Ahimè la fisica è sempre stata
una materia a me ostile, misteriosa, difficile da comprendere e metabolizzare.
Durante le lezioni con la mitica professoressa Labria, il mio migliore amico e
compagno di banco dei tempi del liceo, ora dottore in astrofisica, aveva tutto
chiaro in un lampo. Io stavo ancora cercando la pagina giusta sul manuale. Per
non prender brutti voti passavo interi pomeriggi sul libro, con il solo
risultato di addormentarmi sulla poltrona, sulla scrivania, persino sul
pavimento, con tanto di pagina incollata alla guancia. Persino nella vasca da
bagno (piena – è la posizione di studio à la Marat, adottata anche per tutta
l’università) mi sono addormentata: libro miseramente in ammollo e risveglio da
waterboarding perché avevo respirato acqua.
Però mi piacerebbe capirla,
saperla, conoscere ogni segreto della fisica. So che è una delle chiavi con cui
si decifra la realtà, ed è così bello sapere come funzionano le cose. A volte
mi chiudo intere nottate sulle pagine di Wikipedia che spiegano i campi
elettrici e magnetici, le onde… E dopo aver letto tutto sono una tabula rasa
come prima.
Dunque dei miei studi di fisica
mi son rimaste delle confuse immagini che sono più un fatto d’arte e fantasia
che di scienza. Per esempio dei vettori che indicano le forze e si
rappresentano come freccine ho l’idea che ci trafiggano e che si sia tutti noi
dei sansebastiani legati al palo dell’esistenza. Della regola della mano
destra, delle tre dita, per capire da che parte vada il vettore risultante di
una somma tra forze, so che esce sempre il medio ed è rivolto a me stessa,
brutta capra ignorante. Della teoria della relatività ho l’immagine dello
spaziotempo curvo, che è un piano bianco come l’eterno, quadrettato a righe
nere perché se no le curve mica le percepisci, tutto a valloni e crateri,
creati ciascuno da un granello di polvere, da un gatto acciambellato, dal mazzo
di chiavi che ti è caduto nel tombino, da una galassia piccina e tutta
brulicante di stelle. In fondo a ogni vallone sta l’oggetto che lo crea. E
naturalmente in uno spazio così curvo ci si muove con uno slittino di legno.
Oppure con una bicicletta, come nel caso mio specifico.
Oggi ho fatto 900 e passa metri
di dislivello senza fare nessuna salita vera e propria, senza raggiungere
alcuna cima o passo. E’ come lo spaziotempo incurvato.
Su, e giù.
Di nuovo su,
e di nuovo giù.
Eeeee su ancora, giù ancora.
E su, e giù.
E guarda là davanti,
quanti altri infiniti ordini di colline tutte addossate una all’altra. Su di
nuovo, e ancora giù.
Certo, la strada è stata clemente
ed anche il cielo è stato buono con me.
Ha piovuto tutta la notte di una
pioggia tesa e spessa, quella pioggia che sferza e ne senti il rumore
minaccioso fuori dalla finestra e sui tetti. Stamattina ancora pioveva, faceva
freddo e il temporale sembrava non volerne sapere di spostarsi da sopra la mia
testa.
Ho aspettato in ostello che
spiovesse e, al primo diradarsi delle gocce, sono uscita. Nonostante le
ripetute minacce di nuvoloni neri, tuoni e lampi, reiterate per l’intera
mattina, sono riuscita anche oggi a fare uno slalom da campionessa olimpica tra
gli acquazzoni, cavandomela con qualche gocciolina e la melma tirata su dalle
pozzanghere.
Da Kemerovo sono uscita
percorrendo il grande ponte sul Tom, che pareva d’acciaio e asfalto, o era la
strada a sembrare un fiume, in un paesaggio in bianco e nero; altro che
cinquanta sfumature di grigio.
Subito sono iniziate le rampette
e le salitelle. Per fortuna oggi il vento si è fatto sentir meno. Qui, in
questa zona di steppa boscosa, tra pini e betulle, leggo che si può parlare a
buon diritto di taiga. Eccola qua, la taiga. Anche i nomi dei paesini
microscopici che ho incontrato ne sono prova.
La strada si snoda in maniera
illogica, facendo curve e curvette tra i saliscendi. I pini neri, come sentinelle
cosacche, stanno diritti a controllare che il fiume del divenire trascorra
senza intoppi lì sulla via. Nessuno sfugge al loro severo giudizio di arbitri
di ciò che è giusto secondo natura e ciò che invece non lo è, tanto da guardar
male le auto che sfrecciano e le antenne enormi sulle cime delle colline.
Pian piano, nel primo pomeriggio,
il cielo si è steso in un bianco latte misto all’azzurro pallido così tipico di
queste terre. Le ultime discese sono state tutte accompagnate dalla meraviglia
di un sipario di fronde e tronchi che, da bordo strada, si apre, spalancando
alla vista l’orizzonte verdissimo.
