di noi, maestoso, plasmato dall'acqua che mai trova pace e va, va senza fermarsi, come noi.



In alcuni tratti le pareti della valle sono così strette che pare che la roccia debba richiudersi all'improvviso, stanca ormai di distanza, desiderosa di pietra e non di aria. La strada si inerpica sempre più, tracciando una finissima linea di cicatrice che si intravede nella distanza, in alto, ancora in alto.




Poi la sorpresa. Finora non abbiamo incontrato nè cantieri, nè operai, nè chiusure. Ma alle 10.15 incappiamo nel primo tratto bloccato. La ragazza che controlla gli accessi ci dice che la strada riaprirà alle 12. Ma non si può passare nemmeno a piedi? No. Prova a contattare con la radiolina qualcuno, sento una voce che strilla: negativo! Negativo!
Ci dice pure che potremmo prendere una via alternativa, e ce la indica, ma si inerpica per più di 1000m in una manciata di kilometri. In verticale. Altro che via de hierro inca. Quindi tocca attendere. Le dico che abbiamo anche poca acqua: il caldo cui non siamo abituati ci costringe a bere come cammellini. Mi spiega che più indietro c'è una capanna del bosco in riva al fiume e lì sta una signora che vende acqua. Mi pento di non aver portato il telefono per scattare qualche foto. Mentre Gigi presidia le bici al posto di blocco, io vado a cercare la capanna, la signora e l'acqua. Trovo tutto. Un'anziana gioviale che vive in un luogo fuori dal tempo e dall'universo, tra tronchi e fogliame, ma ha una tienda piena di qualsiasi bene e immondizia, tutto mescolato. E' molto persuasiva e riesce a vendermi, oltre all'acqua, dell'inca kola e dei sacchettini di biscotti che mi spaccia come almuerzo. Sono i Nic Nac Colussi, impacchettati in comode monoporzioni. A giudicare dalla consistenza molliccia e rafferma al limite del muffescente, essi biscotti giacciono lì dal millenovecentoundici, anno in cui Bingham scoprì Machu Picchu. Però va giù tutto, sia mai.




L'attesa ci permette di leggere un po' in merito ai luoghi che stiamo attraversando, di affinare le prossime mosse e di, semplicemente, cazzeggiare.


Poi conosciamo anche Thomas, meccanico idraulico che attende di iniziare il turno. E' molto timido ma riusciamo a imbastire una conversazione. Ci chiede se secondo sia conveniente per lui andare a lavorare a Bilbao con uno stipendio di 1150 euro al mese. Ha seguito cantieri anche in Ecuador, e stava per andare in Francia, ma lì avrebbe avuto solo tre mesi per imparare la lingua. Poi si stupisce dello stipendio e dei giorni di ferie dei docenti italiani, e si pente palesemente di non essere diventato anche lui un profe.


Finalmente arriva mezzogiorno e la strada riapre. Dove han brigato i mezzi pesanti non si riesce a pedalare, perchè il terreno è completamente esploso di buche, massi e tronchi. Più avanti ci ttende un gran fango e non siamo ancora neanche a metà tappa. Il caldo è una morsa che stringe le tempie e fa grondare.


Per fortuna alcuni ponti ci evitano ulteriori guadi e offrono scorci incorniciati sulle cascatelle e sui torrenti laterali. Riusciamo a stare in sella e apedalare, finalmente.




Ogni tanto passano un furgone o una moto. Pur manifestandoci solidarietà e apprezzamento, ci sollevano addosso dei nuvoloni di polvere che impediscono di vedere e respirare. Dopo poco siamo completamente ricoperti di un sottile strato di terra chiara, e sembriamo fatti d'argilla e fusi alle bici e alle borse.



Altri ponti, altri roccioni, altra strada... Altre salite. Ora la fatica inizia a farsi sentire e ogni metro ripido e sconnesso è una sofferenza. Bruciano le gambe e le spalle, la testa è appesantita dall'afa, tra i denti scricchiola la polvere.










