domenica 7 luglio 2024

7-9. Lopburi, città delle scimmie e il Khao Yai, santuario di flora e fauna della foresta monsonica









5/7
Ayutthaya-Phu Khae
104km

La tappa di oggi si può dividere in due parti: i primi 67km, da Ayutthaya a Lopburi, sono stati tranquillissimi, in un susseguirsi di stradine rurali, da un locus amoenus all'altro, tra villaggi, templi, vacche dalle orecchie lunghe e una calma che nemmeno si riesce a descrivere. I successivi 37km, invece, sono stati impegnativi per la scelta logistica di "farle brevi" (strada e pianificazione): siamo finiti su uno stradone a 8 corsie trafficatissimo, con camion e sciami di motorini: una sciura su scooter scassato quasi mi acciacca, e questa volta in pieno, dritto per dritto, roba da lasciaci la pellaccia. La prima parte, infatti, deriva da studio minuto fatto ieri sera, mentre la seconda da avventatezza e voglia di arrivare chè ci stava prendendo un coccolone da calore.

Sveglia presto, colazione in guesthouse e mille saluti alla sciura (anche lei settantunenne), che a colpi di traduttore approccia Gigi appena mi allontano: "Quanti anni hai?", "Ti consideriamo come uno di casa nostra", "Porta con te il mio ricordo", "Vorrei venire anche io in viaggio con te". Salutiamo il ragazzo in fattanza perenne (si sta già girando la seconda della giornata, e sono le 8 del mattino) e pure un ingegnere di Latina che si concede qualche strusciata di troppo con la signora (ieri pensavo fossero una coppia, invece no, è semplicemente un ospite arrivato da poco, un ospite laido e brancicone). Dopo ulteriori saluti ancora anche in mia presenza ("Già ci mancate", "Vi amo tanto"... Eh sciura, si contenga!), partiamo.

Uscire da Ayutthaya si rivela abbastanza facile: passano veicoli ma non creano ingorghi, e comunque il volume del traffico è piuttosto ridotto. Le abitazioni si fanno più fatiscenti e più rare, lasciando presto spazio ai campi e alle risaie. A segnare la fine della città questo esplicito monumento ai soldati che difesero la capitale, e ai loro elefanti (che sono un po' l'equivalente dei nostri cavalli, in termini di sfruttamento in vari ambiti, dal lavoro alla guerra).



Seguiamo il corso del fiume Lopburi, effluente del Chao Phraya, che congiunge Ayutthaya all'omonima città, dove faremo una sosta di metà giornata. Si susseguono una quantità esagerata di edifici sacri, buddhisti e induisti, con le più curiose statue di animali. Qui, ad esempio, il portale con 'o pesc'.


Di pari numero sono le scuole, che paiono troppe e troppo grandi per la quantità di popolazione; ma qui i bambini sono ancora tanti in percentuale, soprattutto rispetto a noi. E poi ho l'impressione che sia un luogo dove ciò che è pubblico, della comunità, sia più grande, bello, curato e offra servizi inimmaginabili rispetto a ciò che è privato. Le abitazioni sono modestissime, a volto poco più che capanne. Le scuole e i templi sono grandi e decorati e ben tenuti. Guardate questi parchi gioco e palestrine lungofiume, che 






Procediamo nella pace agreste, solo qua e là punteggiata da sonnolenti villaggi e cascine; a volte passa un triciclo a motore con pedana e tettuccio: lui guida, lei tiene stretto un casco di bananine, oppure lui è nel campo a raccogliere l'insalata e lei attende sul trabiccolo. Si vedono anche diversi contadini al lavoro, curvi nelle risaie scaglie d'azzurro e fango, segnalati dai tipici cappelli di foglie di palma o bambù. Molti sono di etnia mon, giunti qui dalla Cina oltre 2500 anni fa, e per primi convertitisi al buddhismo Theravada. 




Nel cortile di un tempio pascolano vacche dalle corna larghe che probabilmente non son vacche ma bufale. E non è una bufala. Mi stupiscono sempre queste commistioni che a me, imbevuta di cultura cattolica, specista e antropocentrica, sanno di dissacrazione. E invece! 
Nelle fattorie, invece, ci sono le mucche asiatiche, quelle con la gobba, la giogaia (la pelle molla suttogola) e le orecchie lunghisssssime... Insomma gli zebù.




zebù o bos taurus indicus


le case sono spesso a palafitta


Ogni tanto usciamo dalle stradine di campagna per percorrere qualche kilometro su strade secondarie ma più ampie. Qui svettano a tratti dei Buddhoni enormi, rivolti ad arterie ancor più grandi, e che quindi ci mostrano sempre le terga. Questi sono dunque i culi di Buddha. Mi interrogo, inevitabilmente, sull'etimologia dell'espressione, ormai desueta ma molto in voga qualche anno fa, "Cazzo di Buddha". 



Trovo splendida e impeccabile l'analisi di Roberta Lippi che trovo sul suo blog (69giri.wordpress.com):

"Ma com’è cazzo è ‘sto cazzo di Buddha?
Proviamo a procedere facendo un’analisi iconografica.
Per quanto riguarda il Buddha grasso (quello cinese, per intenderci), ci troviamo in presenza di una pancia talmente prominente da far supporre che l’organo sessuale sia molto molto piccolo, nascosto o inutile. Nel caso del Buddha del resto dell’Asia, quello magro, indiano, siamo al cospetto di un caso interessante: non esistono esempi famosi di Buddha nudi e, qualora esistano rappresentazioni prive di tonaca, hanno le mani nella posizione del Dhyana, posizione che copre le parti intime e che rappresenta la meditazione. Oserei dire una condizione lontana da quella che ci invita a imprecare.
Escludo che l’esclamazione sia rivolta a Claude Challe, avendo lui iniziato a far danni con le sue compilation ben dopo la nascita dell’espressione in oggetto.
Ricordo, su una splendida spiaggia thailandese, una grotta stracolma di lingam. Si trattava di falli di legno intarsiati e colorati di tutte le dimensioni, portati come omaggio a una principessa che la mitologia voleva uccisa da un naufragio. In realtà si trattava di un atto scaramantico che praticavano i pescatori nei confronti del mare. La cosa particolare è che quella grotta rispondeva a un culto musulmano e non buddista o induista. Quindi niente da fare.

