13/7
Escarcega-El Aguacatal
106km
Il caldo ci rende difficile persino dormire, considerando che il condizionatore spara sul letto e Gigi non può permettersi sbalzi di temperatura. Ci svegliamo presto, già madidi di sudore. Gigi sta meglio, non ha più febbre e se la sente di pedalare (forse perchè si è reso conto che l'alternativa sarebbe arrangiarsi un po' da solo per un paio di giorni, cosa che lo spaventa più del coccolone da caldo). Quindi colazione a tortillas e marmellata, un saluto al yucateco e siamo in strada. Escarcega è brutta anche al mattino, caliginosa e trafficata, con i suoi scheletri di edifici in cemento e cavi d'acciaio che paiono carcasse di dinosauri futuristici. L'ultimo scorcio è al monumento del chiclero, stivali, cappello e machete.
Imbocchiamo nuovamente la stradona di ieri, usciamo dalla città e ci godiamo ancora un piacevolissimo vento a favore. Oltretutto oggi la strada è ancora più piana, e non ci sono accenni di salite, nemmeno piccole piccole. Il sole è velato dalle nubi, e per i primi 40km la temperatura rimane sopportabile. I pueblos si susseguono, minuscoli, ma con le loro strutture pubbliche: scuola, campetto, spiazzo coperto con tettoia dove si svolgono lezioni di danza ed educazione fisica... Insomma, che manca? Forse un nome più piacevole! Alcuni villaggi si chiamano con il numero del kilometro della statale su cui sorgono, e hanno tanto di monumento! Questo è il 36, per esempio.
Tra un pueblo e l'altro ci sono i ranchos,, enormi, dove il termine estensivo assume un significato concreto e visibile. Sono tenute spesso curatissime, con l'erba tagliata e i recinti in legno per gli animali, un piccolo laghetto interno e mandrie di vacche e cavalli che pascolano libere. In effetti ci sono numerosi allevamenti che vendono bestiame, e, nemmeno a dirlo, altrettante macellerie e aziende di produzione di carne e latticini.
Gigi deve fare qualche sosta in più del solito e approfittiamo della miriade di centri abitati per rinfrescarci e riempire le borracce. Non ci sono supermercati, e nemmeno veri e propri negozi di alimentari. Chi ha bottega, vende un po' di tutto, con una semplice ma efficace divisione in macrogeneri: i meccanici riparano e vendono tutto ciò che ha a che fare con auto, bici, moto, motori, metallo e gomma. Gli alimentari sono nei ristorantini stessi, spesso baracchini con quattro sedie e un fornello sotto ad una tettoia, dove però tutto è fatto al momento, anche il pane e le tortillas, a partire dalla farina. Nella stessa categoria ricadono i farmaci, venduti accanto alle caramelle e in cestini adiacenti (basta non confondersi). Vestiti, prodotti per la casa e cancelleria sono insieme, a parte. Una volta capito il meccanismo, si trova tutto!
La strada curva un poco e segue, seppur in entroterra di qualche kilometro, la forma della costa del Golfo, che è tutt'altro che lontana. Superiamo Mamantel, ufficialmente chiamata Pancho Villa, e l'omonimo fiumiciattolo. Poco oltre il bivio per Candelaria, rinomata località fluviale molto sponsorizzata a livello di turismo locale, facciamo una lunga sosta perchè ora il sole picchia forte sulle nostre testoline e sul casco potremmo friggerci gli ovetti revuelti. Vendono una rara prelibatezza: i ghiaccioli artigianali. Gigi ne prende uno alla papaya, io uno al cocco e cannella. Sono fatto proprio con la polpa della frutta sminuzzata e congelata. Sono di-vi-ni!
Quando ci siamo un po' rinfrescati, ripartiamo. E' ancora presto e ci mancano una quarantina di kilometri -due ore e mezza circa al nostro passetto. Su Maps ho visto che ogni poco, anzi, ogni pochissimo, c'è un "paese", ma ormai conosco i miei pollos, questi non sono pueblos, sono ranchos privati ma tanto estesi e con tanto personale da poter essere assimilati a centri abitati, come da noi le cascine un tempo. I nomi lo dimostrano: si chiamano come i fondatori o i proprietari (La Elvira mi fa ridere, ma ci sono anche Las Marias, Cuatro Hermanos, Maia Isabel, e, su tutti Mayalan, che pare un verbo al futuro che riguarda i porcelli). Infatti per gli ultimi 40km pedaliamo dritti senza soste, in un continuum di proprietà private dove abitano mucche dalle lunghe corna, l'ampia pappagorgia e la gobbetta, vitelli tutti orecchie e cavalli magretti. E palme, oh quante palme! Ombra, nada. Acqua, nada.