A indicare il passo, quando ormai siamo agli sgoccioli dell'energia, soprattutto mentale ci sono alcuni avvoltoi che volano in larghi cerchi controsole, proiettando ombre enormi su di noi, e poi si posano sul ciglio del tornante più alto. Nel silenzio assoluto di questa luce pure, l'istante si ferma diventa eterno.


Ultimi strappi ed è ora di scendere. Siamo arrivati di nuovo a 1800m, ma la nostra meta si trova solo a 1500m di quota. Sotto di noi si snoda la strada con i tornanti appena percorsi, e pare che queste spire di rettile si muovano e pulsino e si contraggano di quando in quando.





I monti, a sud, si disvelano sempre più imponenti. Il Salcantay alza su tutti il capo e ci scruta, da lontano. Le pareti vicine, invece, assumono tutte le tonalità dal verde al rosso all'azzuro, in una tavolozza di minerali da far invidia a qualsiasi pittore.





Dopo qualche saliscendi eccoci in vista della strozzatura nella valle, là dove comincia. I monti sembrano qui affastellarsi uno sull'altro come una folla animalesca.





E poi, improvvisa, l'allegria. Eccoci a Santa Teresa. Siamo sopravvissuti al primo e più lungo tratto di quella che viene annoverata tra e strade più pericolose al mondo, per i suoi strapiombi, la carreggiata stretta e franabile e il continuo crollo di rocce dall'alto.

In Santa Teresa, in realtà, nemmeno entriamo: si tratta di una cittadina spoglia e polverosa, che ancora paga gli effetti dell'alluvione e relativa frana del febbraio 2015. Le case sono quasi tutte strutture prefabbricate, inaugurate in stato d'emergenza e poi diventate alloggi permanenti. Proseguiamo, diretti al nostro hotel, l'Eco Quechua Lodge, che si trova oltre la città.



Quando arriviamo ci accoglie uno stormo di pappagalli verdi dalla testa rossa che, oltre a berciare forte, pronunciano alcune frasi: hey dude! Hola! E sono liberi, vivono sugli alberi intorno all'albergo. Certo, approfittano delle abbondanti quantità di frutta matura messe a loro disposizione dallo staff, ma non sono bestie da circo. Sono solo molto furbi.



L'albergo appare, di primo acchito, una roccaforte di gradini di pietra che poi diventano gradini e palafitte di legno, che si ergono in parte sulla costa del monte, in parte addossati ai tronchi degli eucalipti, a picco sul fiume.



Issare bici e bagagli fin in cima non è impresa da poco, ma i ragazzi dello staff ci aiutano con grande gentilezza e la camera si rivela degna della fatica. Oltre ad essere interamente in legno (e pietra il bagno) ha un balcone che affaccia sulla foresta profumatissima di resine e su un torrente che corre tra i pietroni e canta forte il suo canto antico. C'è una pace indescrivibile che ci toglie subito dalle spalle tutta la polverosa stanchezza della strada. Ci rilassiamo, finalmente, davvero, dopo tanto tempo e tanta fatica.





Anche gli spazi esterni sono meravigliosi. Tutti gli ambienti affacciano sulla valle e sugli alberi, dai tronchi alla chioma a seconda del piano. C'è un fire ring per i falò notturni, con divanetto in rami attorno,


e non manca il "nido", la torretta panoramica che dà una visione a 360 gradi su tuta la bellezza circostante.









Dopo aver esplorato l'intera struttura, che pare il sogno in grande di me da bambina, quando desideravo una casetta sull'albero, andiamo a metter radici, è il caso di dirlo, nell'area bar.




Qui è possibile usufruire aggratis di infusi di erbe locali e frutta matura dolcissima, tra cui avocado raccolto a pochi metri e banane di diversi tipi e colorazioni, che vengono dal giardino stesso dell'hotel.



Ci sono anche due perri affettuosi, che ci seguono passo passo e ci scortano, in cambio di qualche coccola.


Per cena ci spostiamo in una sorta di agriturismo poco distante, consigliato da un ragazzo dell'albergo. In effetti mangiamo da gran signori spendendo pochissimo. Antipasto: crema di mais (che pare riso e latte da tanto è dolce) e polpettine di yuca (manioca) in salsa di peperoncino. Portata principale: Gigi un quintale di tagliatelle al pesto con sopra una cotoletta di pollo (un malinconico atto di italica nostalgia), io un'insalata di frutta e verdura locali, con formaggio della casa. Un bontà sopraffina.



