Lampang-Thoen
100km
La sera, come ogni sera, mi trovo sola, finalmente avvolta dal silenzio del cuore e della mente. Ed è questo il momento in cui, dopo aver scritto, letto, prenotato, tracciato la tappa del giorno successivo e sistemato ogni dettaglio logistico, ho modo di far sedimentare quanto raccolto per via e lasciare che metta radice, sperando dia fiore e frutto un domani. E se pure resterà lì, sopito, nel buio dell'inconscio, all'ombra della ragione, son certa che questi tesori sapranno rendermi più chiara, più luminosa. Forsanche trasparente, come certi pesci degli abissi, opalescenti nell'oscurità. La notte è il momento delle poesie che portano a casa, dei sorrisi e delle voci amiche, dei rifugi più intimi e preziosi; è l'Ogigia di Calipso, la ninfa del margine estremo, l'unico viaggio che Odisseo non osò intraprendere. Ed eccomi qui, a gambe incrociate, con parole in grembo e gli occhiali da Pavese che sono proprio ma proprio un bel regalo di Franco.
Come ogni notte mi attardo nel libo V dell'Odissea, e come ogni mattina il rincoglionimento è grave; qui vendono medicamenti più o meno magici, più o meno naturali, per ogni male. Ma non ne ho trovati per l'insonnia, anzi, ai thailandesi piace tantissimo bombarsi di caffeina in ogni forma ed energy drink cattivissimi. Potrei, certo, comprare i numerosissimi edibles che vendono nei frequenti negozi in cui si comprano fumo e affini. Ma poi devo pedalare e se mi stono troppo è un problema: il mio cervellino grinzoso deve essere ben funzionante, altrimenti ci andiamo di mezzo in due.
Recupero un doppio caffè solubile in reception, dove si stupiscono di quanta caffeina e zucchero io possa ingerire in un solo colpo, e torno in camera dove Gigi si sta pacificamente calando le sue fette preimburrate (le vendono così, tipo pane in cassetta, ma già spalmate di quel che si vuole: burro, latte condensato, creme varie...) con aggiunta di marmellata in tubetto di plastica tipo dentifricio. E' la sua colazione classica in questo viaggio. Il tutto accompagnato da succo di frutta superchimico dai colori improbabili. Ma chi sono io che mangio pesce secco piccante e gelatine blu mixati, per giudicare?
Io per oggi ho in mente una cosetta che Gigi ancora non sa. Ci attende una tappa di trasferimento, per spezzare su due giorni i 210km che ci separano da Sukhothai, la prima capitale di un antico regno siamese, e non c'è molto da vedere, se non strada, colline e altra strada. E anche all'arrivo ci aspetta un anonimo motel ad un incrocio di stradoni, affacciato alla stazione di benzina con 7-Eleven e KFC annessi. Una 'mmericanata insomma. E sono poco meno di 100km, abbastanza piani. Allora perchè non fare una breve deviazione per vedere un tempio che, stando a quanto dice la guida, è bellissimo stratosferico imperdibile guai-a-chi-non-lo-visita?
A Gigi la propongo cautamente, toccandola pianissimo. Proprio ieri sera lui sosteneva che "da noi le chiese son tutte diverse, e contengono opere diverse di epoche diverse, mentre qui i templi son tutti uguali! I Buddha son tutti uguali!". Ho cercato di spiegargli che anche qui ogni edificio, ogni statua e ogni affresco sono differenti, in stili spesso lontanissimi tra loro nello spazio e nel tempo, ma noi non abbiamo gli strumenti culturali per cogliere ogni dettaglio e sottigliezza. Mi ha dato ragione, ma son convinta che a casa racconterà che ogni giorno l'ho sottoposto alla visita di mille wat tutti uguali per due mesi. In ogni caso, accetta con solo qualche rimostranza la deviazione.
Siamo pronti a partire... Ma il monsone ha deciso che no, è presto ancora. Piove, forte, fortissimo, si allaga tutto. Mi sembra bene attendere un po', visto che siamo ancora in camera al comodo. Faccio qualche foto. Io mi accorgo di avere un'abbronzatura veramente improbabile, e che i piedi son talmente bianchi che accecano come catarifrangenti, e sembrano quelli di un'altra persona.
Finalmente l'intensità della pioggia diminuisce, e resta solo goccioline e acqua vaporizzata. Usciamo nell'aria fradicia, sotto ad un cielo bianco come il wat stile Tempio bianco di Chiang Rai. Pure il Buddha ha aperto l'ombrellino per ripararsi dal monsone.
il reperto di oggi... Ovviamente viene con me |
Dopo qualche arzigogolo tra stradine di campagna e stradoni che portano a Bangkok, raggiungiamo Ko Kha, vivace cittadina di mercati contadini, polli arrosto fin dalle prime ore del mattino e bancarelle di frutta e verdura, montagna di uova e anche galli vivi, tenuti sotto a grossi cesti di vimini rovesciati a mo' di gabbia. Ricompaiono anche le carrozze trainate da cavalli, come quelle di Lampang. Portano i turisti al tempio dove stiamo andando anche noi. Provo l'ebbrezza di superarne una. Oh, che potenza il velocipede volpizzato, la volpe pedalante, il complesso zampa-ruota!
Ed eccoci al Wat Phra That Lampang Luang, davanti a cui si estende un ampio mercato di paccottiglia religiosa, candele, offerte, statue di gusto discutibile, merchandising per thai di dubbia moralità, cibo e una marea di venditori di biglietti della lotteria. Qui son diffusissimi, ci sono ambulanti ad ogni angoli che vendono la sorte. E anche le catene di supermercati e i grossi marchi usano come strategia di marketing quella del gioco a premi ad estrazione. Qualsiasi prodotto, dai noodles istantanei alle ciabatte, dalle ricariche telefoniche al caffè freddo, dà la possibilità di partecipare a qualche lotteria. Per non parlare dei servizi come l'oroscopo quotidiano (ci sono dei maghi cinesi famosi che se ne occupano pure in Tv, come il nostro astrologo Fox -nomen omen), anch'esso legato poi a un'estrazione che fa vincere denaro o gioielli d'oro.