Rio Candelaria, lungo più di 400km |
Gigi viaggia con una bottiglia di acqua non potabile da rovesciarsi in testa un po' alla volta per rinfrescare il cerbello |
Riarsi e completamente bolliti dalla calura, raggiungiamo finalmente El Aguacatal, unico pueblo con strutture raggiungibile in una giornata in sella. Sorge sul Rio Chumpan, e sta a un paio di kilometri dal confine con il Tabasco. In questo nuovo stato noi transiteremo domani per breve tratto, prima di entrare in Chiapas. Google sostiene ci siano due hospedajes, ma a primo impatto non si direbbe. Pare il classico villaggio scalcagnato, con i cani randagi, la polvere e lo stradone che lo attraversa. Prima ancora ci addentrarci nelle viuzze sterrate, ci fermiamo a prender dell'acqua: siamo secchi come le brugne Sunsweet, una roba devastante, un'arsura apocalittica. In tutto ciò, attiriamo la curiosità dell'intero pueblo, che mica è grande. Soprattutto quando ci vedono arrancare verso l'interno del paese, tra buche e mucchi di sabbia e calcinacci.
Gli hotel sono due, uno a 20 metri dall'altro, recensiti uno male, l'altro peggio. Lascio scegliere a Gigi, che punta a quello dalla facciata più decorosa. Dopo un po' di attesa, ci dicono che non hanno camere. Ahia! Il 50% delle possibilità ci si brucia sul colpo. Sarà la sera che inauguriamo la tenda? Andiamo al secondo, che ha un portonaccio di lamiera tenuto su da assi di legno appoggiate, e, quando già stiamo perdendo le speranze, un anziano ci scruta dallo spioncino e si affretta ad aprirci: Pase, pase, adelante! Quindi ci lascia alle cure della moglie, che vuole sapere tutto di noi, del viaggio, delle bici, e ci guarda tra il preoccupato e il meravigliato, come farebbe una nonna, stringendosi nello scialle (ma signora! Ci sono duemila gradi!). Ovviamente tutto senza lasciarci neanche entrare in stanza a respirare. Poi la paghiamo e, cambiando tono di voce, mi guarda di sottecchi e commenta: sai che potere ha il denaro? E se ne va, così, con le sue sciavattine e lo scialle.
Gigi ha ancora un po' di febbre; probabilmente, a questo punto, si tratta del raffreddore con tosse che si sta trascinando da qualche giorno. Tuttavia è abbastanza in forze e oggi mi accompagna in paese a caccia della cena. Ci sono dei ristorantini, ma non abbiamo voglia di mangiare affacciati allo stradone, tra gas di scarico dei camion e polvere. Quindi facciamo spesa nelle botteghine e in una fornitissima frutteria e ceniamo in camera. Qualche scatto di El Aguacatal sul far del tramonto:
tacchino albino cattivissimo da guardia che, un minuto dopo, ha fatto scappare il cane randagio e me |
acquedotto |
chiesa |
negozio di farmacia e telefonia (qui tutti con grate) |
al cui interno ci sono rimedi alternativi se i farmaci non funzionano o la connessione manca |
Concludo con una chicca: dopo il grande successo dell'InkaCola peruviana, quest'anno assaggiamo la Chiva Cola, ovvero la competitor messicana del brand a stelle e strisce che qui ha colonizzato assai. Viene venduta come bevanda a base di ingredienti naturali, senza zuccheri, edulcorata con stevia e il mai sentito prima frto del monje, frutto del monaco, a quanto pare una cucurbitacea originaria della Cina che dà sensazione di dolcezza 250 volte più del saccarosio. Insomma, è buona questa Chiva Cola? Sì! Anche se qui c'è solo da scegliere tra le bevande, tra orzate alla cannella, acqua al tamarindo e alla guava, di cocco...
Finita la cena, il paese cade nell'oscurità per un black out. A quanto pare succede di continuo, tutti i giorni. Ce lo spiega la signora, con la quale ci ritroviamo seduti in cortile a cercare un po' di frescura, perchè in camera, senza ventilatore accesso, si scoppia di caldo. Quindi non è solo il megacantiere del Tren maya... Qui l'elettricità c'è e non c'è, e riguarda interi villaggi. poco male, noi siamo autonomi con i powerbank... Lo stesso non possono dire le persone che qui lavorano e vivono, però.
Dopo un paio d'ore la luce torna, e ci ritiriamo in camera (anche perchè le zanzare, fuori, con l'Autan si profumano le loro sei piccole ascelle).
