Che tutto sia relativo si sa,
pure gli assi cartesiani dello spazio e del tempo, pure la x e la y.
Ma che lo siano anche le date, i
numeri, o meglio, la percezione che di essi si ha, suona davvero strano; eppure
è così. Cosa richiama alla vostra mente il concetto di “antico”? Facciamo le
domande alla Socrate: cos’è l’antico, con l’articolo? E’ ciò che non è recente.
Ok. Ma di preciso, quando qualcosa inizia ad essere antico? Dopo un paio di
mesi, se è la mozzarella dimenticata in frigo. Dopo un paio di secoli se è
un’opera d’arte. Dopo un paio di millenni se è una civiltà. E così via.
Quando una città è antica,
dunque? Per un italiano se è una colonia di fondazione greca o se risale almeno
all’epoca romana, e nemmeno del tardo impero che già risulta antica ma nemmen
troppo. O no? Per un russo siberiano, una città è antica, anzi, antichissima,
se ha poco più di trecento anni. Come Mariinsk, dove mi trovo ora, nota per una
zarina, la patata, la vodka e 100.000 morti in gulag, anzi siblag.
Ma andiamo con ordine.
Stamattina ho iniziato la
giornata con il piede giusto tra insalatine russe al caviale dei poveri e uno
sgonfiotto perfritto con cipolle e prezzemolo. Come sia possibile che non mi
venga il cagotto con la maionese, le uova, il caffelatte, l’unto e le cipolle,
tutto insieme, resta un mistero, ma tant’è. Sono proprio una betoniera.
Sotto un cielo incerto ma con
l’aria di chi ha il broncio solo per finta sono tornata sulla mia bella
autostrada Bajkal. Prima di lasciare Krasnyy Yar mi sono persino imbattuta nella
sua chiesina, che la rende selo e non entità rurale anonima.
La tappa è stata rapida e breve,
con solo 73km e 300 metri di dislivello; il fondo ottimo, l’assenza di traffico
e il silenzio del vento (ma questo lo dico piano, pianissimo) han reso la pedalata
piacevole e gli strappetti più che tollerabili.
Sono scesa dolcemente, senza
quasi accorgermene, da questa prima fetta di altopiano, giù alla valle del
Kiya, il fiume che lambisce le radici, le fondamenta e le zolle di Mariinsk. A
tratti la strada correva sul bordo dell’ultimo rilievo, permettendo allo
sguardo di correre oltre l’orlo di roccia su una distesa sconfinata di verde,
verde fino all’orizzonte, un mare di linfa da levare il fiato per la vivissima,
frondosa, vibrante dismisura.
E’ da quella parte che io vado, è
proprio lì, nel cuore di questa bellezza.
Una volta la raggiunta la zona
pianeggiante sono ricominciati i campi e li spighe d’oro, e la città mi ha
accolta con questo cartello monumentale e tutta la sua prosopopea.
Mariinsk è
stata fondata nel “lontano” 1698, cosa che ne fa una delle città più antiche
della zona. In realtà qui prima c’era un insediamenti di Tartari siberiani
detti Chulym, dal nome del fiume sulle cui sponde vivevano (in cui Kiya
affluisce); erano (ora ne restano 300 in tutta la Russia) un gruppo etnico di
origine turcica, con tratti samoiedi, allevatori e agricoltori stanziali con
una lingua propria, ormai quasi estinta, organizzati in clan patriarcali e
devoti ad uno sciamanesimo di spiriti dei boschi e delle acque (poi convertiti
all’ortodossia cristiana). L’arrivo dei russi ha rapidamente e con dovizia
spazzato via ogni taccia della loro identità culturale.
Fino al 1857, tra l’altro,
Mariinsk si è chiamata Kijskoe; poi è stata ribattezzata con l’attuale nome in
onore della zarina Maria Massimiliana d’Assia-Darmstadt, moglie dello zar
Alessandro II, cui è stato donato anche questo edificio, in occasione di una
sua visita qui.
La città già godeva di buona
fortuna grazie ai commerci e alle ricchezze in transito sulla strada che
collegava Mosca all’estremo oriente, e passava di qui. Di qui dove sono passata
anch’io oggi, segnando la tacca dei 4000km. Son soddisfazioni!