Pare che qui in Thailandia il furto sia cosa molto rara, ma, per sicurezza, entriamo uno alla volta a visitare questo luogo sacro e denso di storia ed arte.
Qui si trovano diverse strutture religiose di grande interesse, tra cui quello che, con ogni probabilità, è il più bel tempio di legno del periodo di Lanna di tutta la Thailandia settentrionale. Almeno così ho letto. Il wihan luang è un edificio aperto sui lati che si incontra appena in cima alla scalinata con naga, superato il portale istoriato.
Risale al 1476 ed è considerato il più antico edificio in legno che si sia conservato nel paese. Il maestoso santuario presenta un tetto di legno a tre piani sorretto da colossali pilastri in teak ed è decorato da dipinti murali delle storie delle vite precedenti del Buddha, risalenti all'inizio del XIX secolo, realizzati su pannelli lignei e disposti lungo il perimetro interno dell'edificio.
Il grande edificio a pianta quadrata e con guglia, subito dietro, è in legno dorato e custodisce una statua del Buddha del 1563, mentre il tempietto accanto è coevo al santuario, 1476. Il chedi, in stile Lanna, è alto 45m ed è del 1449 e restaurato nel 1496. Altre strutture intorno risalgono ai primi anni del secolo XVI e conservano sorprendentemente ancora tracce degli affreschi originali, tra più antichi in Thailandia. C'è anche un tempietto del XIII secolo, con tanto di camera oscura in cui è possibile ammirare chedi e santuario. Peccato che siano ammessi solo gli uomini... Maledette donne che han scelto di essere impure in quanto mestruate!
Nell'arboreto all'esterno del cancello meridionale hanno sede tre minuscoli musei, di quelli nei quali si entra senza scarpe perchè la distinzione tra laico e religioso è molto labile. Ci sono oggetti inerenti le festività celebrate nel tempio, una svaria di statue del Buddha di ogni forma e dimensione, monete, banconote, effigi sacre, scatole e ciotole d'argento per noci di betel, lacche e altri prodotti d'artigianato, manoscritti e ceramiche.
Si dice che il piccolo wat suchadaram qui presente sorga dove un tempo si trovava la coltivazione di meloni (dorn dow) di Mae (madre) Suchada, pia donna del posto. Durante una carestia Mae Suchada (no battute sul nome, grazie) donò a un monaco di passaggio un melone dalla forma insolita. Quando lo aprì, il monaco scoprì all'interno una grande gemma verde e, grazie all'aiuto di Mae Suchada -e all'intervento divino di Indra- la gemma assunse le sembianze del Buddha. Gli abitanti del villaggio, però, sospettando che l'amicizia tra monaco e Mae Suchada fosse troppo intima (d'altronde lei Suchada) decisero di decapitare la donna. La sua uccisione, tuttavia, provocò un'altra carestia e gli abitanti, pentiti del gesto violento, costruirono un tempio in suo onore. Oggi il Buddha di smeraldo è conservato proprio qui.
Sudata, bisunta, sull'orlo del coccolone da calore (nel frattempo è uscito un sole leone feroce che azzanna le tempie) esco per dar modo a Gigi di godere di tutta questa meraviglia, con le sue storie e le sue leggende, l'oro e il sangue. Lui esce dopo due minuti di numero. "Tutti uguali questi templi". E si imbroncia perchè è già mezzogiorno e dobbiamo pedalare ancora 80km... Gli chiedo se abbia appuntamenti nel pomeriggio/sera... Anche perchè dove stiamo andando veramente ci sono la pompa di benzina, il motel e due negozi, e nulla più! Così ci mettiamo a pedalare seriamente... E tireremo dritto fino alla meta, a Thoen, senza soste nè riposo. Egli ha fretta. La mia schiena, piegata e dolorina controvento, un po' meno, ma via andiamo, corriamo, voliamo ai nostri 15km/h con Eolo contro e le colline piccole piccole ma sufficienti a rallentare ulteriormente.
Seguiamo la strada che collega Lampang a Tak (nome fantastico: Taaaaak!); non la faremo per intero: domani la lasceremo per piegare verso Sukhotai, tra le colline. Intorno il sipario verde di boschi e campi è ben steso sull'orizzonte. Qui è tutto un susseguirsi di alture e parchi nazionali: a ovest quello di Mae Ping, a est Si Satchanalai e Mae Wa. Sui rilievi piove, si vedono colonne d'acqua a scroscio che creano una cortina bianca. Ma non qui, per fortuna. Qui solo vento in faccia e una discreta fatica nel trascinare le terga larghe della Signorina Felicita. La luce cambia spesso: ora si incupisce, perchè pare che il monsone stia calando in valle, ora invece torna, brillante, a rischiarare tutte le tonalità del verde e dell'azzurro. A tratti, quando si scollina, si apre allo sguardo un breve orizzonte di campi ai piedi dei colli. Risaie. Un milione. Lanna.