Domani arriveremo a Palenque, finalmente, con una tappa da cica 110km e un piccolo taglio nelle campagne che mi preoccupa vagamente. Sul Chiapas da giorni mi informo, chiedendo alla gente e cercando online, e son tutte brutte storie, fuori dalla bellezza dei soliti luoghi noti turistici! In ogni caso abbiamo preso una decisione, per me sofferta, ma praticamente inevitabile: tra Palenque e San Cristobal de las Casas penderemo un autobus. Sono solo 240km, ma quelle valli montane pare nascondano davvero troppe insidie. Fossero solo i "pedaggi" da pagare ai bandidos, spesso gruppi di decine di ragazzini dal volto coperto e armati di bastoni, non avrei problemi. Ma qui qualcuno ci ha lasciato le penne... Nel 2018 due cicloturisti sono stati trovati morti, ammazzati e buttati come immondizia nei valloni. Uno pure decapitato. Sicuramente sono casi isolati, la gente è tranquilla e nella stragrande maggioranza dei casi non succede niente di male. Ma. Per intenderci, nemmeno gli autobus fanno questo tratto di strada. Non passano per Ocosingo, ma allungano via Villahermosa, con una corsa che dura dalle 9 alle 13 ore, perchè quei maledetti 240km sono troppo rischiosi anche per i mezzi pubblici di linea. Oltretutto, se fossi sola, saprei con un buon grado di certezza quanto ci impiego a scalare quelle montagne, in modo da evitare assolutamente di essere in strada con il buio. Ma non sono sola, per fortuna. E devo tenere conto che i tempi di Gigi non sono i miei, le paure e le reazioni di Gigi non sono le mie. Lui si fida di me ciecamente, e io non voglio portarlo a vivere momenti di tensione, o di pericolo. Ergo, riassumendo: domani arriviamo a Palenque. Dopodomani, al mattino, visitiamo l'imponente sito archeologico e la sera prendiamo un notturno che ci porta, per la via lunga, impiegandoci tutta la notte, a San Cristobal. Dovremo stare attenti ai furti sul bus, che pare siano prassi comune. Ma almeno non rischiamo di essere decapitati con un colpo secco di machete. Un buon programma, per il futuro a breve termine, no?
14/7
El Aguacatal-Palenque
112km
Giornata intensa, bella di luoghi e d'incontri, faticosa, di quelle che appena arrivi a stender la schiena, a tappa finita, prima di cambiarsi, prima di cenare, colli in un sonno immediato e pieno di sogni.
Siamo in Chiapas, finalmente. Il famoso e famigerato Chiapas. E per arrivarci abbiamo lasciato il magico Campeche alle spalle, e attraversato una minuscola fettina di Tabasco, nome così evocativo da risultare piccante sulla lingua e sulle labbra anche solo a pronunciarlo.
Stamattina la sveglia è stata ben prima dell'alba, e non richiesta. La signora ha iniziato a trafficare in cortile, a bagnare le piante, a berciare contro il marito che era ancora buio.
Gigi ha dormito con il ventilatore in faccia ed è abbastanza conciato di raffreddore, ma a questo punto penso abbia deciso di conviverci, in cambio della frescura notturna.
Pian piano ci mettiamo in moto, facciamo colazione con gli avanzi della spesa di ieri sera, facciamo la conta dei gechi che stanotte, durante il blackout, hanno invaso la stanza e, dopo la solita spalmata di crema solare, partiamo.
Un filo di tensione nell'aria c'è. Del Chiapas abbiamo letto e sentito molte brutte storie, e ora che ci stiamo entrando il velo dell'inquietudine adombra un poco l'entusiasmo. Ma l'aria chiara e ancora fresca ci rasserena il cuore, e iniziamo a pedalare. Dopo le stradine sterrate del pueblo, riprendiamo la statale per Villahermosa, e attraversiamo il ponte sul Chumpan. E' zona di fiumi, laghi, pozze d'acqua e paludi, questa. Ne vedremo tantissimi, quasi un filo unico d'acqua più o meno stagnante, più o meno azzurra.
albero su cui sono appollaiati tantissimi avvoltoi |
Le prime decine di kilometri assomigliano molto alle ultime di ieri: nessun pueblo, un numero spropositato di ranchos, di tutte le dimensioni, alcuni tenuti meglio e più curati, altre decrepiti, altri proprio abbandonati. Ci sono mucche e cavalli, mentre il cielo è ricamato dal volo largo degli avvoltoi e negli stagni si stagliano aironi candidi, immobili come statue di marmo. Sono uguali a quelli che vedo in ogni giro in bici dalle mie parti. Purtroppo schiacciati dalle auto ci sono opossum, coati, armadilli, serpenti, iguane e rospi enormi che paion palloni. E cani e cavalli; in concomitanza di questi ultimi, solitamente, si vedono anche pezzi di auto e vetri rotti e lamiere, perchè l'equino ha la peggio, ma ti lascia un bel segno. L'odore di carogna, dolciastro, nauseabondo, è piuttosto diffuso. Penso, come mi è già capitato, quanto poco si sottolinei, nello studio della storia, il fattore olfattivo. La puzza. Immaginatevi cosa dovesse essere un campo di battaglia, all'indomani dello scontro, con migliaia o decine di migliaia di corpi putrescenti, sì scempiati da cani e uccelli, come dice Omero, ma soprattutto puzzolenti! Inimmaginabile. Tanto per stare su pensieri allegri, mi restano impresse le immagini dei crani di questi animali morti investiti, ancora un po' coperti di pelle e pelliccia, ma che si stanno ritirando e decomponendo, metre l'osso e la dentatura iniziano a spuntare. Un mementomo di quelli potenti.