Il tema è dunque, forse, la necessità di offendere un dio, ma non il “mio”. Insomma ne sparo uno a caso, occupandomi di ferirlo laddove fa più male.
Cos’è dunque il cazzo di Buddha? Un fallo divino. Uno sbaglio. E come tale inaccettabile e sgradito.
Per questo imprechiamo, ma bestemmiamo qualcosa che non c’è. Come il cazzo di Buddha, appunto."



Siamo a una ventina di km da Lopburi e si rende necessaria una breve sosta per bere qualcosa di fresco; ci fermiamo in uno dei numerosissimi e fornitissimi negozietti dei villaggi, attirando l'attenzione di tutti; ma è un'attenzione bonaria, di curiosità positiva. Scambiamo persino qualche parola in mezzo inglese, tra sorrisi e wai (il gesto di saluto a mani giunte con piccolo inchino).






Imbocchiamo una strada dove il guardrail è sorvegliato, per centinaia di metri, da altari curatissimi e pieni dettagli, offerte nelle offerte, statuine sopra a statuine.





Poi, quando il caldo comincia a cuocerci le cervella e gli occhi paiono dover esplodere come pop-corn, eccoci finalmente a Lopburi, la città delle scimmie. Abbiamo letto tutte le precauzioni da prendere nei confronti di questi animali assai molesti, ma in loco scopriremo di non essere pronti. Lopburi, chiamata anticamente Lavo, ha una storia che affonda le sue radici in un passato antico. Nei dintorni ci sono reperti addirittura risalenti all'Età del Bronzo, ma la città vera e propria fu fondata solo tra V e VII secolo della nostra era. Fu un'importante città-stato nel periodo Dvaravati (VI-X secolo), quando i mon estesero la loro influenza in Thailandia centrale; tra il VI e il XIII secolo pagò tributi al Celeste impero. Anche Marco Polo ne parla! Tra X e XIII secolo divenne stato vassallo dell'Impero Khmer. A metà del XIV secolo, però, un re siamese sposò le figlie dei re di Lavo (Lopburi) e Uthong, altro territorio mon, unendo i regni e fondando quello di Ayutthaya (1350). Lentamente perse così importanza, fino a quando il re Narai ne fece la capitale estiva (metà Seicento). Alla morte di questo sovrano, la città andò in rovina, per poi essere nuovamente ristrutturata e abbellita nel XIX secolo. Noi lasciamo le bici legate fuori dal tempio Prang Sam Yot, per poi ripensarci appena le scimmie iniziano ad avvicinarsi minacciosamente, attirate dalle borse (che sanno aprire). Il custode ci fa segno di portarle da lui (su per le scale), che può curarle. Non ce lo facciamo ripetere due volte.




Quando paghiamo il biglietto ci viene anche consegnato un sottile bastone di bambù per tenere a bada le scimmie. All'inizio ci pare un'esagerazione, ma all'ennesimo inseguimento che subisco (e alzare la voce o mimare calci le fa solo incazzare di più: mostrano i dentini aguzzi e rizzano il pelo, queste lercione) mi rendo conto della sua utilità. Qualcuno dirà: serviva il Biri, il cavalletto in carbonio che ora va tanto di moda. Ma la cannetta di bambù fa uguale, sia chiaro. Rimango comunque incantata a guardare le scimmie che giocano nell'acqua e nuotano in grossi vasi di pietra: fa caldo pure per loro! Corrono, saltano, si inseguono, fanno capriole, si tuffano... Non stanno ferme un istante! Tanto sono belle, quanto malintenzionate e furbissime.





Il Prang Sam Yot, o Santuario delle tre cime (e non dei tre macachi, chè son molto molti di più) è un tempio prima buddhista (XIII secolo) poi induista, poi di nuovo buddhista dal XVII secolo in stile khmer. Le tre torri, collegate da corridoi, rappresentavano la Trimurti induista. Ci sono resti di decorazioni e qualche statua, tra cui quella di un eremita/Buddha che medita. Se dobbiamo dirla tutta, questo luogo merita soprattutto per la percentuale di scimmieria mescolata a quella di storia.


bracalone per il tempio e bastone per i macachi



ma lo scroto pendulo?

Prima di proseguire la visita ci spostiamo verso una zona di mercato, accanto alla ferrovia, perchè siamo a un passo dal colpo di calore. Gelato, litri di acqua fredda e un attimo di relax... Interrotto subito dal furto con destrezza di un macaco ladrone, che punta le bici sotto il mio sguardo attonito, in due salti le raggiunge e strappa con prepotenza la lucertolina di gomma che porto attaccata al manubrio dal 2019, quando, attraversando gli States nel viaggione da San Francisco a New York, un omone soprannominato "buttcrack" me la regalò, nella sua fattoria spersa in Illinois, come portafortuna. Era legata stretta con una fascetta! Ma l'urfida simia con una zampata la strappa, se la caccia in bocca e fugge su un albero. Un venditore di una bancarella, con un bastone, cerca di farla scendere, ma la bestiaccia, per tutta risposta, inghiotte la preda di plastica. Mi spiace per il macaco, che avrà digestione difficile, ma un pochinino spero che esca per traverso dal lato lungo. Nel tempo che ci concediamo in sosta, assisto a numerose scene di latrocinio da parte delle scimmie, che frugano, rubano, agguantano e arraffano. I locals non ne possono più, evidentemente, e qualche volta un'educativa bastonata parte, ma non usano mai troppa veemenza. Qui si crede che siano seguaci del dio Hanuman cui Rama donò questa terra (stando al Ramayana). Far loro del male potrebbe avere ripercussioni gravi sul karma. Ma l'esasperazione è tale che si propongono progetti di trasferimento coatto di gruppi di scimmie in zone boschive.

il gentile ragazzo della bancarella che ha tentato di recuperare il maltolto

la colpevole


la stazione ferroviaria

Quando mosche, insetti vari e scimmie iniziano a rendere poco riposante la sosta, ci spostiamo al vicino tempio San Phra Kan, il luogo più venerato e inscimmiato di Lopburi. Vi dico solo che i guardiano sono armati di fionda. Si tratta di un edificio moderno (1951) che sorge davanti una antica e ormai crollata torre khmer.




