"Dall’ampia ansia dell’alba
svelata alberatura.
svelata alberatura.
Dolorosi risvegli.
Foglie, sorelle foglie,
vi ascolto nel lamento.
vi ascolto nel lamento.
Autunni,
moribonde dolcezze.
moribonde dolcezze.
O gioventù,
passata è appena l’ora del distacco.
passata è appena l’ora del distacco.
Cieli alti della gioventù,
libero slancio.
libero slancio.
E già sono deserto.
Preso in questa curva malinconia.
Ma la notte sperde le lontananze.
Oceanici silenzi,
Astrali nidi d’illusione,
Astrali nidi d’illusione,
O notte."
Oggi è stata una giornata così, di cieli enormi, dentro e
fuori, e di vento, dentro e fuori, e di ombre in corsa a gara con la luce,
dentro e fuori.
Mi è stato chiesto, ed è una domanda un poco banale, vero,
ma lecita, cosa mi ha colpito di più finora, di questo viaggio. Della
Bielorussia sicuramente mi resterà l’azzurro sconfinato, oceanico, spalancato
alla scena e bello di quella bellezza democratica davvero, come il profumo del
pane e i sorrisi.
La mattina è partita a rilento; nonostante mi fossi svegliata
presto per far colazione evitando Iannina, la vecia mi attendeva al varco, già
pronta a riattaccar bottone nel suo discorso unilaterale. Ha compilato di nuovo
le mille scartoffie, perché ieri aveva sbagliato e un errore può costare a me
problemi al confine (perché, per uscire dal paese, bisogna dimostrare dove s’è
dormito ogni notte –come in Serbia). Poi mi ha chiesto i prezzi di tutti gli
hotel in cui ho dormito, per capire se le sue tariffe fossero aggiornate o
meno. Le ho spiegato che a Minsk avevo pagato così poco perché era un ostello
con un disegno, per la disperazione. Una stanza con tanti omini e tanti
lettini. Fatica comunicativa fin dalle 7 del mattino. Poi ha attaccato con la
faccenda dei pomodori, che ora mi guardano tristi dal comodino dell’hotel. Già
ieri me li aveva offerti, e ne avevo mangiati alcuni. Stamattina mi ha fatto
capire che voleva regalarmeli tutti. TUTTI. Nel panico ne ho mangiati altri, lì
così, a buffo, insieme al the e alle mattonelle di wafer con i bielorussi fanno
la colazione e i pavimenti delle case. Wafer da parquet.
Ma nulla, Iannina ha insistito a tal punto che sti pomodori
li ho dovuti caricare sulla già appesantita Signora. Baci (quasi in bocca, alla
russa, oh-my-gawd), abbracci, e via, per le grandi strade di Krupki.
Foto di rito con la locale statua di Lenin, che fa sempre la
sua figura.
E sul fiume Bobr (?), che passa per il paese.
Poi mi sono buttata sulla strada che, con qualche ricamo e
ghirigoro, m’avrebbe portata fino alla meta. C’è voluto ben poco a capire che
sarebbe stata una tappa breve, sì, solo 100km, ma intensa. Il vento soffiava
teso in direzione esattamente contraria, mentre il percorso procedeva a salite
dalla pendenza antipatica. E’ stato così tutto il giorno. A ciò si aggiunga
che, essendo rimasta su strade secondarie, l’asfalto era a dir poco disastrato.
I pomodori sono sopravvissuti a stento, il mio soprasella anche. Tutto un
gazpacho mestissimo.
Però, va detto, i panorami son valsi la fatica. I boschi
altissimi si alternano ai campi, verdi o dorati di spighe, e tutto assume le
linee morbide della collina; pare un gigantesco corpo di femmina-natura madre
che riposa quieto nel sole.
Ed eccoli i cieli immensi, modellati dal vento, stesi a
perdita d’occhio a consolarci tutti senza chiedere nulla in cambio.
Ho percorso al contrario la via seguita dalla Grande armata
napoleonica in ritirata. Ma senza neve e senza fango. Senza sangue. E’
difficile immaginare che una terra tanto dolce e apparentemente benevola possa
trasformarsi in quell’inferno, d’inverno. Un inferno bianchissimo e gelido, in
cui si è già morti, ancora vivi, e si può veder la propria anima sollevarsi di
qualche centimetro sopra alla pelle, ormai mal sovrapposta, vapore tiepido che
se ne va.
Difficile immaginare, ma così è stato, e tra questi solchi e
questi alberi riposano migliaia di francesi, finalmente in pace. Ma il sole,
freddo anche in estate (oggi c’erano 16 gradi) non scalda.
Ho percorso ancora un tratto breve di autostrada, ma questa
volta ho deciso di uscirne il prima possibile: le raffiche di vento rendevano
estremamente pericolosi gli spostamenti d’aria dei camion, che ogni volta mi
spostavano di diversi metri a lato.
Pian pianino, con tante soste per far riposare le braccia e
la schiena, sono arrivata a Orsha.