Procediamo, un po' arrancando a causa del vento avverso, tra zone alberate e altre tenute a pascolo. I primi 40km scivolano via così e, quando inizia a fare caldo, ci fermiamo nell'ultimo pueblo del Campeche, Oxcan, assetati e riarsi alla ricerca di acqua. La troviamo presso una sorta di ristorante, che ha anche l'officina meccanica a lato, e una ventina di mezzi pesanti parcheggiati davanti, alcuni in riparazione, altri in sosta seconda colazione.
Una manciata di metri, un posto di blocco con controlli per veicoli e animali, dove noi passiamo sotto lo sguardo di una guardia annoiata e... Arrivederci Campeche! Siamo in Tabasco.
In questo stato, che mi fa pensare all'unica salsa piccante che sia abbastanza diffusa da noi, rimaniamo invero ben poco. Giusto una decina di kilometri, fino a Chablé, sul rio Usumacinta, che segna il confine con il Chiapas. Quando siamo quasi a questa seconda frontiera, veniamo abbordati da un pickup grigio, polveroso e tutto arrugginito. Lo vedo avvicinarsi dallo specchietto retrovisore, e puntare nella nostra direzione a velocità abbastanza sostenuta. Ci incalza da dietro per qualche attimo. Gigi ed io pensiamo, pur senza nemmeno vederci in viso, la stessa cosa: eccoci qua, sta succedendo. Non siamo ancora entrati in Chiapas e ci stanno già rapinando. Ora ci fa accostare, chi sa se sono armati di pistola o machete, o semplici bastoni. Hanno il volto coperto? Per fortuna abbiamo diviso il contante e anche a svuotare il portafogli son pochi soldi. Mai fare resistenza. Calma, calma... Un colpo di clacson. Istanti interminabili. Poi il veicolo ci si accosta e mi compare davanti un ragazzotto sorridente che mi porge dal finestrino una confezione di croccanti. E quando la afferro al volo, il suo compare alla guida accelera e sgasa via, mentre gli urlo ringraziamenti in varie lingue. Gentili e anche timidoni! Che pezzi di cuore! Vedi a pensa male e patir prevenuto... Il nostro ingresso in Chiapas, anche per un gesto così piccolo, assume tutto un altro sapore. Molto più dolce, miele e arachidi.
Sosta di metà tappa e passiamo il confine. Il fiume segna la linea che divide lo stato più povero del Messico dal resto del paese. Lo stato dove c'è una presenza preponderante di fieri indigeni che hanno mantenuto le loro tradizioni. Lo stato degli zapatisti. Lo stato dove lo Stato fatica a giungere, e l'autorità ha rinunciato in parte ad essere tale. Lo stato dove, per ragioni concrete di sicurezza nè noi in bici nè gli autobus percorrono alcune strade, ancorchè principali, tra grossi centro abitati. I controlli qui sono un po' più attenti e, soprattutto, si paga un pedaggio per transitare sul ponte. La strada non è cuota, ma libre. Però se non vuoi fartela a nuoto devi lasciare l'obolo. Noi siamo esentati, e nemmeno ci vengono chiesti i documenti. Meglio così.
I ranchos, in breve, lasciano di nuovo spazio alla selva incolta, alla giungla. Compaiono numerosi cartelli che invitano a prestare attenzione alla fauna selvatica, soprattutto alle scimmie urlatrici. Ci sono anche dei meravigliosi ponti rialzati costruiti apposta per loro, in modo che imparino ad attraversare la strada in modo sicuro. La somiglianza con i ponti pedonali in metallo che ogni paese ha è evidente.
i ponti per le scimmie |
i ponti per le persone |
Passiamo qualche scalcinato pueblo e la differenza con gli altri villaggi, anche quelli dispersi nella riserva di Calakmul, è evidente. Qui i giardini, lo spiazzo coperto e i giochini non ci sono, o, se ci sono, sono malridotti e pericolanti. Le case son più capanne, e ci sono orde di bimbi anche piccoli che razzolano nel fango o vendicchiano qualcosa lungo la strada. Si intravede qualcuno che si sposta a cavallo anche sulla statale. Insomma, è tutto più fatiscente e scrostato (e già i giorni scorsi non si navigava nel lusso).
Decidiamo di non prendere la scorciatoia sterrata che taglia per i campi, ma di proseguire sullo stradone. Sono solo 5km in più, ma tutti asfaltati e più battuti. Nell'ultima sosta prima della deviazione per Palenque veniamo approcciati da Carmine, che ha l'aria di un rapper californiano travestito da messicano. Ci dice che lavora come meccanico ciclista a Palenque, ma vive in un pueblo minuscolo nella selva, sul confine con il Guatemala. Ora sta tornando a casa perchè nel weekend il taller resta chiuso, non c'è tanto lavoro, visto che si occupano solo di MTB. Poi mi fa vedere il suo tatuaggione di una biciclettona sul braccione, e dice che è come il mio. Carmine, di voglio bene, ma parliamone. Ci chiede del viaggio, ci parla del suo lavoro, del noleggio bici per turisti che però funziona sì e no... E ci chiede una foto. Tutto con un entusiasmo da "preso bene" che ci dà la carica. Allorra questo Chiapas non è abitato solo da bandidos!