La statua principale all'intero ha il corpo a quattro braccia di Vishnu, nello stile khmer di Lopburi, e la testa di Buddha nello stile di Ayutthaya, ed è coperta di foglioline d'oro offerte dai fedeli. Ma i doni di chi vuole acquistare meriti sono molteplici: vedo con i miei occhi donne portare fiori e collane di pedali (e fin qui), ma pure bevande come Fanta e Coca Cola, aperte sul momento e con tanto di cannuccia, banane e frutta varia (per la gioia delle scimmie)




Dopo la visita, decidiamo di proseguire e avvicinarci ancora un po' alla meta di domani, il meraviglioso parco nazionale Khao Yai. Per accorciare i tempi, puntiamo dritti ad un minuscolo agglomerato che sembra avere diverse strutture, dista meno di 40km e ci porta sotto ai 90km la tappa successiva. Purtroppo, però, la via breve è uno stradone infernale, larghissimo e lunghissimo, tutto traffico e mercati scombinati, veicoli che vanno a caso ovunque, camion giganteschi che sferragliano a velocità improbabili e motorini che zigzano tranquillamente anche contromano. Insomma, tocca stare attentissimi, e comunque una sciura in motorino quasi mi centra, facendo una manovra zingaresca che non tiene assolutamente in conto la mia presenza. Poi si scusa anche, eh. Ma a momenti mi manda al mondo dei più. Il paesaggio intorno comincia un poco a mutare, e compaiono delle colline aguzze, ora nude di roccia a picco, ora coperte di una manto rigoglioso di vegetazione tropicale. Domani, infatti, qualche salitella ci attende.




ghiaccioli a palline ne abbiamo?

Arriviamo finalmente a destinazione che siamo bolliti, dal caldo e dall'attenzione richiesta dalla strada. Prendiamo alloggio nella prima struttura che troviamo. E' un motel a ore veramente trucido, gestito da una ragazzina che avrà 18 anni forse, e dà proprio l'impressione di un bordello di bassa lega per camionisti annoiati e senza troppo da spendere. Ma ce lo facciamo andare benone. Oltretutto la fanciulla non ci chiede i passaporti (figuriamoci) e non ci dà nemmeno la chiave della stanza, che tanto si chiude dall'interno. Non è previsto uscire.




E in effetti fuori c'è ben poco: i baracchini dello street food son tutti già chiusi, e rimangono giusto i cani randagi e i lampioni a sorvegliare la strada. Ricorda certi scorci di periferia peruviana. Facciamo giusto in tempo a procurarci cena e colazione in un supermercatino, per poi goderci lo spettacolo del diluvio monsonico dalla finestra. 
Passo la sera a smadonnare contro il sito della Guardia forestale, nel tentativo (ancora adesso dall'esito misterioso) di prenotare una piazzola per la tenda all'interno del parco nazionale. L'idea è quella di alloggiare nel centro del santuario per flora e fauna, e fare anche un safari guidato di notte, alla ricerca di grandi felini, elefanti (e altre scimmie ovviamente). Non vedo l'ora, fremo proprio! E chissà che stellata si può ammirare da questa foresta grande tre volte Singapore, completamente priva di inquinamento luminoso! Mi preoccupano solo un po' le sanguisughe, che a quanto pare abbondano... Ma ce ne faremo una ragione. 


6/7
Phu Khae-Parco nazionale di Khao Yai (Lam Ta Khong campground)
93km

Scrivo da dentro la tenda, circondata dall'oscurità più totale del cuore della giungla. E' un buio a cui non siamo più abituati. La notte è densa di suoni: su tutti le cascatelle del torrente che scorre a pochi metri da noi. Poi i grilli, o qualsiasi cosa siano questi insetti che si parlano fitti fitti (e direi di cose serissime, dal tono). In lontananza, tuoni. A volte qualche lampo lungo come una ferita squarcia il cielo, ma il temporale da monsone non è ancora sopra di noi. Qui si vedono le stelle. Tantissime, luminosissime, che ammiccano di una risata fredda e bonaria. Magari sono già spente da secoli, ma il loro fremito argenteo ancora ci giunge come una eco lontana. E poi si sentono, radi, i gridi degli uccelli notturni, che fanno abbastanza rabbrividire perchè richiamano qualcosa di arcano e selvaggio, pericoloso come il bosco delle fiabe, quello dove vengono abbandonati i bambini. In questo parco ci sono anche animali pericolosi. Ci sono gli orsi, le tigri e i giaguari. Ma se ne stanno lontani, nel fitto degli alberi, dove le nuvole basse si adagiano tra i rami, vestendo di bruma le chiome.