Le catene del Khun Tan e del Phi Pan Nam dominano la scena e a tratti pare vogliano richiudersi sulla strada. Io sono abbastanza agli sgoccioli, le salitelle continue controvento imporrebbero una sosta per la schiena, ma Gigi continua ad avere una fretta del demonio e allora via via via rapidi come gamberetti lessi ricurvi chini a ciucciare il manubrio. Dopo quelli che sembrano un milione di kilometri, e invece sono 100 precisi, arriviamo al piccolo paesino di Thoen, sul fiume Wang. A noi è comodo fermarci qui perchè proprio qui si diparte la strada che porta a Sukhotai, e la salita da affrontare è subito all'inizio, quando le forze sono ancora fresche. Inoltre ci sono tutti i servizi necessari per dormire e cenare, quindi va benone. Prendiamo possesso di una casetta in motel marcione, ma costa poco e il caffè domani è gratis. Da queste parti l'inglese è un grande sconosciuto. Doccia, minilavaggio a mano dei vestimenti sudolenti, e via a far la spesa che è ora di cena e abbiamo sia un 7-Eleven, che costa ma ci scalda i piatti pronti, sia un Lotus, catena piuttosto diffusa in cui si trovano prodotti freschi di ottima qualità. Quando esco dal supermercato, vuoi per il caldo umido che mi investe, vuoi per le colline, le risaie, le palme, i banani e un generico aspetto di giungla, per una frazione di secondo mi trovo spaesata. Ma dove sono? Ah già, il Sud Est Asiatico. Sì, la Thailandia. Nei viaggi, quando sono stanca, a volte mi capita, magari nei risvegli improvvisi nel cuore della notte, o quando il cervello è con il pilota automatico e le gambe girano sui pedali a fatica, e si diventa bestiacce grame da soma, animali da fatica, l'asino di Rosso Malpelo, ecco in quei momenti capita che io non sappia dove mi trovi. Faccio confusione, mi sovvengono tutti i luoghi dove sono stata, tutti insieme, in una Babele di toponimi che nemmeno vi dico. Sono i segni precoci di qualche patologia mentale? Direte: ce ne sono anche altri, più evidenti. Lo penso anche io. In ogni caso, DI SOLITO so dove sono. E quando non lo so, è una bella metafora esistenziale, una "experience". Quando si dice perder la bussola...
Stabilito che siamo in Thailandia settentrionale, ma ormai di nuovo quasi centrale, chè la capitale sta a meno di 500km da qui (ma noi passeremo alla larga da Bangkok e dal suo traffico, questa volta), prenoto l'alloggio per domani, a Sukhothai. Ma non nella città moderna, che non ha molto da offrire, bensì al parco archeologico, 12km fuori dal nucleo urbano attuale. Intorno alla zona archeologica ci sono hotel, ristoranti, negozi e tutto ciò che serve a noi. L'idea è quella di arrivare nel pomeriggio e visitare direttamente le rovine, anche perchè domani è sabato e, se la guida dice il vero, restano aperte fino alle 21, con tanto di illuminazione scenografica. Il paron della guesthouse, che si trova proprio DENTRO al parco archeologico, mi ha già scritto, confermando la prenotazione (10 euro per location spettacolare, due letti matrimoniali e bagno privato... Vitoon Guesthouse. Domani scopriamo se si coabita con varani o scimmie). Tra l'altro domenica è il compleanno del re, Rama X, ed è festa nazionale, che viene però posticipata a lunedì per concedere al popolo le brioches e il weekend lungo. Pare sia una festività molto sentita, al punto che si continuano a celebrare anche i compleanni dei sovrani ormai passati a miglior vita. Ci sono concerti, processioni, funzioni ai templi, e si consolida così un sentimento di appartenenza nazionale molto forte, rappresentato proprio dalla figura del re. Che compie 72 anni! Dalle foto che si vedono ovunque non si direbbe... Sarà che è figlio del monarca più ricco al mondo e ha ereditato 70 miliardi di dollari. Per il altro il furbone ha fatto trasferire questa sommetta sui suoi conti privati e nominali, mentre prima erano beni della Casa reale e quindi patrimonio nazionale. Ma perchè rischiare di dover condividere qualcosa, quando può essere tutto suo-suo? Comunque chi offende il re, al trono dal 2016, con il reato di lesa maestà rischia fino a 15 anni di carcere. Inutile dire che questa legge è sfruttata dall'elite militare e nobiliare che controlla il paese per reprimere dissenso ed opposizioni senza nemmeno doversi sporcare le mani.
27/7
Thoen-Sukhothai (vecchia)
116km
Oggi tappa da incorniciare, perfetta proprio! Faticosa ma non devastante, bellissima per i paesaggi attraversati e per il sito storico incredibilmente affascinante che ci attendeva all'arrivo. Il monsone ci ha solo sfiorati, il vento pure, le salite si sono fatte addomesticare e la strada si è lasciata accarezzare dal nostro lieve passaggio, mentre la buccia verde verde di questa terra ci faceva largo un colpo di pedale dopo l'altro.
Tutto è cominciato bene fin dal mattino: oltre al caffè solubile, che ormai sono diventata bravissima a dosare come un alchimista (ci sono anche le incognite latte in polvere e zucchero di canna, oltre all'esatta quantità di acqua perchè non sia brodaglia dishwash o troppo forte), c'erano anche degli antichi biscotti alla crema di caffè, ottimi da inzuppare in quanto già zuppi di umidità. E così partiamo ben carichi, quasi un'ora prima del solito: oggi ci aspettano più di 110km, di cui i primi di salita, e poi un parco archeologico da visitare. Non c'è tempo da perdere!
Durante la notte, e nelle prime ore del mattino, ha piovuto. Infatti tutto è fradicio e sulle colline intorno grava una corona di nuvole bassissime, bianche e azzurrognole. Ma fa un caldo già che sembrano due. La temperatura non è mai incredibilmente alta, ma l'umidità rende l'aria irrespirabile e crea un muro di caldazza attraverso cui ci si deve far largo come nuotando.
