C’è una terra dolce di colline e
acqua, sulle anse del Volga, una terra di verde e d’azzurro profondo. C’è una
terra piena di santi ed eremiti, piena di croci, di fiabe, di oro e cenere.
Qui, un tempo, prima che il fiume
si mangiasse tutto, c’era un lago. Qui il venerabile Macario, santo ortodosso,
viveva da eremita in una piccola buca sulla spiaggia, scavata con le sue mani.
Qui con le sue mani, nelle acque del lago, il santo battezzava gli abitanti dei
villaggi circostanti, ma anche i pagani Ciuvasci, Mordvini e Mari, e i Tartari
della mezzaluna.
Qui Macario, seguito da altri
uomini di fede, costruì un monastero, nel 1415. Ma la pace assoluta d’incenso e
salmi durò ben poco: nel 1439 giunsero i tartari del Khan Ulu Mukhammed.
Giunsero a cavallo e scesero dalle colline rapidi come il crepuscolo. Giunsero
con le fiaccole e bruciarono tutto. Tanti monaci morirono, altri, tra cui il
novantenne Macario, furono portati prigionieri a Kazan. Il Khan, impressionato
dalla grandezza d’animo del vecchio santo, la lasciò libero e gli diede anche
la possibilità di seppellire i suoi morti, a patto che non rifondasse il
monastero. E così il Venerabile andò a fondarne uno più a nord, tra le foreste
sul fiume Unzha.
Qui, però, nel 1620, il monaco
Abramo giunse con altri fratelli a rifondare il monastero. Prima con il legno,
poi con la pietra bianchissima. Celle, refettorio, sette chiese, una
cattedrale, cimitero e campanile, orti e un perimetro di mura difensive simili
a quelle di una fortezza: nel giro di quarant’anni tutto questo era stato
costruito, intorno al pozzo scavato da san Macario stesso due secoli prima.
Ma ancora una volta la pace durò
poco. Nel 1670 il monastero fu preso dai ribelli di Stenka Razin, cosacco che
tentava in quegli anni l’impresa di rovesciare il potere dei nobili e degli zar
nel sud della Russia.
In quegli anni, per altro,
iniziava ad assumere importanza la Fiera di San Macario, che si svolgeva fuori
dalle mura del monastero a luglio.. Qui mercanti d’Europa e d’Asia si
incontravano per commerciare legname e gioielli, spezie, schiavi, donne
bellissime dagli occhi di gatto, seta e abiti di ogni foggia, in un babelico
mescolarsi di lingue e profumi pungenti. Per duecento anni, ogni estate, la
fiera attirava denaro da due continenti, tanto che, nel 1800, c’erano più di
3000 edifici pubblici e privati per conservare i milioni di rubli che
circolavano.
Ma ancora una volta la prosperità
fu bruscamente interrotta dalle devastanti fiamme dell’incendio del 1816, che
distrussero quasi tutti gli edifici e mandarono letteralmente in fumo inimmaginabili
quantità di denaro lì conservate.
La fiera fu trasferita a Nizhny
Novgorod e i monaci persero la principale fonte di sostentamento. Se ne
andarono in molti. Gli altri furono presto allontanati perché il Volga aveva
mutato il suo corso e minacciava l’intero complesso, soprattutto durante le
piene primaverili. Dopo alcuni cedimenti di mura e cupole, il monastero fu
chiuso nel 1869. Restò qui solo uno ieromonaco, con l’unica compagnia
dell’icona di san Macario (lasciata per l’insistenza della popolazione locale.
Tutto il resto, icone, campane e tesori, erano stati trasferiti in altre
chiese).
Ma s’è ormai capito che questo
luogo di preghiera si accende e spegne a intermittenza nella storia,
fiammella che vacilla sotto la
pressione di politica e natura ma non muore mai.
E così, qualche anno dopo, il
Volga mutò nuovamente il suo corso, rendendo di nuovo sicuro il complesso. Le
chiese furono restaurate e abbellite di nuove icone. Il luogo fu riconsacrato,
ora come convento femminile. Nel 1917 ci vivevano 300 suore.
Ma a questo punto giunse il vento
della Rivoluzione a spazzar via tutto ancora una volta. I bolscevichi
nazionalizzarono i tesori e gli edifici. Nel 1928 le suore furono espulse; il
complesso fu usato come orfanotrofio e sede governativa, ma pure come ospedale
militari durante la Seconda guerra mondiale.
Il convento è stato riaperto solo
nel ’92, dopo il crollo dell’Urss. Oggi vivono qui 22 suore (e dal 2007 è
conservata qui pure la capoccia di san Macario).
E’ un luogo di pace assoluta, di
quiete vasta, di sconfinato azzurro (e di ottimi bibitoni autarchici al melograno)
Ci sono arrivata con il traghetto
che parte da Lyskovo, dove abito oggi. La corsa costa 100 rubli, è orari
assolutamente casuali e vale tutto il prezzo dell’attesa.
Accanto al convento sorge il
paesino di Makaryevo, che è di legno e fango e rimane intriso di luce d’oro
anche quando le nuvole velano il cielo.
Arrivare qui è stato faticoso.
La tappa era abbastanza breve
(poco più di 90km) ma irta di salitelle e soprattutto sfregita da un traffico
orribile. Brutta anche la strada, rattoppata, piena di buche, bozze e mucchi di
sabbia infida, con lavori in corso e bitume fumante sfornato direttamente dai
più imi gironi dell’inferno. Per fortuna la strada riserva sempre anche
qualcosa di buono, quando si apre sull’orizzonte o si chiude in un anello di
corteccia.
Poi fiere di icone e Leninoni
silenziosi ad osservare.
Tra un accidente e un moccolo
sono arrivata a destinazione, a Lyskovo, che è una città grigia di cani magri,
mosche, chiese diroccate e altri simboli di pace.
L’alloggio, oggi, è il
lussuosissimo (stavolta senza ironia) Hotel Parus, che sta proprio accanto
all’attracco del traghetto, a margine dei boschetti sulle rive del Volga. E’
tutto bello, qui.
Dopo l’escursione al convento
sono tornata al Parus, dove è attualmente in corso una festa (addio al
nubilato? Laurea? Compleanno?) di sole fanciulle tirate a lustro da battaglia,
con dj e musica tamarrissima a tutto volume, e, immagino, molta vodka.
Essendo il ristorante occupato
dalla festa, e mancando qualunque tipo di servizio in zona, ho cenato in hotel
ma ai tavoli del bar. Per ordinare ci ho messo una vita e mezza, mentre mi
digerivo da sola nel tentativo di decifrare il menu (perché fino a carne,
pesce, verdure ecc capisco, ma quando allo chef parte il ghiribizzo di dare ai
piatti nomi fantasiosi e pieni di estro, ecco, allora è la fine). In summa sono
andata di Caesar salad russian way e kartoshke v rozmarin. E una vagonata di
pane nero gentilemente offerto dalla casa.
Ora, dalla stanza, con il the in gamella,
mi godo l’ultima luce. La tappa di domani sarà lunga, ma qui tutto sa di epico,
e si corre con la corrente morbida di questo fiume.
L'azzurro e "l'oro" di questa tappa siano i colori anche della prossima... Sila
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