Per spiegare come siamo finiti con la nostra tendina nel mezzo del parco nazionale più antico della Thailandia dobbiamo tornare a stamattina. Dopo un sonno breve e profondo, ci alziamo presto per sfruttare più ore possibili pe una tappa che si preannunciava ricca di incognite: arriveremo al parco ad un orario sensato per visitarlo? Ci permetteranno di campeggiare, nonostante io abbia solo prenotato e non pagato la piazzola, visto che si può fare solo allo sportello in banca? Riusciremo ad arrampicarci su per i 20km di salita che portano dall'ingresso al centro visitatori entro le 18, orario limite per prenotare un safari notturno? Tutte queste incertezze mi mettono ansia, perchè ci tengo a fare tutto quel che ho programmato e mi dispiacerebbe dover rinunciare. Quindi colazione alla magnaporco nella camera del motel a ore (stanotte si son sentite un paio di auto arrivare e, dopo poco (precoces?) andar via) e siamo pronti per ripartire, dopo il solito rituale della crema solare e dell'antizanzare, che nell'insieme contribuiscono a renderci unti e appiccicosi ancor prima di saltare in sella. Percorriamo il vialone centrale del paese, che definire così è un eufemismo: è un agglomerato di baracchini e capannette intorno ad grosso incrocio; per fortuna i canetti dormono ancora, mentre dalle bancarelle giù sale il fumo di fritto, che sa di aglio e piccante e spezie che non so. Incrociamo un furgone che vende le bombole di gas, che spara musica e annunci a tutto volume, facendo anche da servizio sveglia per chi stesse ancora riposando. Intorno, come già ieri, la pianura è interrotta a tratti da isolate colline, aguzze come denti, nude di roccia chiara, o coperte di linfa e foglie. Nell'aria umida e già calda che trasforma tutto in acquario o miraggio, comunque, sfumano all'azzurro. Intorno, vicino, campi di mais e frutteti.






La traccia che ho preparato ieri ci porta presto via dallo stradone (comunque deserto) verso la pancia delle colline, che intorno si alzano sempre più a picco, quasi chine ad osservarci passare. Mi ricorda, questo paesaggio mosso e verdissimo di piante tropicali, alcune immagini del viaggio in Messico. Come nello Yucatan, anche qui si schiatta di caldo e di umidità.






Le salitelle cominciano a essere più frequenti. Sono rampe brevi, ma ripide. Sono le prime che affrontiamo con le bici a pieno carico. Per di più, quest'anno, tra impegni nei weekend e maltempo, non ci siamo nemmeno gran che allenati in salita. E quindi soffriamo. Perchè, si sa, il ciclismo è uno sport di merda. Quando poi il velocipede ha il culo grosso e le zavorre, e ci sono millemila gradi e un tasso di umidità del 100%... Fate voi. Ai vari tempietti ci fermiamo a "pregare", rifiatare, decedere. Alcuni sono veramente particolari! A questo, per esempio, sono appesi numerosi abiti tradizionali ma solo femminili.



Dopo i primi 35km di saliscendi Gigi ha bisogno di una pausa (io scalpito e fremo dalla fretta di raggiungere il parco, ma non lo do a vedere. Non è giusto e non ha senso). Facciamo sosta in un ristorantino e baretto dei numerosi villaggi che attraversiamo. Cose colorare e zuccherate fresche da bere, ghiaccioli, e un po' di ombra rinfrancano lo spirito. Pagando mi accorgo che sul tavolaccio bisunto che funge da cassa e banco macelleria c'è una scatola piena di zampe di... Oca? essiccate. Ossa un po' di pelle rinsecchita. Penso siano scarti. Invece, poco dopo, una sciura le compra tutte, e se ne va sentendosi laudare con la sua cassa di misteriose zampe mummificate. Per tenere le mosche lontane dal cibo esposto c'è una cordicella appesa al soffitto, con attaccato un pezzo di carta che cade a piombo pochi centimetri sopra alle pietanze, e la si fa oscillare come un pendolo. Geniale ma... No.



succo di lychees con pezzi di polpa di cocco, tanta roba! 



Ripartiamo e la strada serpeggia tra villaggetti dove ci sono più templi ed altari che anime. Vedo anche la prima palestra che sembra verace e autentica di Muay Thai. Non mi dispiacerebbe assistere a un incontro, e farò in modo che accada. A me piacciono molto gli sport in cui ci si picchia. Tutti. A Gigi un po' meno, infatti mi sa che a veder colare il sangue sul ring andrò da sola, quando capiterà.
Attraversiamo poi l'unica città degna di tale nome dell'intera traccia, ed è un casino infernale di traffico, soprattutto nella zona del mercato. Che si estende per l'intera area dell'abitato.







Ne usciamo illesi e abbastanza in fretta, dopo aver anche attraversato di sfroso il cortile (chiuso) di una scuola. In quanto proffa è come fosse un porto franco... No? Torniamo così nei paesini tutti templi, tra polli che scorrazzano in mezzo alla strada, capanne e qualche recinto per le vacche del sole Iperione, i sacri, gobbuti e orecchiuti zebù. Appena mi avvicino per scattare qualche foto, mi si fanno incontro e si lasciano grattuggiare la testa e il muso e il collo. Che cuori! Son proprio bestie storte però, eh, sembro io quando sto tutto il giorno al pc e poi mi lamento del dolore cervicale.










Mancano 20km all'ingresso al parco, e il caldo è intollerabile. Si sente il sole arroventare la schiena, il casco, e sembra di essere in un forno non ventilato. A ciò si aggiungono le salite, bastarde e ripide, che ci costringono a rallentare il passo. Gigi ha bisogno nuovamente di fermarsi, e tutto sommato fa bene anche me passarmi una bottiglia gelida sul collo e sulla faccia, per abbassare un po' la temperatura. Siamo quasi al coccolone conclamato.