Fa tiepido, perchè il caldo del giorno si stempera nella sera (siamo tornati a 1500m). Si sta bene, in tutto. E' una condizione di pace interiore e dei sensi, un punto perfetto di equilibrio tra noi e l'universo. L'unico fastidio sono, come è inevitabile, gli insetti. Ce ne sono molti, quando si esce, per quanto non a nuguli. Nemmeno ci si accorge della loro presenza, se non a danno fatto, quando ci si trova coperti di punture pruriginose e gonfie. Tutto morde. Nel pomeriggio osservavo con gioia una farfallina gialla che si era posata sul dorso della mia mano e... La bagassa ha estratto la sua proboscidina e mi ha sussato il sangue, lasciando un bubbone inquietante. Altro che farfallina. Infatti già da ieri io vivo cosparsa di Autan Jungle ammazzavampiri, ma a quanto pare non basta. Per fortuna non siamo ancora in zona malarica, perchè quando dovremo iniziare il trattamento sarà un bel cinema di effetti collaterali, temo.

Mentre Gigi mi manda queste foto extra di volpe su carretera peligrosa, io organizzo la tappa di domani, che ci porterà ad Aguas Calientes, ovvero Machu Picchu pueblo, il paese sotto alle rovine inca.
Sarà così: lasciamo il grosso dei bagagli qui in hotel, tanto ci torneremo tra due notti perchè la strada è una, da percorrere avanti e indietro, fino a Santa Maria, da dove proseguiremo per la foresta amazzonica.
Alleggeriti, pedaleremo i 10km di salita cattiva e sterratissima che ci portano ad Hidroelectrica, che non è un paese ma, appunto, una centrale idroelettrica. Qui inizia il tratto vietato alle bici e alle auto: si può percorrere solo in treno a piedi, sono 10km abbondanti. Noi andremo a piedi. Le bici riposeranno un paio di giorni in un ristorante lì vicino, che offre servizio di parcheggio custodito a pagamento. Noi risaliremo la valle fino ad Aguas calientes con zainetto e una borsa della bici a tracolla. E staremo due giorni, per visitare una delle sette meraviglie del mondo moderno.




Lunedì, 15/8
Santa Teresa - Aguas Calientes (Machu Picchu pueblo)
27km (16 in bici, 11 a piedi, con quasi 1000m di dislivello!)

Ferragosto! Che giornata, anche oggi, di fatica e bellezza. Ci siamo svegliati riposati, sempre cullati dal canto del fiume e degli uccelli nascosti tra le foglie e i rami. La bruma ha lasciato in breve il passo al sole, che restituito colore allo sfondo. Abbiamo fatto colazione con frutta fresca e tè a km0, per salutare il nostro nido arboreo e riportare le bici giù giù per scalini e pioli fino alla strada.




Qui abbiamo studiato il nuovo assetto da quasi bike packing, avendo lasciato gran parte dei bagagli di sopra, ad attenderci tra due giorni. Io ho soltanto le due borse piccole anteriori, ma trasferite dietro, una cn le mie cose e una con quelle di Gigi. Gigi, invece, non ha borse ma solo sacchetti e sacchettini contenenti scarpe da trekking e zaini, legati con elastici sui portapacchi anteriore e posteriore. Il bikepacking poraccio della jungla, insomma.




C'è da dire che questo assetto non solo funziona, ma, esclusi i primi metri nei quali la bici sfugge di mano perchè troppo leggera e agile, ci consente un passo svelto anche sulle salite più ripide. Già. Perchè anche oggi è tutta salita, sterrata, franata, sabbiosa e fangosa. Salita.
Incrociamo qualche casa sparsa con gli immancabili striscioni della campagna elettorale e dei cimiteri ben più popolati dei villaggi.