Dopo esserci salutati con pugnetti e strette di mano, ripartiamo per gli ultimi 30km. Lasciamo lo stradone passando attraverso un punto di controllo della polizia che è un enorme labirinto. Sembra una frontiera di stato! E invece è il modo che le forze dell'ordine hanno per far finta di avere la situazione in pugno. A parte un gran girare a vuoto quasi su noi stessi, tra auto e camion costretti al nostro stesso gioco dell'oca, di veri controlli non ce ne sono. Usciamo da quel piccolo inferno di sbarre, dossi e conetti catarifrangenti e ci troviamo catapultati su una strada bellissima. Primo, perchè corre nella giungla e tra palmeti fitti fitti. Secondo, perchè sullo sfondo ci compaiono davanti, azzurre, maestose, la prime vere montagne di questo viaggio. Ciao, Sierra Madre. E' un piacere conoscerti! Nemmeno qui mancano i cartelli rivolti alla tutela della fauna e i ponti per le scimmie. Che spettacolo!
Un po' meno entusiasmante, invece, è attraversare Pakalna, cittadina supercaotica e trafficatissima, dove la strada si restringe e passano mezzi troppo ingombranti per non far danno, su un fondo già devastato da buche e dossi e sabbia e asfalto rotto.
Ormai, però, siamo arrivati. Anche Palenque città (che sorge a circa 10km dal sito archeologico) non è una meraviglia da attraversare in bici: sorge su collinette ripide, ha strade anguste e malmesse e un traffico piuttosto intenso di moto, mototaxi, motorini, auto e altri mezzi curiosi che hanno nome solo nella fantasia di chi li ha accrocchiati.
Abbiamo prenotato una stanza in centro, dove siamo ceti di poter lasciare, per tutta la giornata di domani, bici e bagagli al sicuro. Appena arrivata, crollo in un sonno di piombo per qualche attimo. Oltre ai kilometri, al vento contrario, alla tensione iniziale e al caldo, il caos delle città mi ha dato il colpo di grazia. Durante la doccia scopro con sconcerto che ho la schiena abbronzata e il marchio delle bretelle dei pantaloncini impresso sulla schiena. Allibisco. Non pensavo fosse fisicamente possibile abbronzarsi attraverso una maglietta che non è poi così sottile!
Dopo un breve riposo, usciamo di nuovo per compiere la missione necessaria al prroseguimento in sicurezza del viaggio: trovare un mezzo che ci porti a San Cristobal de las casas, domani, dopo la visita alle rovine. Dopo un po' di code e colloqui e scarpinate, ottengo le informazioni necessarie: solo una compagnia va da qui a San Cristobal, la Ado, una delle più diffuse e già sperimentate quando eravamo in attesa delle bici. Questa fa il giro largo: non passa da Ocosingo ma da Villahermosa. Ha una corsa alle 23 che arriva a destinazione alle 7.30 del mattino dopo. Si possono caricare le bici, a patto di smontale un po' e dare una propina adeguata agli addetti ai bagagli. Insomma, tutto bene. Compriamo i biglietti e siamo leggeri e liberi di andare a cena.
Di Palenque, moderna e antica, parleremo meglio domani. Il primo impatto, comunque, è quello di una cittadina che si è distribuita equamente i suoi spazi con la giungla. Case, locali, ufficici, rami, liane e radici convivono qui a stretto contatto, ed è un incontro incredibile per noi europei che siamo abituati a vedere, negli spazi urbani, una natura sottomessa, controllata e adattata alle esigenze umane, mai il contrario.
una stazione degli autobus in stile maya |
un evento che mi attrae e raccapriccia a un tempo |
Tornando verso il centro, passiamo per le vie dei negozi e del mercato. C'è il solito allegro casino messicano, ma qui con più mendicanti, per lo più giovani mamme e bambini. Alcuni vendono cosine ai passanti, altri si limitano a chiedere una monetina per la tortilla.
Mentre ancora ci abituiamo a questo nuovo clima umano, un locale attrae la nostra attenzione. Non è turistico, ci sono solo messicani, è roncio il giusto, ma non da epatite A. Ha pochi piatti fatti al momento. Nella scelta limitatissima, prendiamo due quesadillas al pollo piccante, come aperitivo, e un huarache huasteco al pollo, pomodoro e avocado da dividerci. Perchè, come ci fa notale il cameriere, non è un huarache, è un huarachon! Huarache è un tipo di sandalo, e il piatto prende il nome dalla forma della pasta di mais (masa de maiz), che pare una sciavatta, fritta, sottile, croccante, buonissima. Sopra ci si mette un po' quel che si vuole, come una pizza. La nostra ha crema di fagioli, verdure, pollo, avocado. E' enorme. Sazia entrambi. Ed è deliziosa.
15/7
Palenque pueblo e sito archeologico
La giornata di oggi, che non prevede tratte in sella, è un incastro perfetto e meravigliosamente congeniato per permetterci di fare molte cose in poco tempo, pur nella consapevolezza della necessaria elasticità di fronte ai ritmi messicani (e, ormai, un po' anche nostri), e senza sbattimenti. Mi alzo in un bagno di sudore, un po' freddo, un po' caldo, un po' brododivolpe. Gigi mi ha attaccato il broncobrutto, e adesso tocca a me avere il naso che sgocciola e si tappa, la faccia rovente e il rincoglionimento più grave del solito. Ma pace, con un caffettino gentilmente offerto dall'hotel e due biscotti mi rimetto in pista. Lasciamo le bici e le borse in albergo, scelto accuratamente per il deposito bagagli largo e gratuito. Riprenderemo tutto stasera, sul tardi.
Quindi ci tuffiamo nelle già incasinate strade di Palenque pueblo, diretti alla stazione degli autobus, da dove partono anche i colectivos che portano alle rovine archeologiche. A segnalare il punto di partenza sono il testone di maya in una rotonda, e la statuona di maya di fronte. Dettaglio: nella mano destra c'è un nido di similcolombi, e la mamacita è in cova, mentre osserva l'umano fluire dall'alto, sbirciando tra le dita.
Nel giro di un minuto passa un combis diretto alle rovine: ci issiamo senza che quasi si fermi e, pagati i 25 pesos di corsa (1.2 euro) ci godiamo l'aria fresca del finestrino, mentre il pullmino, su cui siamo i soli turisti, fa salire e scendere gente. Dopo meno di una decina di kilometri, che ci portano a issarci sulle prime colline che separano la pianura del Golfo dalla Sierra Madre, e sono coperte da un fitto manto di giungla, è ora di scendere. Abbiamo superato uno zoo che viene spacciato per centro di recupero fauna selvatica (qui capita spesso, ahimè), diversi hotel e un parco acquatico. Ora siamo all'ingresso della riserva di Palenque, dove si pagano due biglietti: uno per la conservazione ecologica, l'altro per las ruinas. Notiamo un gran numero di cartelli e cartelloni, molti dei quali scritti a mano, che lamentano, da parte dei lavoratori, una serie di ingiustizie che sono costretti a subire da parte dell'INAH, l'ente statale che gestisce tutto il patrimonio storico messicano. Qui, su queste cose, è meglio non scherzare!
Appena comprati i biglietti, mentre ci prepariamo a camminare per un kilometro e mezzo, in salita, al sole, per raggiungere l'ingresso principale, incappiamo in un immenso formicaio di formiche tagliafoglie. Un fiume di insetti trasporta, senza soluzione di continuità, pezzetti di foglia, appunto. Ma mica se le mangiano! Le usano per coltivare un fungo, che cresce solo nei loro formicai, che è il loro nutrimento principale. Una simbiosi perfetta!
le famose tope! |
Quel kilometro e mezzo, sarà il raffreddore, sarà il sole rovente, sarà la salita, sembra infinito. Ma prima di immergerci nella storia dell'antica città di Palenque, facciamo un salto in uno dei sentieri che si diramano sulle colline, e conducono a cascate e templi maya rimasti esclusi dagli scavi. Si segnala la presenza, anche qui, di scimmie urlatrici, di ocelot e tucani. La natura è lussureggiante e chiederebbe la N maiuscola, perchè davvero dà l'idea di una grandezza e di una ricchezza, e anche di una forza, creatrice e distruttrice, che fa sentire minuscoli. Ma in quanta bellezza!
i custodi sono di manifeste idee politiche |
Viene quindi il momento tanto atteso: la visita del sito. Come sempre, ma più del solito, all'ingresso c'è una pletora di umanità varia che vende qualcosa, e cerca di guadagnarsi la tortilla. Si va dagli ambulanti con souvenir made in China alle donne indigene che propongono i loro ricami e i loro bracciali. Ci sono bimbi che vendono bibite e pacchettini di caramelle già aperti, e baracchini che offrono cibo conservato in borse termiche che sfidano i quaranta gradi del primo mattino (forse). Non mancano i cocchi freschi affettati al momento con il machete e altre amenità varie da mercato. Questo accade anche all'interno del sito, in un via vai di ragazzini e venditori. Sono tante anche le guide, di cui poche autorizzate, e tra queste pure bimbi che hanno imparato un po' di nozioni di storia e le rivendono a quattro spicci. Insomma, s'è detto: il Chiapas è lo stato messicano più povero e non ci vuole molto a capirlo.
Una volta entrati, la vegetazione si dirada e subito si spalanca davanti agli occhi la meraviglia. palenque significa palizzata ed è spagnolo. Il nome maya era Lakamha, grande acqua. Sorse intorno al 100 a.C., ma il suo periodo più florido si colloca tra il 630 e il 740 d.C. La città iniziò ad acquistare importanza sotto Pakal, che regnò dal 615 al 683 d.C. e il cui glifo era lo scudo solare. Durante il suo regno sorsero piazze e palazzi, tra cui il magnifico Templo da las inscriptiones (mausoleo dello stesso sovrano). Tali strutture erano caratterizzate da tetti spioventi e da raffinati bassorilievi in stucco. Degli oltre 15kmq di città antica ne sono stati riportati alla luce solo 2,5, ma ricchi di tesori. Bisogna poi immaginarsi questi edifici dipinti di rosso vivo, con sculture e stucchi gialli e blu.
Appena entrati si incontrano il templo de la calavera e le due tombe: quella della Regina rossa, probabilmente moglie di Pakal, e così chiamata perchè il suo scheletro era tinto di rosso (oltrechè ornato di gioielli) e il tempio delle iscrizioni, tomba di Pakal stesso, uno accanto all'altro. Il sarcofago della regina è in loco e visitabile, mentre quello di Pakal è riprodotto nel museo.
Di fronte ai due mausolei si trova la tomba di Alberto Ruz Lhuillier, che scoprì i resti dei sovrani nel 1952 e giustamente ha avuto la sua sepoltura nel luogo più consono. E' come se io venissi sepolta nel giardino della scuola media di Sedriano, accanto all'orto didattico. E' comunque un'idea!
Il templo de las inscriptiones si chiama così per la lunga serie di glifi che narrano la storia di Palenque e di Pakal (la cui maschera, corredo funebre, fu pure rubata in modo rocambolesco e poi ritrovata, negli anni '80). Subito accanto si staglia il Palazzo, enorme struttura labirintica più volte rimaneggiata nel corso di 400 anni, residenza dei sovrani. La particolarità sta nella torre, che permetteva ai nobili e ai sacerdoti di osservare il sole. Gli edifici, nemmeno a dirlo, sono tutti orientati.
Dopo questo primo gruppo di edifici, ci spostiamo al secondo, detto de Las cruces e fatto costruire dal figlio di Pakal, Kan B'alam II, il re giaguaro-serpente, che regnò dal 684 al 702 e affrontò la rivale città di Toninà. Vinse ed estese il suo potere, oltre a portare avanti la costruzione di edifici sacri, tra cui i tre templi detti de las cruces. Che poi mica son croci, son la ceiba, l'albero sacro che ha le radici nel regno dei morti, il tronco in quello dei vivi e i rami nel cielo degli dei maggiori.
Su questi templi vale la pena salire, nonostante l'ormai nota faticaccia, perchè in cima le camere hanno bassorilievi di grande interesse, che rappresentano le divinità e le incoronazioni dei sovrani, secondo una complessa simbologia che prevede sempre la presenza del sole, del mais, di giaguari o serpenti e di altre piante come cacao e avocado. Insomma, tutto il mondo dei maya riassunto in breve. Qualcuno sostiene che gli artisti facessero uso di funghi allucinogeni, che qui crescono come specie endemica (e vengono anche venduti, a bordo strada). Inoltre, dall'altro, si gode di una spettacolare vista sul sito archeologico.
Proseguendo, si incontrano altri gruppi di edifici, costruiti dai sovrani successivi. Il fratello e successore del re giaguaro-serpente fu catturato e giustiziato a Toninà, ma, nel 722, il re Lago della Tartaruga ara portò Palenque a un nuovo periodo di splendore, costruendo altri templi. La città fu abbandonata a partire dal 900 d.C.
juego de la pelota |
Trattandosi di una delle aree più piovose del Messico, la giungla si rimangiò tutto, fino al 1746, quando alcuni cacciatori indigeni rivelarono al sacerdote spagnolo Antonio de Solis la presenza di palazzi nella selva. Gli esploratori giunti sull'onda del romanticismo vaneggiarono e vagheggiarono di una perduta Atlantide, al punto che un eccentrico conte de Waldeck, sessantenne, per due anni (1831-33) si trasferì a vivere sulla sommità di una piramide. Solo in seguito il sito fu studiato in modo scientifico, e ancora oggi gli scavi sono in corso.
Dopo diverse ore di esplorazione, affascinati tanto dalle pietre antiche quanto dalla natura, decidiamo di uscire per goderci anche il museo del sito, il cui biglietto è incluso in quello già pagato.