La costruzione della
Transiberiana ha poi portato ulteriori benefici all’economia locale, oltre ad
una visita dello zar in persona, Nicola II.
Quel che va detto è che tanta
parte della ricchezza della città derivava dai lavori forzati dei deportati in
un campo di lavoro attivo qui a Mariinsk, dove, fin dai primi anni
dell’Ottocento, erano stati deportati oppositori politici, liberi pensatori e
altri individui scomodi al potere, come i decabristi spediti qui insieme a
masse di servi della gleba “trasferiti” e prigionieri comuni; c’era la Siberia
da colonizzare, c’erano i campi da coltivare e le miniere da sventrare. Mancava
la mano d’opera… E s’è trovata facilmente, a costo zero. Anche la
Transiberiana, d’altronde, è stata costruita per lo più con il lavoro forzato,
ed è costata la vita a decine di migliaia di persone.
Questa bella trovata degli zar,
che disponevano delle vite (e della morte) dei sudditi come di pedine da
buttare qua e là a seconda del bisogno, è stata poi portata avanti con un certo
impegno anche dal regime instauratosi dopo la rivoluzione. Perché non importa
che volto assuma, quale colore, quale bandiera e quale inno: il potere
corrompe. “Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza/ fino
ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza/ però bisogna
farne altrettanta per diventare così coglioni/ da non riuscire più a capire che
non ci sono poteri buoni”… Il Siblag si è espanso ulteriormente e in questo
buco di fango e sassi sono state gettate 100.000 anime; nemici dello zar e poi,
dal 1923 al 1960, nemici del popolo; scienziati, medici, scrittori, artisti,
cantanti, attori, poeti… Persino l’architetto che non aveva firmato le carte
per la demolizione di san Basilio, a Mosca. Proprio qui sono morti, qui dove
ora sorge un piccolo memoriale, e dove sono stati piantati alberi a memoria
delle vittime della repressione. O meglio delle repressioni, visto che son
state due distinte, lontanissime nella teoria eppure così simili nel modus
operandi, nella “gestione” del dissenso…
chissà perchè i fenicotteri |
Poiché qui era stata istituita anche
una prigione sotterranea dedicata ai sacerdoti (si stima che ne siano stati
esiliati 40.000), ora tutto il memoriale è in mano alla chiesa ortodossa, che
ha dedicato la chiesa, nel 2009, a santa Anastasia e ai nuovi martiri del
siblag. Le altre chiese son state tutte demolite nel ’18.
Fortunatamente Mariinsk aveva
anche attività di liberi professionisti, anzi, una attività in particolare, che
tuttora è il settore trainante dell’economia cittadina: la produzione della
vodka, della birra e di alcolici in generale. Due aziende su tre si occupano di
questo. La terza lavora patate, cui è dedicato anche questo bel monumento che
ringrazia lo zar Pietro per aver portato la patata dalle lontane Americhe fino
in Russia nel XVII secolo. Ma che bello, veh.
Altro fatto interessante della
storia di Mariinsk è che nel 1905 si è levata qui una rivolta di soldati che si
lamentavano del salario troppo basso e dei costi eccessivi e a loro carico del
vitto. Assembramenti, tafferugli, e misteriosamente due commercianti ebrei
vengono trovati morti. I negozi, depredati. Un corteo di autorità cittadine ed
ecclesiastiche convince i soldati a consegnare le armi e tornare a casa. Ma gli
ebrei sono morti, i negozi depredati. Anni dopo vien fuori che il sindaco, pur
sapendo, aveva permesso che ciò accadesse perché gli ebrei “rovinavano i suoi
traffici”.
Poi è venuta la guerra, e i morti
son stati ben più di due. Lo scontrino con il saldo in vite umane si allunga e
si allunga e sporca d’inchiostro nerosangue ogni paese, ogni villaggio.
Nel 1984, oltretutto, è stata
fatta esplodere qui vicino una testata nucleare da 10 kilotoni al fine pacifico
di fare esperimenti sui sismi. Gasp. A settembre devono farmi tutti gli esami
per la rimozione di un ferro dal gomito operato… Temo non sarà necessario farmi
la radiografia, sarò già io radioattiva di mio.