La via, per quanto ostica in fondo e pendenze, è spettacolare: corre all'ombra delle frastagliate foglie dei banani e la vegetazione intorno sembra volersi richiudere al nostro passaggio. Il corridoio verde è quasi una galleria di linfa e persino la polvere, costante di questa strada, sembra sollevarsi un po' meno a intasare i polmoni.





Questa strada bellissima che corre alta sul fiume concede a volte degli scorci a fondovalle, verso il canyon, ed è una sorta di cornicione panoramico sull'argento vivo dell'acqua in cui i monti metton radici. Radici di pietra antica.




Questa strada incredibile su cui pedaliamo in salita da 3km ha solo un difetto: è sbagliata. Non è la nostra. Non porta a Hidroelectrica, dove dobbiamo andare noi, ma al Salcantay, 6271m di pietra e ghiaccio, la vetta più alta della Cordillera Vilcabamba, il fratello maggiore del Nevado Veronica da cui siamo scesi noi.
Per fortuna una buon'anima in moto, che sta andando a lavorare nel bananeto, ci avvisa dell'errore fatale. "Amigos, donde viaje?". "A Machi Picchu". "No es para aqui!". Google Komoot continuano a sostenere che da qui ci sia poi un bivio che ci porta sulla strada per Hidroelettrica, ma a quanto pare questa deviazione è stata mangiata dalle piogge e dalle frane e non è più percorribile.
Così, ringraziando molto ma con grandiose pive nel sacco, tocca girare le bici e tornare giù all'hotel percorrendo in discesa, con fatica tecnica per il fondo traditore, quanto finora guadagnato in salita.
Dobbiamo scendere proprio fino al fiume, e attraversarlo. Superare una zona dove benne e ruspe stanno scavando le viscere della terra e poi eccoci, sulla diritta via. I cartelli ora parlano chiaro.



Anche qui ci sono chiusure per lavori in corso e macchinari in movimento, ma gli operai sono più accondiscendenti e, pregandoci di proseguire con cuidado, con cautela, ci lasciano passare. Pedaliamo nella sabbia, nel fango, tra mezzi pesanti in manovra, in salita. Non faclie, diciamo.





Il fiume, da vicino, è tuttavia così bello da ridarci il respiro, e in lontananza, in fondo al canyon, cominciano a intravedersi profili di vette riconoscibili. I kilometri scorrono sotto alle ruote e lo scorno per aver sbagliato rotta passa in fretta.


Senza quasi accorgercene divoriamo i 10km fino a Hidro, e qui ci attende il tanto atteso cartello. Qui comincia il sentiero che conduce al sito archeologico che più desidero vedere, in questo viaggio. Machu Picchu ormai è vicino, una manciata di passi (diciamo).


Prima, però, dobbiamo lasciare le bici al sicuro. Loro non possono portarci fin lassù, non possono venire con noi. Come intuito da diverse letture, proprio nei pressi dell'ingresso del trail c'è un ristorante a gestione familiare che offre il servizio di parcheggio custodito a pagamento. Andiamo lì, prima ancora la guardia possa fermarci per dirci l'ovvio: niente bicicletas.


Il parcheggio, invero, è un insieme di pollai e baracche, ma l'anziano proprietario è gentilissimo, ci lascia accomodare con calma, cambiare e sistemare tutto. Il commiato dalla Signorina Felicita è breve: vado a vedere una delle sette meraviglie del mondo e torno, ciao! 


e ciao anche a te, gaina ovaiola!

Imbocchiamo il trail, a piedi, gravati da zaino e borsa bici, che non è la più agevole delle soluzioni per camminare. Ma questo abbiamo.
Intorno la foresta e i monti sono un paesaggio fiabesco, da libro di avventure.




avocado maturi selvatici




All'ingresso del trail, dove c'è anche la stazione dei treni, una piccola folla di camminatori, giovani e sportivi, si addensa, per poi disperdersi nella vegetazione. Ognuno ha il proprio passo, di fiato per parlare non ce n'è. Si prosegue da soli e nel silenzio che silenzio non è: animali e piante proseguono il loro discorso.