Passate le orde di venditori e ridiscesa la stradella fino alla biglietteria, troviamo un po' di frescura nelle ampie sale che espongono i reperti trovati a Palenque, o, in alcuni casi, la loro riproduzione.
glifi che compongono le iscrizioni |
stucchi che ornavano i palazzi |
incensieri (tantissimi, e che spettacolo!) |
l'enorme sarcofago di Pakal, con iscritta e raffigurata la sua storia e quella della città |
Finita la visita, siamo abbastanza provati. Alla fermata, che inneggia agli zapatisti, saltiamo sul primo colectivo e torniamo in città. Sul combis due campesini discutono: uno ha trovato una piccola volpe della selva (come quelle che abbiamo visto nella riserva di Calakmul) ferita, e l'ha portata a casa, messa in una scatola e coperta con panni morbidi. Ora sta chiedendo all'amico cosa possa darle da mangiare. "Come pollo!". "Pollo?". "Sì sì, pollo seria perfecto".
Appena rientrati nel pueblo, ci lanciamo in un locale per riposare un po'. Ne approfitto per togliermi uno sfizio che da giorni mi rode: che sapore la tipica bevanda chiapaneca, il tazcalate? E' un intruglio fresco con cacao, mais tostato, pinoli, achiote (annatto), vaniglia e latte. E' super dissetante e dà una bella botta di energia. Quel che mi serve per affrontare il resto della giornata nonostante il broncoscolo. Gigi si "limita" a tè freddo e una sorta di creme caramel.
Salutiamo il mayone e il testone di mayone e ripercorriamo tutta la strada principale, affollata, incasinata, colorata, piena di anime e musica e sofferenza e vita. Palenque pueblo è stata fondata nel 1567 da Pedro Lorenzo, che riunì alcune famiglie chol della zona, che vivevano secondo i loro usi tradizionali. Ancora oggi molti appartenenti alle diverse etnie native si radunano qui per lavorare o vendere i loro prodotti o far l'elemosina. E' la città (non villaggio) dove la povertà è più diffusa. Infatti si assiste a scene finora mai riscontrate qui. Ci sono bimbi, anche piccoli (4-5 anni) che puliscono le strade e raccolgono la plastica, o chiedono una monetina fuori dai negozi. Ci sono donne, e madri, che con numerosa prole fanno lo stesso, o chiedono un'offerta in cambio di una manciata di noccioline o di un braccialetto intrecciato a mano con fili colorati. Qualcosa delle richieste degli zapatisti comincia a farsi chiara, se non lo fosse stata già prima.
A un certo punto si addensa un temporale devastante e il cielo diventa nero, livido, spaventoso. Ci rifugiamo sotto ai portici della piazza centrale, come molti degli ambulanti. Ci troviamo mescolati a questa umanità varia, e siamo comunque quelli meno presentabili, più puzzolenti e più trasandati. Intanto i bimbi giocano sugli scivoli, incuranti della pioggia, mentre le madri li richiamano e loro fingono di non sentire. La scena più antica e universale della storia dell'umanità.
Passata la buriana, visitiamo la chiesa che conserva una delle tre campane originali con cui gli spagnoli hanno comunicato agli indigeni, che vivevano sparsi nella foresta, la fondazione della città. E' in corso la preparazione di un matrimonio, per cui non ce la sentiamo di entrare a disturbare.
Dopo aver sbrigato un po' di commissioni (ricarica Giga della sim messicana, acquisto batteria per il mio ciclocomputer) torniamo in hotel a recuperare bici e bagagli. Salutiamo, ringraziamo, e siamo pronti per raggiungere la stazione degli autobus ADO, gli unici che raggiungono San Cristobal (ovviamente non via Ocosingo. Ma i bandidos, a forza di rapinette e atti violenti, che ci han guadagnato, così? Ora nessuno passa più di lì... Capisco l'autarchia, ma così non è controproducente?). In stazione, che pare un aeroporto ed è ben migliore delle nostre italiane (penso a Molino Dorino o Lampugnano e mi vengono i brividi), ceniamo. Il ristorante si chiama La mona. Che significa la scimmia, malpensanti!
Poi inizia l'attesa. Ora sto scrivendo proprio dalla stazione, sono quasi le 22 ora locale e il nostro bus partirà tra un'ora. Arriveremo a destinazione domattina alle 7.40. A San Cristobal ho prenotato un ostello che fa check-in fin dalle 8 di mattina. Perfetto! L'assurdo è che negli zainetti abbiamo felpe e vestiti caldi. San Cristobal è a 2200m di quota e di notte scende sotto ai 10 gradi. Per noi sarà uno sbalzo termico come fosse l'Antartide! A breve iniziamo a smontare un po' le bici, operazione che atterrisce Gigi da ieri, quando ha scoperto le regole di trasporto. Ma così è, e così si farà. Staremo attenti ad evitare furti, e se tutto va bene, domani saremo nel cuore de la montaña.
Il Messico è fantastico e ve lo state godendo . E anche qui da questa parte del Globo ,possiamo immaginare quel bel pezzo di mondo , raccontato dalle tue parole, simpatiche e intrise da satira volpesca. Quasi si sentono gli odori e le temperature.
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