Mariinsk oggi è una città molto
carina, con pochissimi palazzoni e molte case in legno o mattoni che risalgono
ai primi del Novecento. C’è anche la volontà di farla sembrare “antica”, quindi
il parco giochi è a forma di castello e i nuovi edifici sono costruiti in uno
stile coerente a quelli meno recenti. Il turismo interno non manca affatto,
anzi, nel weekend pare che la città venga assalita da orde di vacanzieri a
caccia di “antico”.
Una nota positiva è il bel parco
cittadino, con le giostre, i percorsi sugli alberi e le statue (notevoli
soprattutto quelle con tacchino e maiali).
Una nota negativa è la faccia di
merda del proprietario dell’hotel tourist, in centro, che avevo scelto come
alloggio per la posizione e per la presenza di wifi. Sono arrivata, sono salita
al secondo piano e non c’era nessuno (pur essendo tutto aperto, porte delle
camere comprese, e pur essendoci un gran cartello con scritto “reception 24h”).
Si sentiva, nella prima porta del corridoio, la voce di una donna. Ho bussato e
mi ha aperto una gentilissima ragazza che mi ha accompagnata al piano di sotto,
nella ferramenta del faccia di merda, proprietario anche della gostinitsa. Lei,
che parlava anche inglese, dopo aver scambiato quattro chiacchiere con me, ha
spiegato a lui, in bel russo natio, che avevo bisogno di una camera per una
notte. Il faccia di merda, con un sorrisetto da levargli a schiaffi, anzi, da
levargli con una delle vanghe di ghisa che aveva lì esposte, una delle vanghe
di ghisa di taglio con forza sul muso ripetutamente, ha detto: “Non affittiamo
camere agli stranieri”. E perché? “Perché no”. Stava anche iniziando a piovere,
e ci son 15 gradi: non è bello.
Mi fa schifo il razzismo già di
natura sua, mi fa schifo la discriminazione, figuratevi subirla. Divento
razzista nei confronti dei razzisti e penso al Siblag e a come avrebbe sorriso
poco, lì, il faccia di merda.
Per fortuna, trattandosi di città
turistica, le strutture non mancano. Mi sono diretta al bellissimo Parus
(vela), di cui avevo visto un cartello sbiadito pochi metri più indietro. E’
un’officina, con sopra la casa del paron, con accanto una struttura curiosa con
delle belle camere enormi. La strada diventa di nuovo sentiero non asfaltato e pare di essere in mezzo alla campagna; è una via che diparte dalla Lenina, quella principale (dove sono scattate tutte le foto). Un metro in qua e sei in città, un metro in là e sei nei bricchi.
Ovviamente anche qui non c’era
nessuno. Ho chiamato il numero indicato sul cartello e, nel giro di cinque
minuti, è comparsa una donnona in grembiule, sciavatte e calli sui talloni
grossi come le zolle spaccate di certi deserti del Texas. Non ha voluto neanche
vedere il passaporto. Signora, ti si ama tanto, e ancor più la figlia piccola
(avrà 9 anni) ma sgamatissima, che parla un po’ di inglese, mi ha fatto metter
la Signora al sicuro nel garage dell’officina e mi ha dato la password della
wifi. Grandiosi, in culo al faccia di merda razzista.
La tappa di domani è tutta un
forse. Non so di preciso dove mi fermerò, non so se passerò il confine
dell’oblast, per entrare in quella di Krasnoyarsk, o se resterò di qualche km
ancora dentro a quella di Kemerovo. Sarà la strada a decidere, in base a ciò
che ha da offrire. Insomma… Io vado, poi si vedrà (alla faccia delle
serendipità). Solo dovrebbe smetterla di diluviare, cosa che sta facendo da almeno tre ore. Altrimenti alla meta arrivo nuotando nel fango, e non è carino per una volpe.
Sempre avanti. ✊️
RispondiEliminaLeggere sul cartello 4000 km è bello e riempie il cuore di soddisfazione, orgoglio e gratitudine. Quante cose conosci e ci fai conoscere. Buon riposo, adesso, volpe di pianura, e una splendida giornata ti attenda domani.Sila
RispondiEliminaVolpe sei un mito! Ti leggo con piacere. Il tuo entusiasmo e la tua forza sono la prova che una passione può far fare cose eccezionali! Solo una domanda: non fotografi mai le persone. É una scelta ?
RispondiEliminaCiao, Alvaro.