Ciao mamma vado a fare un giro in bici.
E ti ritrovi in
Russia.
Crederci o meno (io faccio ancora fatica) oggi ho davvero
passato il confine. E’ l’ultimo dei sette attraversati in questo viaggio, che
già è agli sgoccioli e mi riempie di una nostalgia al contrario che non si può
capire. “Forza che sei quasi arrivata” mi dicono. Ma non è una notizia così
entusiasmante… Certo, la fatica comincia a farsi sentire e le tappe si fanno
ogni giorno più pesanti. Ma se Mosca si spostasse di qualche centinaio di kilometri
più ad est io sarei solo contenta. Di ciò che mi mancherà parleremo poi, a
tempo debito. Il viaggio non è ancora finito.
Dicevamo che oggi ho passato il confine.
La Bielorussia non voleva che me ne andassi, e ha tentato
con forza di trattenermi e respingermi indietro con un vento che solo dio sa
come ho fatto ad affrontare, io che lo odio, il vento.
Probabilmente è merito del salsicciotto che mi han rifilato
a colazione. Formaggio, burro, pane, the e una piattata di riso e latte DOLCE
con, in mezzo, un wurstelone (leggi: vusterone) grosso così. Bon. Ci ho
cacciato giù pure i pomodori di Iannina, che non ho avuto cuore di buttare. Per
un momento ho pensato di mettermi in società con i venditori di funghi e mele
che si vedono a bordo strada. Però poi no, dai.
Ho salutato gli alberi di Orsha che già cantavano il vento
con voce d’argento e verde, per imboccare la strada che mi avrebbe riportata
sulla M1, l’enorme highway che collega Minsk a Mosca.
Vento, vento, vento e
salite. E salite. E vento. Ho tirato dritto così fino al confine, a testa bassa
come un torello determinato. Volevo arrivarci il prima possibile per evitare
ritardi eccessivi sull’arrivo, stasera. Temevo di dover spostare l’orologio
ancora avanti di un’ora. Invece no, perché la Russia è sì due ore avanti a noi,
ma non usa l’ora legale. Meglio così. Detesto farmi mangiare il tempo dallo
spazio.
Mi sono fermata soltanto un paio di volte ai baracchini le
cui insegne millantavano di cambiare euro, bielorubli e rubli. Conclusione: i
bielorubli non li ha voluti nessuno, e li ho ancora in saccoccia. Non so
perché, ma ho il vago sospetto che, se non li volevano i bielorussi stessi,
figuriamoci gli altri.
Un giro di pedale dopo l’altro sono arrivata all’agognato
confine. Mi aspettavo gran traffico, colonne di auto e camion in attesa dei
controlli, umanità varia accampata alla frontiera… Invece nulla. Niente di
niente.
Un cartello.
Un monumento che indica l’ammmore che lega Bielo e Russia.
Un modellino da venti metri, in cemento, della M1, con le città che si
trovano affacciate ad essa e i servizi che offrono (cessi, ospedali,
ristoranti, hotel. Perché siamo animali semplici, tutto sommato).
E basta.
Poco avanti c’è un posto di blocco per i tir, che vengono
pesati (?).
Il militare in servizio, una panza alcolica in divisa, mi ha
fermata per chiedermi, curiosità sua, da dove venissi e dove stessi andando. Mi
ha sottilmente presa per il culo, ma in modo buono, sfiorandomi con la paletta
da vigile urbano i cosciotti e dicendo che ero molto forte.
Poco oltre due ragazzini in mimetica si son limitati a
sorridere e fare il gesto del “circolare!” con la mano. E questo è stato
l’ingresso in Russia.
Non ho nemmeno dovuto tirar fuori il passaporto. Nessuno ha
controllato il visto e l’assicurazione medica, che è obbligatoria (tanto che,
lungo la strada, si incrociano numerosi furgoncini e gabbiotti che offrono
tutti gli incartamenti necessari).
Mi aspettavo controlli spasmodici come alla frontiera
bielorussa, invece nulla. Per qualche kilometro ho pensato che la dogana vera e
propria fosse poco più in là, ancora oltre. Invece no. Sembra quasi di esser
tornati in un paese libero. Così libero che al check-in in ostello non
compilano nulla, a differenza delle millemila bielo-scartoffie, e nemmeno ti
rilasciano scontrino fiscale. Banconota in tasca, due sorrisi e via.
Che sia Russia si fa chiaro subito, però, perchè tutto è più
grande. Terribilmente più grande. Più vasto, grosso, alto, largo. Più
smisurato.
Le persone sono il doppio in altezza e circonferenza, per la
dieta sana, il molto sport e il poco alcol.
Le strade diventano ancora più ampie, sei corsie più due.
Gli alberi sono più alti e più fitti. Il cielo è più spalancato, l’orizzonte
ancor meno afferrabile con uno sguardo. Anche le salite sono più lunghe, ma
meno ripide, quasi dovessero stendersi per coprire distanze maggiori. Il vento
è più forte. I cartelli che indicano le aree di sosta e i benzinai portano
numeri a tre cifre. Come a dire: sei in riserva? Devi fare pipì? Hai fame? Fottiti
yankee borghese, questa è la Russia. E le cose sono lontane e grandi. E tu sei
piccolo e insignificante.
Così, io e la Signora, piccolissime in quelle immensità, ci
siamo incamminate verso la meta di oggi, Smolensk.
Ma di questa città parleremo domani, e vi spiegherò anche
perché.
Dopo 50km di M1 e una sosta-barrette, ho lasciato
l’autostrada (pedalabilissima) per una secondaria. Direzione Katyn, cimitero di
guerra.
Un nome lugubre, intriso di sangue.
Katyn.
Un rintocco di campana a morto.
Dobbiamo tornare indietro a questi alberi neri. Dobbiamo
tornare al 13 aprile 1943.
Radio Berlino diffonde la notizia che sono state trovate
delle fosse comuni piene zeppe di cadaveri di polacchi. Parliamo di quasi
22.000 anime. Sono stati trovati, ormai mezzi marci o mummificati, con le loro
divise, le mani legate e un foro nel cranio. Sono stati trovati nella foresta
di Katyn.
Ad ammazzarli sono stati i russi, si dice.
Stalin nega tutto. Attribuisce la colpa ai nazisti.
I proiettili sono tedeschi, sono stati loro. Sono stati i
nazisti.
Si dice.
I rapporti tra governo polacco, in esilio a Londra, e
sovietici si incrinano per l’ennesima volta.
Goebbels, ministro della propaganda del Reich, cavalca la
notizia per screditare Stalin agli occhi di tutto il mondo. Intanto si affretta
a far dissotterrare i cadaveri degli ebrei di Treblinka, e a bruciali, farli
sparire, per evitare il medesimo inconveniente “mediatico”.
Sono stati i russi, quando, in virtù del Patto
Molotov-Ribbentropp, hanno invaso la Polonia insieme ai tedeschi e se la sono
spartita. Tutti lo sanno. Ma la verità verrà ammessa solo nel 1990 da Gorbacev
e provata nel 2005 dai documenti ormai non più top-secret.
A partire dal ’39 Germania e Russia invadono la Polonia.
Entrambi gli aggressori fanno prigionieri; i sovietici chiudono 22.000
ufficiali, poliziotti, secondini, gendarmi e guide in diversi campi di
detenzione, tra cui Ostaškov, Kozel'sk e Starobel'sk. Gli ufficiali sono tutti
laureati, perché così prevedeva il sistema di coscrizione polacco. E per piegare
una nazione asservita, per costringerla al giogo, non c’è come eliminare la sua
inteligencija. Nazisti e sovietici, su questo, per quasi due anni, van d’amore
e d’accordo. Il 5 marzo 1940 il capo della polizia segreta russa, Berija,
Stalin, Molotov e altri membri del politburo dei Soviet, firmano l’ordine di
esecuzione di questi prigionieri, definiti “nazionalisti e
controrivoluzionari”. I campi di detenzione vengono svuotati con fredda
precisione dai membri del NKVD, i polacchi finiscono tutti ad ingrassare la
terra dei boschi. In molti casi, mogli e figli vengono spediti nei gulag
siberiani. La Polonia deve essere abbattuta, e lo si fa succhiandole via la
vita. Dal 3 aprile al 19 maggio, ogni giorno e ogni notte, vengono riempite
nuove fosse. I russi usano proiettili e armi degli alleati tedeschi, per poter
attribuire loro la colpa, nel caso emerga la verità.
Giugno 1941. La Germania invade la Russia. I russi si
riavvicinano al governo polacco (in esilio a Londra) per un’alleanza
anti-tedesca. Si organizza un’armata polacca in Russia. I generali chiedono
notizie dei loro ufficiali, ne mancano oltre 15.000 all’appello. Stalin resta
sul vago, dice che forse son scappati in Manciuria. Invece sono lì, sotto ai
loro piedi, tra le radici della foresta di Katyn.
Nel ’43 i nazisti scoprono le fosse e diffondono la notizia:
“È stata trovata una grande fossa, lunga 28 metri e ampia 16, riempita con
dodici strati di ufficiali polacchi, circa 3.000. Essi indossavano l'uniforme
militare completa, e mentre molti di loro avevano le mani legate, tutti avevano
ferite sulla parte posteriore del collo, causate da colpi di pistola.
L'identificazione dei corpi non comporterà grandi difficoltà, grazie alle
proprietà mummificanti del terreno e al fatto che i bolscevichi hanno lasciato
sulle vittime i documenti di identità. È già stato accertato che tra gli uccisi
c'è il generale Smorawinski, di Lublino”.
Gli Alleati già sapevano, ma fingono di credere alle scuse
di Stalin, che accusa i nazisti.
Per volontà del Reich, a fine aprile ’43 si istituisce una
commissione internazionale d’indagine, guidata dalla Croce Rossa. Il verdetto è
uno ed uno solo: sono stati i sovietici.
Alcuni membri della commissione spariscono misteriosamente.
Altri, come il prof. Palmieri, vivono nel biasimo e nella derisione per anni,
anche dopo la guerra, tacciati di esser stati fascisti per aver detto la verità
su Katyn. Churchill e Roosvelt partecipano all’insabbiamento della spinosa
questione: ormai sono tutti alleati.
Nel ’46 i russi tentano di accusare i nazisti anche del
massacro di Katyn al processo di Norimberga, ma la faccenda viene lasciata
cadere. Nei primi anni ‘50, un'indagine del Congresso statunitense riporta la
vicenda all’attenzione, dimostrando che la colpa è dei russi. Ma l’Urss ormai gode
dell'amnistia concessa alle potenze vincitrici del conflitto. Durante la Guerra
fredda gli stessi comunisti polacchi insabbiano la questione Katyn, per non
parlare del Cremlino, che espunge il dettaglio da tutti i libri di storia,
puntando il dito sui massacri (veri anche quelli compiuti dai tedeschi).
Si fa a gara nelle accuse a chi l’ha fatta più grossa. A chi
ha ammazzato di più e più brutalmente.
La verità emerge solo ventisei anni fa.
“Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza,
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni”.
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza,
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni”.
Dopo la visita al memoriale delle vittime del massacro di
Katyn, posso dire di essere entrata davvero in Russia. Con le sue tette grandi
da mamma e puttana, con i suoi orrori nascosti sotto al fango e alle foglie. Con
i suoi sacrifici per liberare l’Europa.
Di lì sono arrivata nella vicina Smolensk, la cui periferia
è caotica, polverosa, sporca e malata di ingorghi d’auto.
Ero stanca nella
testa e nelle gambe, ho rimandato la visita del centro storico a domattina. Ora
sono in una camera in affitto sopra ad un meccanico d’auto. Si vede lo Dnepr
dalla finestra e tutto finalmente tace.
Anche i boschi. Anche i morti.
Una chicca per allegerire un pochino: ma questo pater famialas che mi guarda dal docciaschiuma-sapone per i piatti-tutto in uno-pure il budello di tu' ma' vestito da pirata? Quanto è russo dentro (e fuori)?
Un memoriale alle vittime...dei russi in Russia??!! Ha dell'incredibile.
RispondiEliminaVuoi dire che il carnefice si e' redento?
Forse sì... Forse ;-)
Eliminacomplimenti per le gambe e...per la rivisitazione storica! una volpe in gamba!
RispondiEliminaSpasibo! Grazie :-)
Elimina