Poi il cielo si vela un poco, e all'orizzonte si addensano nubi scure. Si vedono colonne di pioggia tutto intorno. Lampi. Tuoni. Eccolo che arriva. Inizialmente è piacevole, perchè si abbassa la temperatura. Io cerco di accelerare il passo, approfittando della frescura, per raggiungere il checkpoint di ingresso al parco prima che ci si rovesci il monsone addosso. Ci riusciamo quasi. Voliamo sotto alla tettoia dei bigliettai (che son tutti vestiti in mimetica, in quanto membri della Guardia forestale) già mezzi fradici. Ma la felicità di sentirmi dire che sì, si può entrare e sì, possiamo campeggiare nel sito designato, fa sparire metà delle preoccupazioni. L'altra metà riguarda la salita che ci attende. Sono 20km di rampette stronze. Diluvia. Gigi non ne ha più. Mi sembra cosa saggia cercare di rimediare un passaggio fino al visitor center, in cima, dove dobbiamo arrivare prima delle 18 se vogliamo assicurarci un posto per il safari notturno. Molti turisti appiedati, che raggiungono l'ingresso del parco autonomamente, fanno autostop chiedendo un passaggio in cima, dove iniziano i sentieri da trekking. Ci riescono tutti subito. Ci mettiamo così pure noi (io -che detesto fare questa cosa, perchè mi sembra di rompere i maroni alla gente onesta) a pollice in su. Ci sono molti pick-up ben grandi e con il cassone vuoto, qualcuno si fermerà... Ebbene, no. Forse perchè diluvia e nessuno vuole infradiciarsi. Forse perchè puzziamo e siamo completamente zuppi di un mix di sudore e pioggia. Forse perchè vedere le bici cariche dà l'idea che siano troppo ingombranti... Fatto sta che, dopo un po', perdiamo le speranze e iniziamo a pedalare sotto agli scrosci implacabili. Le salite sono brevi e secche, intervallate da falsopiano. Tagliano le gambe. L'aria, intorno, è talmente densa di umidità che quasi sembra di respirare acqua. 






Smette di piovere, il caldo torna ancora più feroce di prima ad azzannarci le meningi. Gigi resta sempre più indietro, vedo che per molti tratti cammina spingendo la bici. E anche così è faticoso. Riprovo con il pollice alzato, ma nulla. Si prosegue. Piano pianissimo. Così piano che a un certo punto Gigi cade, scivolando verso il guard rail che, per fortuna, frena l'altrimenti inevitabile caduta a precipizio in un burrone. Non si fa male, se non qualche ammaccatura, ma è il segnale che bisogna trovare una soluzione alternativa, anche perchè di kilometri ne mancano ancora più di 10. Insisto con il tentativo di fermare qualche macchinone. Dopo tanto fallire, inopinatamente, uno si ferma. Purtroppo non è un pick up ma un Suv. La coppia di thailandesi che ne scende si offre di portare noi e i bagagli... Ma le bici non ci stanno! Allora mi pare un buon compromesso lasciare a loro i bagagli, e farli portare al visitor center, e noi proseguire pedalando alleggeriti Carichiamo tutte le borse nel bagagliaio e le ragazza mi chiede un contatto per poterci avvisare quando e dove lasceranno le nostre cose. L'unica app che abbiamo in comune è Facebook. E via con quella. 



Saliamo e saliamo fino a un belvedere, dove Gigi, nonostante la bici scarica, sembra intenzionato a tirare gli ultimi. Lo mando a un baretto e intanto chiedo a TUTTI coloro che guidano un pick up se ci possono caricare. Ebbene, trovo una coppia di anime pie che acconsente, anche loro tailandesi. Do la grande notizia a Gigi, il quale, per tutta risposta, si lamenta del fatto che i vestiti non asciugheranno, che deve fare una lavatrice e che la Telecom continua a inviargli messaggi. Vorrei strangolarlo, perchè non mostra neanche una briciola di felicità o sollievo alla news del passaggio che ho rimediato vincendo la mia ritrosia. Glielo faccio notare. "Ma è sottinteso". E riprende a lamentarsi e borbottare. Oh, quante porte del Paradiso ho spalancate davanti a me! Intanto un guardiaparco ci approccia per dirci in thai e poco inglese che su al centro sono state lasciate delle borse probabilmente nostre. Contemporaneamente mi arriva un messaggio su FB con la foto delle sei borse e una sacca accanto al banco informazioni, con un asciutto messaggio: 7 pieces, infopoint. Ringrazio in molti idiomi. Dopo aver atteso a lungo che la coppia facesse foto e sosta al bar, ci carichiamo noi e le bici, nel cassone. E salendo salendo incrociamo anche numerose scimmie, macachi, questa volta schive perchè selvatiche e meno abituate a convivere con l'uomo. 




Una manciata di km dopo (5 dei 12 che mancano) raggiungiamo un parcheggio. La coppia si ferma qui. Oh no! Va bene lo stesso, ci hanno risparmiato un po' di fatica, ma speravamo proprio nel recapito al domicilio. Ricominciamo a pedalare, e rampa dopo rampa, raggiungiamo il centro visitatori. Finalmente! Entro, recupero le borse, poi prenoto subito il night safari Costa 600baht (15 euro) e comprende mezzo e guida privati. Direi molto bene! Chiedo anche lumi riguardo al campeggio... E' a 7km da qui. E mica in piano! Faccio un rapido tour nel museino dedicato a flora, fauna e storia del parco, per poi comunicare a Gigi che tocca pedalare ancora. Mi prima dobbiamo fare una spesina perchè può darsi che su al campeggio il ministore sia già chiuso.





mix di frutta e verdura essiccate, buonissime, ma forse, e dico forse, pensate come cibo per gli animali (erano accanto alle arachidi per le scimmie)

Sursum corda, ultima fatica di una giornata densa. E mentre arranchiamo tra muri alti e fitti di vegetazione, il miracolo, l'insperato. In una radura ci imbattiamo in un gruppone di elefanti selvatici, con tanto di cuccioli, che pasteggiano placidamente. Nel giro di poco si crea una folla di spettatori. Non è così facile vedere gli elefanti. In questo parco ne vivono circa 200, ma su una superficie immensa. A noi è capitata la buona sorte di trovarli per caso, così, a bordo della strada asfaltata che porta al campeggio. Direi che è un buon segno! Tutto trova il suo senso, quando meno ce lo si aspetta, quando si abbassa la guardia delle aspettative.




Dopo aver ammirato a lungo questo incredibile spettacolo, torniamo in sella, questa volta davvero per ultimi frulli di pedale. Qualche discesa (orrore! Domani sarà salita!) in questo tempio di linfa ed eccoci al campeggio. E' abbastanza frequentato, anche si i più vengono in auto o in moto e noleggiano qui tenda, materassino e sacco a pelo. Ci sono tutti i servizi, dallo store ai bagni alle docce (solo fredde, ma va benone). Costa 30 baht a testa, cioè 0.75 euro. Include piazzole vista torrente (ce ne accaparriamo una subito) e cervi buffi (sambar indiani) che pascolano nei prati, tra una tenda e l'altra, non di rado rovistando nei sacchetti che hanno vago sentore di cibo.





Doccia, preparazione della tappa di domani, ed è ora di salire sul pick up con panche rialzate e parapetto nel cassone, con la nostra guida. E' un'esperienza che vale il viaggio. Perlustriamo una vasta area di foresta con la torcia potentissima manovrata dalla guida tipo occhio di Sauron. Intorno regna l'oscurità fitta di suoni. Vediamo nell'ordine un lupo (o il cane del guardiano?) due dhole (volpi asiatiche) che corrono sinuose, un raro gatto leopardo (o il gatto del custode... No questo lo abbiamo visto da vicino!), di nuovo gli efelanti (ma che culo abbiamo con gli oligofanti), e un serpone verde sopra e bianco sotto che sembra fatto di caramella gommosa (ma è un crotalo piuttosto pericoloso, anche se non quanto i cobra reali che pure ci sono qui, insieme ai pitonazzi). Purtroppo niente orsi, niente binturong (che io vorrei TANTISSIMO incontrare) e niente lori lento, tanto puccioso quanto velenoso.





Finito il safari, che ci ha rinfrescato perchè la temperatura è calata drasticamente, e l'aria carica di umidità presa in auto ha fatto il suo, torniamo alla tenda, ceniamo e, mentre scrivo, si scatena il preannunciato temporale. Che ora è anche già passato.


7/7
Parco nazionale di Khao Yai-Nakhon Ratchasima
118km

Apriamo la giornata con un breve ma educativo approfondimento sui cessi thailandesi. Che uno fa tanta filosofia e gran discorsi poetici, ma poi siamo animali semplici, come ci insegna la Nothomb con la sua metafisica dei tubi. Qui ci sono ormai poche classiche turche. Vanno invece abbastanza le turche rialzate con pedana perigliosa. E non si usa la carta igienica, bensì dei doccini che stanno accanto alla tazza. Pro: la gente si lava le terga; è ecologico. Contro: nei bagni pubblici il doccino è manovrato da tutti e ciò mi inquieta terribilmente.

turca rialzata

wc con doccino

La notte trascorre inquieta, tra rumori della foresta, scrosci di pioggia con tuoni lampi che illuminano a giorno e prima il caldazzo, poi il freddo che mi costringe a indossare la felpa e a infilarmi nel sacco a pelo. D'altronde siamo intorno ai 1000m di quota (le cime più alte di questa regione montuosa raggiungono i 1300m). Mi sveglia il sole, già alto, che sta trasformando la nostra tenda in una pentola a vapore. Una nota a margine: la Quechua da 99 euro comprata al Decathlon 6 anni fa, rotta, riparata, rattoppata e maltrattata in innumeri viaggi in climi abbastanza impegnativi, ha retto anche al diluvio monsonico. Grande tendolina, sei come noi: in apparenza vali poco, ma quanto rendi!
I rumori del giorno coprono un poco quello del ruscello. Ne approfitto per stendere tutto al sole: i vestiti da bici fradici, le scarpe bagnate e infangate, l'asciugamano... Nel giro di un attimo è tutto asciuttissimo. Gioie e dolori del sole tropicale!
Smontiamo il campo, ed è sempre una gran soddisfazione, quasi un miracolo, vedere come tutto, dalla tenda al pc, dalla guida alle sciavatte stia in poco spazio, nelle borse che, richiuse, sembrano poca cosa per contenere tutto ciò che serve un viaggio così.
Mentre Gigi finisce di prepararsi, vado a buttare la poca spazzatura che abbiamo prodotto (etica del leave no trace sempre). L'immondizia va tenuta in un gabbiotto chiuso con catenaccio, a prova di animali. Ma un furbo macaco lo sa. Non è capace di aprire la porta, ma sa che gli umani lo fanno. E allora aspetta paziente, lì accanto, pronto a intrufolarsi e ingozzarsi di monnezza. Devo aspettare che se ne vada, e tutta l'operazione mi impegna un buon quarto d'ora.


macaco con farfalla a mo' di baffo... Ce ne sono tantissime, enormi e coloratissime. E altrettanti bruchi enormi e peluti che ancheggiano sugli alberi e nei prati.


Lasciamo il campeggio e torniamo sui nostri passi, ripercorrendo all'indietro i 20km che conducono ai cancello del parco. Sulla strada incontriamo di nuovo gruppi di scimmie, con diversi cuccioli giocosi, e un baretto dove facciamo una rapida colazione (caffè in polvere e barretta antica, tipo la Luisona di Benni, io. Gigi Coca-cola ghiacciata e noccioline. Prosit!). Tutto accade sotto allo sguardo serio e vagamente triste del re, le cui gigantografie campeggiano ovunque.
Scendiamo poi alla terrazza panoramica e, ora sì, ci concediamo qualche foto. E' il nostro saluto a questo parco, il terzo più grande della Thailandia, che ne conta decine, e il più antico. Prima era terra di contadini montagnini e rifugio di criminali e fuggitivi, che si davano qui alla macchia. Poi i contadini sono stati "trasferiti" e, nel 1962, tutta l'area è diventata il primo parco nazionale del paese. Dal 1984 è patrimonio UNESCO. Con i suoi 2168kmq protegge una delle più vaste foreste monsoniche dell'Asia continentale.







Dopo esserci ubriacati di discesa, di linfa, di verde e meraviglia, giungiamo di nuovo al checkpoint; subito noto che al piccolo santuario accanto all'ingresso (Chao Por Khao Yai) c'è gran movimento. Incuriosita, salgo a vedere cosa stia facendo questa folla di fedeli e noto che tutti portano offerte al minuscolo tempio (offerte che si possono acquistare in loco, perchè la fede è un terreno fertile per capitalizzare). Ci sono fiori, frutta, bastoncini di incenso, uova, bottiglie di bevande colorate e gasate, che vengono aperte e dotate di cannuccia (ma Buddha non sa bere a canna?) e... Teste di maiale. Anzi, musi. Facce. Sembrano maschere di cera. Ma sono vere. Tanto che i venditori tengono lontane le mosche agitando ventagli e fogli di carta. Dopo le offerte si suona il gong, tra distese di statue di animali di tutti i generi. Mi par di capire che si possano anche chiedere "profezie". Che storia! Rimango affascinata da questo miscuglio di macabro e sacro.








Viene poi il momento di uscire, e lasciarsi definitivamente alle spalle questo luogo incredibile. I primi 30km sono un lieve saliscendi tra hotel, resort, campeggi, ristoranti e bar che vivono della presenza di turisti presso il Khao Yai. Ho letto che queste attività, sempre più numerose e invadenti, che richiedono sempre più terreno, acqua ed energia, stanno iniziando a fare attrito con la volontà di conservazione di flora e fauna. Trovare un equilibrio tra richiesta di lavoro della popolazione e rispetto della natura è difficile anche qui.
Noi pedaliamo rapidi, fino a quando Gigi, in un moto di coraggio, decide di voler assaggiare qualche nuovo frutto. Ma non troppo nuovo. Solo quelli che almeno io conosco già. Allora andiamo di dragon fruit e pomelo, acquistati a una delle numerose bancarelle di contadini. Gigi divora entrambe le cose con la stessa voracità e lo stesso sbrodolarsi di un gibbone affamato, per poi pronunciare una frase che è un po' il suo mantra in questo viaggio: "L'è no special..." (non è speciale, non è un gran che).



Riprendiamo a pedalare dopo questa seconda colazione e i kilometri scorro rapidi sotto alle ruote. Il cielo è velato, la temperatura rimane fresca, il vento a favore, il dislivello è quasi nullo e le strade in ottimo stato, ma senza traffico, e senza troppo cani molesti. Attraversiamo una lunga fila di cittadine ciascuna con il suo enorme, vivacissimo mercato (la più grande è Pak Chong), e poi villaggi rurali, tra bancarelle un po' spoglie arrugginite e zebù e pollame in giro a zonzo per le strade.








Poi l'orizzonte si spalanca davanti a noi. Siamo quasi giunti al cospetto del lago Lumtakong, e alle zone paludose intorno, tutte riserve di pesca e rifugio per tante specie di uccelli acquatici. Purtroppo, però, è evidente che sta per scatenarsi un diluvio prepotente: intorno si vedono colonne d'acqua correre rapide e nuvoloni neri si addensano sempre più in fretta davanti a noi. Si alza il vento, si sente qualche goccia di pioggia. Ma, per ora, è poca cosa. Le colline intorno però sono scure e le ombre delle loro sagome vagamente sinistre. Cerchiamo di affrettare il passo perchè in zona non si vede nulla che possa offrirci riparo. Attraversiamo qualche minuscolo agglomerato di capanne e palafitte, e poi imbocchiamo, per breve tratto, uno stradone (comunque piuttosto sicuro perchè ha molte corsie e una di emergenza tanto ampia da essere usata dai motorini per andare contromano)







Nemmeno il tempo di constatare che le colline boscose davanti a noi sono immerse in una nuvola e... Via, il monsone colpisce ancora. Potente, violento, inarrestabile. Le gocce di pioggia accelerate dal vento ci frustano la schiena e il viso. In un attimo siamo completamente zuppi. La visibilità è bassissima, mentre a terra si creano dei fiumi che nascondo buche e ostacoli. Per fortuna troviamo presto riparo sotto a una pagodina dove si sono rifugiati motociclisti e venditori ambulanti (lo spiedinaro ha lasciato carne e griglia sotto a un misero ombrello e tutto si è annacquato, ma a lui non importa: ogni tanto va a girare gli stecchi sul fuoco moribondo e va bene così). Ci infiliamo i k-way, perchè la temperatura è scesa di colpo, e aspettiamo che la furia del cielo si plachi un poco. Ci vuole del buon tempo, e, comunque, decidiamo di ripartire che ancora diluvia, ma meno intensamente.






Abbiamo già percorso 70km e sono solo le 14; per un attimo pensiamo di poter raggiungere la meta ideale prefissata, Nakhon Ratchasima, che dista 135km. Ma i nostri ottimistici progetti vanno in fumo non appena la traccia ci porta a lasciare lo stradone e imboccare viuzze sempre più piccole e tortuose, che poi diventano sterratissimi sentieri di campagna. Con la pioggia si è trasformato tutto in una gigantesca schiumosa pozzanghera, una fangaia molle di terra rossiccia in cui si affonda fin quasi al ginocchio. Per ampi tratti dobbiamo spingere la bici arrancando, smadonnando, maledicendo Komoot e bestemmiando "Dio e lor parenti, l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme di lor semenza e di lor nascimenti". L'acqua è tiepida e fa ancora più impressione camminarci dentro, mentre tutto si inzuppa e riempie di terra (al punto che la bici comincia a produrre rumori di sofferenza, gemendo e fischiando e scricchiolando in ogni componente). Così procediamo, piano, pedalando poco e temendo di scivolare nel fango o sprofondare in una buca. Non ho foto dei punti peggiori, anche perchè, nel frattempo, mica smette di piovere!