Questa città è stata conquistata e distrutta dall’armata di
Bonaparte, e medesima sorte ha subito durante la Seconda Guerra mondiale
(20.000 persone, per lo più ebrei, sono finiti dei lager costruiti subito fuori
dal centro abitato). Il Dnepr, che qui scorre denso di blu profondissimo, ha
visto queste case e questa gente morire e rinascere dalle macerie. Sempre le
chiese e il convento si specchiavano nelle sue acque, riflesso di guizzo
candido nel verde. Quel che le due guerre patriottiche non son riuscite a fare,
lo han fatto Chernobyl e le basi militari russe. Negli ultimi 30 anni
l’incidenza dei tumori è aumentata del 170%, benché i media nascondano questa
drammatica realtà. In effetti la città è tappezzata di manifesti di cliniche. E
la gente muore nei letti d’ospedale, avvelenata dall’aria e dall’acqua.
Si dice che qui ad Orsha i russi abbiano per la prima volta,
nel ’41, utilizzato la loro segretissima arma, la ben nota Katyusha. Insomma,
qui si vantano primati di tutto rispetto. Di tutta morte, sparsa a piene mani e
ricevuta in cambio, come un boomerang impazzito, un karma malefico che non
perdona e punisce i figli e i nipoti. I greci avevano capito tutto, basta
legger le tragedie; le colpe dei padri si lavano nel sangue dei discendenti,
generazioni dopo, e ciò che pare caso sfortunato è preciso tributo di anime che
deve essere pagato. Il conto si presenta, prima o poi, e non si sfugge. Anche
se innocenti. Non si sfugge mai.
Con questa consapevolezza, nella speranza di non finire
anch’io nel lunghissimo scontrino dei Fati, ho attraversato il centro della
città, in direzione Orsha Tourist Complex.
Stasera è questa la mia casa. Si tratta di un bosco. Nel
bosco ci sono: una piccola palazzina. Un ristorante. Un night club. Una sauna
altrettanto equivoca.
Appena arrivata e presa la camera, le due gentilissime
donnone della reception mi han portata al ristorante. Credevo fosse eccesso di
zelo, per mostrarmi dove fosse. In realtà mi ero scordata che nei 15 euro era
compresa la pensione completa. Pensavo sarebbe stata gestita con cena oggi,
colazione domattina e pranzo niente, o due panini da portar via. Invece no.
Alle 17 mi attendeva il pranzo, presidiato da una cameriera rimasta lì apposta
in sentinella. Insalatona, zuppa di barbabietole, cotoletta con patate. Pane,
e, unica bevanda, the bollente. Bon, che s’è fatta merenda. Poi ho scoperto che
la cena sarebbe stata servita alle 18. Praticamente non me ne sono nemmeno
andata, e giù l’insalata russa (mi sembra giusto) e il piatto di pasta mencia
con, sopra, bistecchina di brontospasmo.
Per i miei standard di volpe a pedali pranzo+cena han fatto
un pasto giusto e soddisfacente. Resta il problema dei pomodori di Iannina, che
mi guardano infelici. La loro sorte è appesa a un filo sottilissimo, deciderò
domani se portarmeli fino in Russia o no.
Dopo la pranz-cena ho fatto una passeggiata di nuovo verso
il centro di Orsha Il vento si è calmato, e spero non si risvegli, domattina.
La città è calma, come tutta questa nazione silenziosa. E’ una pace forse non
dettata da totale appagamento, ma da stanchezza infinita, accumulata nei
secoli. E’ una tranquillità malinconica. Ma, per chi ci passa attraverso,
risulta dolcissima. La Bielorussia, di cui domani percorrerò gli ultimi 50km, è
stata forse la nazione che finora più mi è rimasta tra le ciglia e sulla pelle.
Il suo sole tiepido, dopo tanta pioggia, il suo verde e il suo azzurro, i
boschi e le izbe, i Lenin di pietra come i volti della gente, la sabbia e le
spighe. E’ un mondo lontanissimo, ma così semplice e fatto di terra, pane e
sudore che parla una lingua universale.
Domani Russia.
Ci siamo.
Spero di passare agilmente il confine e di scoprire strade
mansuete.
Mi ronzano nelle orecchie le frasi terroristiche di tutti
coloro che mi han parlato della guida folle e alcolica dei russi. Spero di no,
e, comunque, si troverà il modo di fare anche quest’ultimo pezzo di strada.
La meta è Smolensk. Passerò per Katyn. Sarà una bella fatica
farsi accogliere da questo paese esagerato in tutto e subito toccar con mano i
suoi orrori.
Sarà una bella fatica.
Orpo! Giuro che non ti parlerò mai piú di pomodoro. Nemmeno dell'artista. Grande racconto di giornata cmnque
RispondiEliminaBellissimo racconto di giornata. ...ma.come tutti del resto! Ma le due donnone alla Reception? ! Poco ossigenate!😂.... è quella serie di foto Co. E sfondo la strada è il cielo a pecorelle......un quadro 😊
RispondiEliminaDonnone visibili al buio per check-in notturni :-D Grazie!
EliminaBellissimo racconto di giornata. ...ma.come tutti del resto! Ma le due donnone alla Reception? ! Poco ossigenate!😂.... è quella serie di foto Co. E sfondo la strada è il cielo a pecorelle......un quadro 😊
RispondiEliminaTu, piccola scheggia rossa
RispondiEliminaCorri la strada sconfiggendo la paura
Respiri aria e terra di popoli nuovi
Catturi odori, colori e sapori
Chi assaggerà te?
Spero nessuno, qui :-D a casa, invece, c'è chi aspetta che torni, e tornerò :-)
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