Riprendiamo la strada di ieri e ne percorriamo una manciata di centinaia di metri a ritroso, per imboccare la secondaria che lascia la valle e si arrampica sulle colline. Oggi passeremo tra i parchi nazionali Si Satchanalai e Mae Wa, che proteggono ampie aree di foresta che varia a seconda dell'altitudine per composizione di fauna e flora. Certo è che qui, a esser fortunati, si potrebbero vedere pure tigri, orsi, diversi tipi di cervi e un'infinità di uccelli (in effetti un po' di coucal si son palesati... Sono cuculi dalle ali rosse, detti anche paduli biplani rubri). Nel momento in cui lasciamo la valle, succede quella magia che è una sensazione mista di curiosità e adrenalina, piacere nel portarsi fuori dalle rotte facili e battute e consapevolezza che costerà fatica, come sapevano Callimaco e Frost.
Ed eccoci qua, subito a spingere in salita, su rampette ora secche e bastarde ora più tranquille, in un continuo su e giù, sempre più e sempre meno giù. Ci sono numerosi gruppi di operai, soprattutto donne, che stanno iniziando a ripulire i bordi delle strade, con decespugliatori e roncole. Tutte ci sorridono e salutano forte, e sempre rispondo loro "Hello!". Di solito loro ribadiscono con ulteriori "Hello!". Una, invece, l'ultima che incrociamo, consapevolmente o meno dice solo: "Goodbye". A parte l'inevitabile citazione dei Beatles, mi vien da pensare che questa sciura sappia a cosa stiamo andando incontro, a differenza nostra che affrontiamo queste alture con l'ottimismo dell'ignoranza. Che poi è la vera chiave di volta per affrontare l'esistenza. Non sappiamo davvero cosa ci aspetta, speriamo il meglio, e quel che arriva poi si accetta. Se sapessimo già tutto da subito non credo resisteremmo a lungo senza suicidarci. D'altronde Elpis, la speranza, rimane sul fondo del vaso di Pandora.
La prima seria serie di salitelle è abbastanza cattiva e ci costringe a usare subito il rampeghino. "Il cuore rallenta, la testa cammina" cantava Faber, e così accade. Si procede pianissimo, con un sforzo immenso ma lento, quasi, e solo quasi, immobile. E' una tensione prolungata, le fibre dei muscoli sono contratte allo spasmo. Ma senza fiatone, senza pulsazioni alte. Con la bici carica e 100km al giorno per due mesi, se affrontassimo in cronoscalata tutte le salite esploderemmo in fretta. Invece il segreto sta nella lentezza. Non fast, but far recita il famoso adagio. Adagio, appunto. In questi momenti, dove l'equilibrio è precario, si percepisce ogni vibrazione della sagomatura degli pneumatici sul terreno. Si sentono i sassolini, la sabbia, le increspature infinitesimali della strada, le chiacchiere delle formiche, le risatine mormorate delle foglie fra loro. E tutto diventa uno, nell'affinata percezione delle cose attraverso i sensi così concentrati.
Ad un primo spiazzo prendiamo fiato. Non è una strada panoramica in senso turistico, non ci sono belvedere o affacci. La giungla monsonica si intravede dietro a se stessa, quando gli alberi si aprono un poco per far spazio ad altri alberi. Infiniti. Una distesa, un tappetto di rami e linfa densissimo, interrotto solo dai profili dei monti.
Qui non ci sono paesi, e nemmeno villaggi. Qualche casa isolata, e nulla più, segnala la presenza di umani che abitano questi luoghi. Mi colpisce in particolare una sorta di capanna del guardiano dei porci. l'Eumeo thailandese che custodisce maiali neri magri magri magri, ossuti e polverosi. Eumeo ha sì e no 10 anni. Anche Eumeo è ossuto e polveroso, e ha lo stesso guardo triste e rassegnato dei porci che cura. Condivide con loro i pochi anni e la consapevolezza della sofferenza
Dopo ancora tanti e tanti strappi in salita, finalmente, arriviamo a scollinare. Ci attende una lunghissimissima discesa, che è tale per tendenza, ma si sostanzia di continue gobbe e saliscendi, questa volta più scendi che sali. Intorno, foresta. Foresta fitta, e viva, tutto un frullare di ali e di zampe, un brulicare di insetti. Vedo bruchi ciccioni e rossi lunghi come piccoli pullman, e farfalle enormi e coloratissime che volano tutte storte e appesantite dalla loro brevità, e libellule grosse come biplani. Si sente talora anche qualcosa di più grande muoversi nel folto di tronchi e liane. La tigre? L'orso? Qualche pirata fuggito dalla Malesia? Proseguiamo in silenzio, rispettando la sacralità di questo tempio della natura.
Man mano che si scende, la vegetazione si dirada e a tratti lascia spazio a radure coltivate. Ricompaiono anche villaggi e bancarelle in legno a bodo strada dei venditori di funghi e frutta, ortaggi e legname. Intorno, da ogni parte, colline cupe sferzate dalla pioggia. Tre casette, due banchetti, un negozio minuscolo, una stalla con fienile, un tempio coloratissimo e un tempio crematorio (sono uguali ai wat normali, ma hanno il camino lungo lungo e stretto, come una ciminiera); così son fatti gli agglomerati. Tra uno e l'altro, 10 o 15km di foresta fitta.
Torniamo alla fine in valle, ma dall'altra parte delle colline. Le ultime alture paiono zanne di una bocca sdentata, di una bestia antica e ormai innocua, ma memore di un passato feroce. Davvero hanno forme stranissime questi monti, soprattutto quando isolati. Paiono scogli, massi erratici, pezzi di roccia sgretolata, tenuta insieme e protetta dallo sfaldarsi solo da radici di piante abbarbicate su ogni sasso.
altarino al passo con bibite |
Ultime discese ed eccoci nella regione di Sukhothai, culla del primo cuore, della radice più antica della cultura siamese. Qui sono disseminati numerosi siti archeologici, molti dei quali patrimonio Unesco. E proprio verso il più importante di questi ci stiamo dirigendo.
Ma prima non vuoi una solenne benedizione del monsone? Un grosso temporale ci precede di qualche minuto, lasciando l'aria gonfia di acqua e una spanna di fango a terra, giusto per farci infradiciare e inzaccherare. Un altro arriva poco prima che ci si fermi per fare una sosta-pranzo, E lo evitiamo in gran parte, approfittandone anche del 7-Eleven per ricaricare la nostra Sim thai, che dopo 30 giorni (e ci siamo quasi) scadrebbe. L'abbiamo pagata 999 baht (25 euro, da dividerci), ora ne bastano 200 (5 euro, sempre da dividerci) per avere un altro mese di connessione illimitata. Troppo avanti anche in questo i thailandesi!
Ripartiamo per tuffarci in una zona rurale a vocazione agricola. Sono gli ultimi 40km di pianura che ci separano dalla meta. Qualche tempio, campi coltivati ad aironi-cicogna, un po' de "l'angoscia che dà una pianura infinita/ hai voglia di me e della vita/ di un giorno qualunque, di una sponda brulla/ lo sai che non siamo più nulla", per citare Guccini, ed eccoci a Sukhothai. Ad indicarlo, prima ancora dei cartelli, sono alcune vestigia di ciò che fu una delle primissime città stato del paese.
Dopo qualche foto di rito alle più isolate rovine, che restano fuori dal parco archeologico vero e proprio, facciamo check-in nella guesthouse prenotata ieri, che sta proprio all'ingresso del sito, tra museo e biglietteria. Ci accolgono due anziane, madre millenaria come Morla, la tartaruga de La storia infinita, e figlia ormai ben in là negli anni pure lei. E' una casa tradizionale, la loro, con tanto di mobili in legno e divieto di entrare con le scarpe, riadattata per l'accoglienza dei turisti, vista la posizione benedetta. Nei 10 che costa la doppia con bagno privato, è compresa pure la colazione. E che si vuole di più? Lasciamo le borse in camera, le bici nel cortile sul retro, e, cambiandoci il meno possibile, siamo già fuori di nuovo, per visitare le rovine che abbiamo già pregustato arrivando. Decidiamo di muoverci a piedi, anche se qui va alla grande il noleggio di bici (o veicoli elettrici di ogni forma e natura): abbiamo bisogno di riacquistare la postura eretta.
Pur essendo patrimonio Unesco, il biglietto, per i turisti, costa solo 100 baht. Diciamo che è una politica diversa da quella, per esempio, messa in atto dal Messico, dove l'ingresso per i siti più importanti, per gli stranieri, costa sui 50 euro (come a Chichen Itzà), uno sproposito per il costo che ha lì la vita. Qui, no. A scapito di chi? Di lavoro ce ne è, per mantenere un luogo del genere, così esteso, immerso nel verde, con i giardini curati filo d'erba a filo d'erba. Stavolta Gigi decide di gettare il cuore oltre l'ostacolo e accompagnarmi nella visita. Temevo di no. Abbiamo pedalato 116km, e non i piano, ed ora fa un caldo atroce perchè è spuntato il sole. Di cuore ce ne vuole proprio tanto, e una fiera passione, per trovare le forze per gettarsi tra antiche vestigia e statue annerite dal tempo. Ma i resti dei 21 edifici e i 4 grandi stagni, racchiusi all'interno delle mura, appaiono talmente suggestivi da risultare imperdibili.
Cominciamo dal pezzo forte, il Wat Mahathat: portato a termine nel XIII secolo, è l'edificio più grande della città vecchia. Le sue mura in mattoni si estendono 200x206 metri, e sono circondate da un fossato; il tutto rappresenta il confine dell'universo e l'oceano cosmico. Le guglie del chedi presentano il celebre motivo decorativo a bocciolo di loto e alcune imponenti e mute statue del Buddha si ergono tra le colonne in rovina dell'antico santuario. Tutt'intorno si trovano ben 198 chedi più piccoli, decorati e costellati di effigi in pietra mangiata dalla muffa che giocano a nascondino. Questo labirinto denso di mistero e meraviglia era, con ogni probabilità, il fulcro amministrativo e spirituale dell'antica capitale.
Dopo esserci persi ad ammirare questo spettacolo di permanenza nel tempo e decadenza insieme, grandioso e malinconico come tutto ciò che fu, ci spostiamo al Wat Si Sawai, poco a sud. Si tratta di un santuario buddhista del XII-XIII secolo con tre torri in stile khmer e un fossato. In origine era un tempio hindu costruito dai khmer.
Proseguiamo nella visita, provati dal caldo ma non vinti. Gli alberi offrono ombra e ristoro, e regna un silenzio surreale. Le orde di turisti che, a quanto pare, prendo d'assalto questo luogo, proprio non si vedono (per fortuna). Incontro invece un canide mio simile, volpe o lupo delle fiabe che sta quieto nelle chiazze di luce che filtra tra i rami.
In questa atmosfera di pace assoluta, sotto ad un cielo che ci sorride di luce ed azzurro, ci portiamo al Wat Sa Si, tempio semplice nello stile classico di Sukhothai che sorge su un'isola collegata da ponticelli in legno. Il chedi, la statua aggraziata del Buddha e le colonne del santuario in rovina, in questa luce lentamente si fa morbida e allunga le ombre, riflettono la sacralità magica del luogo. Potrei stare qui un milione di anni, e diventare anch'io di pietra, anch'io una statua corrosa dal tempo, e anch'io sorridere in eterno.
Prima di andarcene salutiamo il monumento bronzeo al terzo sovrano di questo regno, Ramkhamhaeng, quello che introdusse la prima forma di scrittura thai, davanti a cui si apre una larga fontana. Intorno, ma fuori le mura del sito, bancarelle, una fiera, un concerto, persone sedute nei prati che attendono l'ora più dolce. Noi, però, siamo sazi così, e vogliamo conservare fresco il ricordo di queste pietre che tante storie hanno da raccontare, e tutte preferiscono tacerle.
Il tempo di una doccia e di un attimo di respiro davanti al ventilatore, ed è ora di uscire a cena. Scegliamo un ristorantino thai davanti al mercato notturno, e stasera mi lancio in nuovi assaggi: kale piccante saltato con peperoncino, aglio e spezie, da accompagnare al riso, e la famosa papaya salad, tipicissima anche quella. Il primo è una sorta di bieta, ottima, e la seconda un misto tra insalatona e macedonia, ma piccantissima da incendio! Però che squisitezza! Gigi invece rimane sul classico e si cala una frittatona di verdure con ketchup e quello che, finora, è il suo piatto prefe: pollo, verdure e anacardi, da accompagnare al riso.
Domani ci concediamo una tappa più breve del solito: 85km, la distanza che ci separa da Kamphaeng Phet, città murata con ricco passato e zona archeologica anch'essa. Poi ci aspettano 3 giorni che sto studiando: al vaglio ci sono numerose possibili alternative per percorrere 340km circa che ci riportano all'altezza di Bangkok, ma rimanendo più a ovest. Poi sarà quasi tempo di imboccare la penisola di Malacca, e lì le alternative andranno letteralmente ad assottigliarsi. E saranno mare cristallino e spiagge paradisiache.
28/7
Sukhothai-Kamphaeng Phet
90km
Durante la notte, che in parte passo leggendo, piove. Piove forte, a secchiate, e il rumore delle gocce violente sulle tettoie è velato appena dal ronzio del ventilatore. Gli alloggi economici spesso mancano di aria condizionata, cosa che per altro a me non dispiace affatto, e danno un tocco esotico in più a queste notti caldo-umide, notti tropicali di gridi di uccelli sconosciuti e schiocchi di gechi. Ma stanotte piove, ed il monsone fa tacere tutto. Solo, in lontananza, qualche latrato di cane randagio. Fratelli canidi, vi sento.
La mattina, per fortuna, il cielo è chiaro e la luce fa evaporare in fretta l'acqua che ha infradiciato questa grassa zolla di terra chiamata Thailandia. La guesthouse mette a disposizione le solite polveri di caffè, latte e zucchero, cui dar fuoco con accompagnamento di biscottini sesamo e cocco antichi quanto il sito archeologico di Sukhothai. Ma si annegano nella broda calda e fanno calorie, che qui stiamo diventando secchi secchi e le ossa ischiatiche (dette anche ossa del culo) cominciano a pungere sul sellino. Sleghiamo le bici (ieri ho perso, senza accorgermi la chiave di una catena, e poi l'ho ritrovata, schiacciata nel fango del cortile, per puro caso. Qualche divinità ha guardato giù, magari una di quelle minori, quelle mezze scimmia, senza scarpe, un hanuman strillone...). Oliamo le catene. Carichiamo i bagagli. Impostiamo la traccia. Avviamo Komoot. E via, tra un goodbye e un saluto thai delle sciure che son già lì armate di scopettino e stracci per pulire la stanza.
I primi 20km sono su stradine polverose, sterrate, battute da mezzi agricoli carichi di contadini appesi a grappoli sui cassoni, tutti coperti con passamontagna e cappelli larghi, e baracchini dei venditori ambulanti che si affrettano a raggiungere i mercati. E' un via vai di umanità indaffarata, una pista di formicaio, ma di fondo regna una tranquillità di campagna. Ci colpiscono delle foglie di loto immense. Qui ogni stagno, ogni fosso, è invaso da queste piante acquatiche e dai fiori, bianchi o rossi, che si aprono all'alba e si richiudono a mezzogiorno. Ma guardate queste foglie! Di simili ne ho viste solo in foto o nei giardini botanici, in serra. Son quelle su cui un uomo può stare in piedi galleggiando. Pazzesco! E qui crescono spontaneamente.
Dopo questo primo tratto rurale, la strada si butta su un'arteria più ampia, ma per nulla trafficata. E' la 101, come la "carica" dei dalmata, che collega Sukhothai nuova (che noi abbiamo espunto in quanto poco interessante) a Kamphaeng Phet, la meta di oggi. Passa torno torno al parco nazionale di Ramkhamhaeng, abbarbicato su un gruppo di colline isolate che raggiungono i 1200m, che nasconde cascate, foreste, fauna e fiori selvatici ma pure evidenze storiche di insediamenti di epoca Sukhothai e alcuni siti religiosi molto venerati. Il sito del Parco lo definisce "interessante per storici e teologici". Sempre nella difficoltà di distinguere il laico dal religioso, ma pace.
Noi veniamo colpiti dal lucore candido del Wat Mai Charoenphol, dove vanno a pregare e a rendere omaggio con offerte gli studenti della vicina università sportiva di Khiri Mat e i contadini che chiedono piogge perchè la diga Tha Din Dang, che serve per le risaie, sia sempre ben colma.
Proseguiamo, rapidi, in piano, senza pioggia nè vento (un classico, quando già la tappa è corta. Gli imprevisti calano solo nelle giornate già impegnative). Un monumento segnala che stiamo lasciano la valle di Sukhothai, con il sito storico patrimonio Unesco, per entrare nella regione di Kamphaeng Phet, anch'essa con zona archeologica patrimonio Unesco.
A Phran Kratai, unica città degna di tale appellativo di oggi, facciamo una lunga sosta. A mezzogiorno siamo già a buon punto, mancano circa 30km e possiamo goderci un gelato (Gigi tre) e qualcosa di fresco da bere. Quando stiamo per ripartire ci raggiunge un umarell sui sessant'anni, in t-shirt di una squadra di calcio locale e jeans, occhiali da vista dietro qui lampeggia uno sguardo incuriosito. Ci approccia in nuon inglese, chiedendoci da dove veniamo, dove andiamo, un fiorino!, e poi si presenta come "the owner", il paron, il proprietario di tutta la baracca (ovvero di una pompa di benzina, un minimarket, un bar-caffè della catena Amazon -che non c'entra con Bezos-, un paio di negozietti e un bagno pubblico). Inizia quindi a snocciolarci tutti i suoi viaggio, enumerando con orgoglio le volte in cui è stato a Parigi (4), a Londra e in Scozia (3), a Berlino, Praga e Copenaghen (1), Budapest (1, brutta, bassi standard a suo avviso), Venezia, Roma, Bologna e Milano (1, 20 anni fa, ma vuole tornare). A quanto pare anche qui chi ha un po' di soldini da spendere fa viaggi lunghi, e il Grand Tour europeo è motivo di vanto e segnale chiaro di benessere economico. Il nostro conta, racconta, riconta, e poi vuole offrirci un caffè nel suo locale, perchè dice di saper fare il vero espresso italiano (ma pure i beveroni dolci con panna e ammennicoli come si usa qui, se preferiamo). Però il cielo, finora velato, ma chiaro, sta assumendo un aspetto inquietante e minaccioso, di quelli che purtroppo conosciamo bene. "La stagione dei monsoniiiiii/ ci ha rotto un po' i maroniiiiiii" per parafrasare Faber. E allora ringraziamo, salutiamo, e ci rimettiamo in sella, sapendo che presto o tardi ci si rovescerà in testa l'ira di Zeus adunatore di nubi.
l'umarell seduto con i dipendenti, mani sulle ginocchia, è The owner |
Appena ripartiti succede qualcosa di magico. Uno di quei doni che fa la strada, quando la si accarezza senza fretta, raccogliendo tutto il bene e il male che porta, come un fiume d'Eraclito. Ad un semaforo rosso ci fermiamo, e veniamo approcciati da un uomo che vende coroncine di fiori freschi dall'aroma dolcissimo e inebriante, che vengono usate qui come profumatori delle auto o come offerte nei templi, sugli altari e alle statue. All'inizio credo voglia solo qualche spicciolo, che mi appresto a dargli. Ma rifiuta, e mi dà una ghirlanda, poi un'altra per Gigi. Insiste a che le prendiamo, continuando a ripetere, sorridendo, "Welcome to Thailand!". Di primo acchito mi vien da pagarlo, perchè quello è il suo lavoro, vende ghirlandine aulenti. Ma lui proprio non vuole saperne. Piuttosto è curioso del nostro viaggio, che gli racconto mentre il semaforo torna rosso più volte. Ed è contento così. Gli chiedo se posso scattargli una foto, e lui acconsente, tutto felicione, e si mette pure in posa. Mi accorgo solo dopo, riguardando lo scatto, di quanto i suoi vestiti siano strappati e malconci. Ma non li ha voluti i miei soldi. E mi vergogno pure di averglieli offerti, pensando, con il mio imprinting da farang colonialista, che il denaro sia un mezzo universale per ripagare qualcosa o qualcuno. Lui, però, voleva farci un regalo. Non venderci un prodotto. E le mie banconote risultano poca cosa, allora, e sporca, di fronte a una gentilezza così, letteralmente gratuita, da essere umano a essere umano. Non da venditore a cliente. Grazie, tu, che ci hai regalato un momento indimenticabile. Non so come ti chiami. Ma ti voglio bene.
un tempio crematorio, ve ne parlavo ieri |
Dopo l'attimo eterno del dono (questa è la permanenza nell'impermanente, e qualcuno leggendo queste parole, capirà), ripartiamo. Davanti a noi una cotina grigia di pioggia, un muro, una cascata feroce si avvicina. Si alza il vento. Le prime gocce. Tocca trovar riparo, questa è una bufera cattiva! Ci buttiamo sotto ad una delle numerose pagodine che costellano i bordi delle strade, e offrono riparo dal sole e dalla pioggia. Qui c'è anche un signore dalla pelle di cuoio, involtolato in un k-way usa e getta, usato molte volte e mai gettato, che si sta accendendo una sigaretta. Ha parcheggiato il suo carretto pieno di rifiuti e bottiglie di plastica vuote lì accanto. E' uno di quelli che raccolgono l'immondizia dalle strade e la rivendono come materia prima. Ne ho visti tanti nei paesi più poveri di tutti i continenti. Ed eccoci qui, Gigi, io, lui, le bici, tutti stretti sotto alla tettoia, in attesa che si plachi la violenza del monsone.
Dopo raffiche di vento e secchiate di pioggia, pian piano, anche questo temporale passa e va oltre. Se ne va l'omino del carretto, e pure noi ci prepariamo a ripartire. Prima, però, Gigi vuole lasciare la sua ghirlanda di fiori appesa alla pagoda che ci ha salvati dal fortunale. Dice che è una cosa buddhista. Mettiamola così: io non m'intendo di queste faccende spirituali, e sono per la libera espressione personale. "Ognuno vada dove vuole andare/ ognuno invecchi come gli pare/ ma non raccontare a me che cos'è la libertà" canta Guccini, e son d'accordo.
Gigi-Sconsy |
Mancano meno di 20km alla meta. Nel giro di un nulla riemerge il sole dalla coltre di nubi e fa un caldo terrificante, a causa dell'umidità. Si sguara, si sguascia, ci si scioglie. Ma eccoci, la zona nord delle rovine di Kamphaeng Phet si lascia intravedere attraverso i fitti alberi. Noi andiamo oltre (qui l'alzato è poca cosa, e sparso su un'area vastissima). Puntiamo alle rovine all'interno della città murata, che si trovano vicino al centro della città moderna.
Questo luogo, fertile di pianure chiuse tra il fiume Ping e i monti del Tenasserim (il confine birmano dista solo una cinquantina di km) ha visto fiorire un insediamento già nell'XI secolo, ed una ricca città murata nel 1347, come avamposto meridionale del Regno di Sukhothai. Qui si tentò una disperata difesa dagli attacchi del Regno di Ayutthaya, organizzata dal re in persona, che, sconfitto, si sottomise e divenne vassallo del vicino più potente. Nei secoli successivi, Kamphaeng Phet non perse il suo ruolo di avamposto, per Ayutthaya, questa volta a nord, difendendo i territori dai frequenti attacchi di Chiang Mai e del Regno di Lanna (fino alla metà del Cinquecento, quando questo cadde sotto dominio birmano). Per i tre secolo successivi la città fu spesso assediata e presa dai birmani, e poi ripresa, sempre con la violenza, da Ayutthaya. La pace giunse solo con la fine delle guerre anglo-birmane, quando il Myanmar divenne parte dei possedimenti coloniali dell'India britannica.
Kamphaeng Phet significa "mura di diamante". E la cinta di 6 metri che proteggeva il cuore della città è ancora visibile, insieme al fossato difensivo.
Quando arriviamo, il parco archeologico pare chiuso. E invece, trovato l'ingresso, ci si fa incontro una gentilissima addetta che ci spiega che oggi, essendo il compleanno del re, non si paga l biglietto di ingresso. Hurrà! Viva il re! Pace se è deprecabile sul fronte libertà di espressione e diritti umani! Fa risparmiare 100 baht (2.5 euro) di biglietto!
Lasciamo le bici in custodia alla gentile fanciulla, che ci prega di fare attenzione perchè ci sono lavori in corso all'interno del sito (e infatti si cammina nel fango profondo). Per la particolare storia del luogo, qui si trovano monumenti del periodo Sukhothai (XIV secolo) con aggiunte del periodo di Ayutthaya (fino al XVI secolo), in un mix diacronico di stili che non ha eguali. Tutta quest'area, in passato, era abitata da monaci della setta gamavasi ("che vivono in comunità" -e si distinguono da quelli aranyavasi, "che vivono nella foresta" che stavano più a nord).
Il primo edificio in cui ci si imbatte è il Wat Phra That, riconoscibile per il grande chedi a base circolare in mattoni e laterite circondato da colonne, nel tipico stile di questa città
Si giunge poi al Wat Phra Kaew, antico tempio adiacente a quello che doveva essere il palazzo reale (ed oggi è in rovina). Qui l'attenzione è attratta soprattutto dalle numerose statue di Buddha, seduto, sdraiato o in piedi, corrose dalle intemperie e annerite dalla muffa. La guida dice che richiamano in qualche modo le opere di Alberto Giacometti. A me danno più che altro l'impressione del "sic transit gloria mundi", del mementhomo e della pulvis. Eppure aveva ragione quel poeta che scriveva "non omnis moriar". Non moriremo del tutto. L'arte è ancora qui, secoli dopo, e ancora racconta, pur nel silenzio sacro di questo lucus, una storia dalle radici profondissime.
Riprendiamo le bici, passiamo accanto a un Santuario di Shiva, dove si trovava una statua della divinità ora custodita nel museo locale, dopo che un missionario tedesco ne aveva rubato mani e testa, nel 1886, per poi restituire il maltolto; ci spostiamo al centro della città nuova, accanto al Wat Khu Yang, bel tempio del XIX secolo.
Eccoci dunque alla nostra casa per oggi, il ThreeJ Guesthouse. Offre i classici bungalow, questi senza bagno, ma in un contesto, diciamo, particolare. Si tratta di un cortile labirintico stracolmo di piante, statue, mobili in legno, vasi dalle forme più curiose e decorazioni imrpobabili. Nell'insieme, piacevolissimo. Non ci sono Minotauri, nè Tesei perduti e armati, nè Arianne dal filo che è amore e catena. Certo, si condivide la stanza con un geco grosso come un caimano... Ma tutto questo costa 4 euro a notte, che si vuole di più?
il campanello è un campanaccio |
Wow
RispondiEliminaTi farei volare sulle onde
RispondiEliminaSulla vita come un'altalena
E parlare pure con I pesci
Come una sirena
Ti vorrei insegnare l'equilibrio
Sopra un mare che è sempre tempesta
Per vivere il tuo tempo
E starci bene dentro
Questo gioco è un gioco di equilibrio
Devo solo farci un po' la mano perché
Stare nel mio tempo è viverlo da dentro
Sorrisi ora
Guardami
Ti direi "hai ancora voglia di nuotare in questo mare?"
Aspettiamo l'aurora quando i più bei frutti saranno di tutti
Ti farei volare sulle onde
Sopra un mare che è sempre tempesta perché
Vivere il tuo tempo
È un equilibrio dentro
Sorrisi ora
Guardami
Ti direi "hai ancora voglia di nuotare in questo mare?"
Aspettiamo l'aurora quando I più bei frutti saranno di tutti
Ti direi "hai ancora voglia di nuotare in questo mare?"
Aspettiamo l'aurora quando I più bei frutti saranno di tutti
Vivere il mio tempo è viverlo da dentro
Vivere il mio tempo è un equilibrio dentro
Fonte: Musixmatch
Compositori: Federico Renzulli / Pietro Pelu'
Testo di Vivere il mio tempo © Emi Music Publishing Italia Srl