Poi, finalmente, torniamo su strade asfaltate, in mezzo ai villaggi. Anche qui sono allagate e si deve guadare ogni pozza come fosse un fiume, ma almeno si riesce a restare in sella e non stare con i piedi nella guazza molle brodosa.




Poi, nel giro di un attimo, tutto passa. Passa il temporale, passa il fango, passa il freddo. Il cielo si apre in un sorriso azzurro steso e le strade tornano asciutte in un attimo. Riprendiamo a pedalare a un ritmo decente, anche se questo scherzo ci è costato una buona ora di tempo e le bici sono conciate da far schifo. I freni non frenano, il cambio non cambia, in generale la bici non bicia. Al novantesimo kilometro facciamo una sosta per riempire le borracce presso un negozietto accanto a un distributore di benzina. Gigi adocchia una una canna dell'acqua (di proprietà di un ristorante che qualche siepe intorno) e ha la grande idea di lavare tutto, velocipedi, borse e se stesso. Perchè pure noi siamo una crosta di fango. Seguo a ruota, è il caso di dirlo, il suo esempio, ed eccoci ripuliti come se nulla fosse successo. Gli ultimi kilometri sono in parte su strade secondarie, dove i pastori portano le mucche al pascolo in motorino, in parte sullo stradone che conduce a Nakhon Ratchasima. Decidiamo di non portarci fino al centro città, pechè arriveremmo con il buio, ma di fermarci nella prima struttura sulla strada. Che ovviamente sta dall'altra parte del vialone a 6 corsie. Quindi facciamo come usano qui: con un cavalcavia attraversiamo e poi procediamo sfacciatamente contromano nella corsia di emergenza. Paese che vai, sguerguenza che impari. 




L'alloggio pare appena ristrutturato e pulitissimo. Infatti la signora (cinese) che lo gestisce ci fa capire a gesti molto espliciti che dobbiamo portare bici in camera, ma non dobbiamo sporcare nulla: non i muri, non i pavimenti, non i pochi mobili. Ci controlla e cura ogni nostra manovra stando sulla porta. Facciamo tutto per benino. Poi apriamo le borse e intere zolle di fango ancora umide insozzano le piastrelle. Ma ripuliamo tutto abbastanza agevolmente. Il vero danno accade quando Gigi, volendo lubrificare la catena dilavata, scopre che la bottiglina d'olio si è rotta, il contenuto si è rovesciato nel sacchetto che la conteneva, e ora sul copriletto azzurro come il Celeste impero da cui proviene la proprietaria; la quale, per l'educazione che ha ricevuto, sa che per una cosa del genere è previsto un anno di rieducazione in campo di lavoro. Gigi si demoralizza, e comincia a progettare piani di fuga, domattina, per non farsi cogliere con le mani nella marmellata. A me fa tutto talmente ridere che il dramma si scioglie in anticlimax. Poi lui, non pago, decide comunque di lubrificare la catena, e nel fare ciò, nonostante gli accorgimenti, macchia di nuovo il pavimento. E giù a ripulire. L'apice si raggiunge quando, disperato, tenendo la bottiglina di olio in mano con timore, come fosse pericolosa, mi chiede se sia il caso di buttarla via. Sembra stia parlando di una bomba a mano innescata, la sua serietà preoccupata mi fa ridere per tutta la sera.

La cena si rimedia direttamente in reception, perchè siamo sullo stradone in mezzo al nulla, ma la sciura è preparata e ha una sorta di ministore, dove una nonna sorseggia una zuppa da quando siamo arrivati (sono passate ormai due ore e mezza). Noodles liofilizzati, un piatto di riso e verdure, biscotti, semini e siamo più che a posto.


si intravede la nonna. Forse è finta

Domani passeremo per il centro di Nakhon Ratchasima, per poi dirigerci a Phimai, dove passeremo la notte dopo aver visitato il sito archeologico (dicono che sia quello in stile khmer più bello di tutta la Thailandia! Le aspettative sono alte). Poi, al posto che fare una tappona e portarci direttamente a Khon Kaen, faremo un'ulteriore deviazione a Chonnabot, paesino rurale noto per la produzione di seta. Solo il giorno successivo arriveremo a Khon Kaen, con una mezza tappa da 50km, in modo da avere il tempo per alcune faccende logistiche, tra cui lavare i vestiti lerci. Rispetto alla pianificazione sulla carta ci stiamo prendendo una giornata in più ma... Siamo qui per questo. Riappropriarci del tempo e dedicarlo a esplorare ciò che via via la strada ci offre.


2 commenti:

  1. mai mai scorderai
    l'attimo, la terra che tremo'
    l'aria si incendio'
    e poi silenzio
    e gli avvoltoi sulle case sopra la citta'
    senza pieta'

    chi mai fermera'
    la follia che nelle strade va
    chi mai spezzera'
    le nostre catene
    chi da quest'incubo nero ci risvegliera'
    chi mai potra'

    Ken sei tu fantastico guerriero
    sceso come un fulmine dal cielo
    Ken sei tu il nostro condottiero
    e nessuno al mondo adesso e' solo

    Ken sei libero
    l'unico, l'ultimo angelo
    Ken sei l'energia
    l'azzurra magia magia magia magia
    stella dell'Orsa Maggiore
    stella su di noi
    guerriero vai

    Ken sei tu col pugno tuo piu' forte
    tu che hai messo k.o. la morte
    Ken sei tu l'acciaio nelle mani
    tu la mia speranza nel domani

    mai mai scorderai
    l'attimo, la terra che tremo'
    vai vai tu vivrai
    giorni felici
    stella dell'Orsa Maggiore
    stella su di noi
    guerriero vai...

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