Poi, finalmente, una discesa più
lunga e morbida delle altre mi ha riportata in una quasi pianura, ambiente che
certo si addice di più a una volpe a pedali ormai un po’ stanca a fine tappa. Ultimi
strappi, un paio di marmellatine perché ormai ero in riserva da un po’ ed
eccomi arrivata alla ridente Krasnyy Yar, la meta di oggi.
Se la cercate su maps, vi
compaiono almeno una cinquantina di località con questo nome, diffusissimo per
i cosiddetto selo, ovvero i villaggi rurali. Gorod, città, era quella con la
cattedrale; selo l’insediamento con chiesa, poi, ancor più piccoli ci sono
anche ci sono gli agglomerati di case sparse senza chiesa. Nemmeno i bolscevichi
e l’ateismo di stato son riusciti a modificare questa tradizionale suddivisione
amministrativa del territorio. Dunque, Krasnyy Yar, quello dell’oblast di
Kemerovo, è un selo, cioè questa cosa qui.
Mi ci son fermata perché dispone
di motel sulla strada, con distributore di benzina, ristorante, camere e
minimarket, tutto l’occorrente per far tana stanotte. Siccome è l’attrazione
principale del paese, nonché l’unico luogo in cui si possa far la spesa, tutti
i ragazzini, i nullafacenti, i lavoratori che hanno finito il turno e i
pensionati bazzicano qui intorno, insieme al via vai di gente in transito
sull’autostrada, pullmanate di cinesi e altra umanità in viaggio. Questi sono
due bimbi che vendono le pigne e le fragoline di bosco.
Inutile dire che il mio arrivo ha
destato non poco interesse. Prima da parte di Sergej, che ha 24 anni, fa il
falegname e mi ha chiesto se fossi sposata con evidente interesse. Poi, da
parte dei ragazzini che gli ronzavano intorno. E vai di foto e selfie.
Poi, da
parte di questi bei tronchi di pino dalla Mongolia con furore, che stavano
tornando a casa; sono stati folgorati dall’idea di fare una pedalata così lunga,
che a loro già pare lunga in autobus, e allora vai di altre foto e altri selfie,
mentre mangiavano semi di girasole di cui sputazzavano le bucce in giro e anche
addosso, tra loro e tra noi.
Insomma, avere una camera è stata una cosa più
lunga e indaginosa del previsto.
Il “Tre orsi”, così si chiama il
posto, non ha un nome casuale, ahimè.
Infatti, quando si sale al piano delle camere,
ci si imbatte in questo.
Quando poi si decide di andare al
ristorante self service, da cui esce un profumo di pesce fritto pesante che io
apprezzo, con la fame che ho, ma che probabilmente fa da zampirone e ammazza
gli insetti, si trovano queste altre cose, dagli animali impagliati ai finti
acquari arredati con orsi luminescenti, dalle corna alle teste appese.
E persino altri tipi di grande
mammifero peloso, di cui notare in particolare la magliettina a rete a maglie
larghe, nera, evidentemente trasparente, da ballerina del Moulin Rouge. Quella
sulla destra è la moglie, che ha assunto la tipica forma a samovar che
caratterizza molte donne di etnia slava: bellissime e magrissime e perfette
fino ai quarant’anni, poi, d’improvviso, così. Chissà se si chiudono in un
bozzolo per questa metamorfosi o accade senza soluzione di continuità. Chissà
come sia possibile, tra l’altro.
Per quanto mi concerne, ho fatto
onore la cuoco: tripla insalatina russa con gamberi e caviale fosforescente
(due) e con cetrioli, piselli e salame, perché fallico è meglio. Petto di
tacchinodonte coperto di cipolle, panna e formaggio fuso, con contorno di
patate e cipolle. Pane. La russificazione della volpe prevede ormai che si
pasteggi a caffè (o tè, dipende), come si usa qui (quando non si beve vodka).
Insomma, tutto è bene quel che
finisce bene anche oggi. Domani mi attende una tappa più breve e con meno
dislivello, che mi porterà a Mariinsk, uno delle più antiche città della
regione. Ci sono diverse cose interessanti da vedere, ma il pezzo forte, nei
confronti del quale nutro enorme curiosità, è il campo-memoriale del siblag, il
gulag siberiano che sorgeva proprio lì. Io cerco i fatti e i resti oggettivi
della storia, di ciò che davvero è accaduto; i racconti deformati da questa o quella
ideologia non m’interessano più.
Poi c’è un monumento alla patata,
proprio di fronte all’albergo dove ho intenzione di fermarmi. Insomma, Mariinsk
mi chiama a gran voce… E io vado!
Vi lascio con questa cartolina
dal selo di Krasnyy Yar: mucche dal benzinaio. Perchè la Russiaè principalmente una forma ontoligica, un modo di manifestarsi dell'essere, prima ancora che un luogo geografico.
"Su e giù. Di nuovo su, e di nuovo giù..." A parole sembra quasi un gioco; a pedalate dev'essere stato molto faticoso. Che strano ambiente naturale la taiga, ma attraverso i tuoi occhi appare anche speciale.
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