Hidroelectrica non è un pueblo, ma un insieme di negozietti (quattro assi e due lamiere) lungo i binari. Vivono dei turisti che passano, affamati e assetati. Le signore stanno tutto il giorno a gridare: hay cena, hay helados, hay gaseoas, finchè qualcuno si ferma. Intorno, cani, bambini randagi e portatori che precedono di buon passo i gruppi organizzati di sportivi della domenica.



Noi pure cedimo alla tentazione di un gelato, e chiacchieriamo un po' con la parona che, tra un urlo e l'altro per richiamare clienti, ci dice che in questo periodo si lavora bene e finalmente hanno riaperto post-Covid. Per questa gente, che ha poco, la pandemia ha significato tornare alla sussistenza.




Si parte, a piedi. Ci attendono oltre 10km di strada. A parte le prime rampe di scale in pietra, quasi verticali, il resto del sentiero è un falsopiano in salita che costeggia i binari. A volte si sovrappone proprio ai binari. Per fortuna i treni sono rari (circa 3 al giorno per direzione). In ogni caso bisogna stare attenti e molti cartelli lo ricordano.



divieto alle bici


Si avanza nel caldo umido in una natura rigogliosa, florida, grassa, che occupa ogni millimetro disponibile. L'odore di terra e polline è densissimo. Il fiume e le pareti di roccia rendono ancora più misterioso il paesaggio, che cela uccelli, pappagalli e animali di cui si percepiscono solo i versi e il fruscio, senza poterli vedere mai.




Il passo spesso è ostacolato da ponti traballanti, frane e attraversamenti incerti lungo i binari. Diciamo che qui le norme di sicurezza si limitanoall'attenzione dei viandanti, che, per non spaccarsi un osso, diventano agili come vigognette.



Assistiamo anche allo spettacolodel giorno: il passaggio di un treno PeruRail. Quelli destinati ai turisti sono due al giorno, e costono 33 dollari per 10km di tratta. Quelli per i locl sono più frequenti e decisamente più economici, ma è giusto così.




Ogni tanto nella boscaglia compare una casa, una capanna, un minuscolo villaggio. Tutti hanno in vendita prodotti di prima necessità e non per chi è in viaggio. Nessuno controlla, si prende, si paga, si prosegue.



Inutile dire che ci troviamo immersi tra fiori così spettacolari da sembrare fuochi d'artificio, per i colori e le dimensioni.






A metà strada facciamo un'altra sosta-banana. Camminare con i fardelli mi è più difficile che non pedalare con il quadruplo del bagaglio. Spalle, schiena, clavicole, tutto scricchiola, cigola e sembra sul punto di fratturarsi. Ma no, è solo stanchezza. Una dormita e passa.



Attraversiamo una serie di ponti che sono, invero, assi dei binari. Un passo falso e si saluta la caviglia.







Manca ormai poco. Siamo abbastanza distrutti. Gli insetti c molestano come fossimo ignavi danteschi, nonostante le continue docce di Autan.



Tuttavia i monti si fanno più vicini e chiusi, e questo è il segnale. Siamo in dirittura d'arrivo. Questi profili, visti tante volte in internet e sulla guida, sono per me inconfondibili. E' l'abbraccio di pietra che precede il sublime.




Eccoci. Qui c'è l'ingresso al sito archeologico, che visiteremo dopodomani. Accanto, il mariposario conle sue farfalle enormi e coloratissime, o minuscole e fragili come un soffio.




Ancora qualche manciata di minuto, immersi in questa meraviglia assoluta, e raggiungiamo Aguas Calientes.









Visiteremo domani, giorno di sosta (perchè siamo stati rapidi e abbiamo raggiunto questa meta in anticipo) questo villaggio a vocazione smaccatamente turistica. Ci sono terme, una cascata, alcuni trekking e una miriade di negozi e locali, alberghi e servizi per chi giunge qui attratto dalle rovine incaiche.




In hotel ci raggiunge la gentilissima proprietaria, la signora Rina, che ci dà tutte le informazioni per visitare il pueblo e il sito. Domani ci aiuterà anche ad anticipare l'orario di ingresso al complesso, così da non correre per il ritorno. Ha un amico al centro culturale e se ne occuperà lei. Grazie signora del mama Coca, ti vogliamo un bene grande così!

1 commento: