domenica 14 luglio 2019

13-14. Ludlow e Fenner. Le città fantasma tra i deserti Mojave e Sonora. La sabbia di tutte le clessidre del mondo e il trionfo del tempo. A 48 gradi.




12/7
Barstow-Ludlow
89km

La tappa di oggi è facile da raccontare: più che deserto e città fantasma non abbiamo visto. Abbiamo anche pedalato per meno kilometri del solito, colpa la distribuzione dei pochissimi paesi o strutture qui nel deserto. Da Barstow, dove siamo partiti stamattina, o ci si ferma a 90km circa, nel motel di Ludlow, che non è un paese vero e proprio ma una stazione di servizio, oppure si prosegue fino a Fenner, che son altri 110km. Con queste temperature va benissimo così, 90 e 110km, oggi e domani.

Dunque, stamattina siamo partiti con molta calma: lasciare la fresca stanza del Motel 6 è stato uno sforzo di volontà non indifferente; anche perchè già di prima mattina il sole iniziava a scottare.
Colazione con gelato e caffè 'mericano lunghissimo e via, verso est, sempre sulla Mother road.

Abbiamo attraversato Barstow, con i suoi negozi, le sue insegne retrò molto anni '50 e i suoi murales tutti ispirati al tema del viaggio e del doppio 6.







In breve, però, la città finisce e cede il passo di nuovo al deserto sconfinato. In realtà noi stiamo passando proprio sul confine tra due deserti, che qui si sfiorano e accarezzano con diverse sabbie e venti che portano all'uno i caldi sussurri dell'altro. Qui infatti passiamo tra il deserto Mojave, a nord, e il Sonora, a sud.



Il Mojave, che prende il nome dalla tribù di nativi, i Mohave,  è un altopiano con numerosi bacini salati e con precipitazioni scarsissime. Nonostante l'aridità dell'area, si stima che un numero compreso tra 1750 e 2000 specie di piante siano riuscite ad ambientarsi qui, territorio in cui vi sono molti giacimenti minerari (che attirarono i pionieri). Vi si trova la base aerea militare Edwards AFB, luogo di atterraggio alternativo a Cape Canaveral per gli Shuttle al rientro dalle missioni spaziali.
Noi staremo al bordo del Mojave, senza disturbarlo troppo, senza spingerci fino al suo cuore rovente, la Death Valley.
Qui non ci saranno 50 gradi, ma fa caldissimo comunque. L'aria è torrida, il vento, oggi contrario, cuoce la pelle tanto è bollente. L'acqua si scalda immediatamente e diventa il solito brodo che mi tocca bere sempre d'estate da qualche anno a questa parte. Tuttavia finisce in fretta: il corpo richiede liquidi.



Qui nel deserto bisogna stare attenti a tutta una serie di animali più o meno pericolosi, e più o meno rari da incontrare. Se i puma li vedremo, ahimè, col binocolo rovesciato, e idem le volpe pigmee, i cervimuli, i bighorn e le antilocapre, non si può dir lo stesso per i crotali, anzi il crotalus atrox per chiamarlo col suo nome. Quindi c'è poco da pirlare in giro tra le sterpaglie. Sarà invece più facile vedere le poiane giamaicane e i roadrunner, Beep beep, e magari qualche coyote la sera (forse ne abbiamo già visto uno spiaccicato e disseccato al sole, forse era solo un cane). Io son qui sempre in cerca di bestiole nuove da conoscere!



La strada corre diritta mentre l'aria brucia tutt'intorno, mano a mano che si avvicina il mezzogiorno. Si pedala piano, con flemma cosmica, perchè il corpo sembra volersi conservare, addirittura opporre al movimento in questo clima adatto a rettili e cespugli riarsi. S gonfiano le braccia e le mani, i polsi, i piedi. La lingua e le labbra si disseccano, il cuore batte lentissimo. La testa pulsa, nonostante sia protetta dal casco (e da una pezzetta bianca, inumidita, che ho mariuolato in motel). "Il cuore rallenta, la testa cammina..." mi viene in mente Deandrè. e ancora: "Ai tuoi occhi il deserto, una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della natura. Gli uomini della sabbia hanno profili da assassini, rinchiusi nei silenzi di una prigione senza confini...".



I pensieri non si affastellano, ma si compenetrano uno all'altro mollemente, e vagano nell'aria davanti a me come meduse trasparenti. Bruciano gli occhi, la bici scotta, il casco pure. Il respiro è in fiamme come la strada e il cielo.
Il Sonora, a sud, butta i suoi fiati roventi. Non per altro è uno dei deserti più estesi e caldi del Nord Amrica. Noi siamo nel mezzo, sulla cerniera, sul crinale tra questi due grandi mostri, Scilla e Cariddi di sabbia e sole.


Dopo molto nulla iniziano a intravedersi alcuni ruderi e scheletri vuoti di ciò che furono fiorenti cittadine che offrivano servizi, cibo e alloggio lungo la route 66. Oggi non rimane quasi nulla e il deserto sta per inghiottire le carcasse di quelli che furono case e negozi, motel e stazioni di benzina. Mai come qui ho avuto la percezione della fuga temporis. Tutto passa, panta rei, todo pasa. Il trionfo del tempo direbbero Petrarca ed Handel. La finitudine. Ecco la sabbia dell'enorme clessidra, la sabbia che scorre e non riposa mai, la sabbia che segna il trascorre nostro in questa vita, e delle stagioni, dei secoli.





"Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni
E resteranno di uomini e di idee, polvere e segni
Ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà
Che la risposta sull' avvenire è in una voce che chiederà:
Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell..."


E niente il mio cervello fritto produce ormai stralci di canzoni e poco più, qui tra Dagget e Minneola





La città di Dagget, fra l'altro, non è mica morta del tutto; fu fondata negli anni '80 del 1800, subito dopo la scoperta verso nord dell'argento nelle miniere vicino a Calico. Nel 1882 nell'area stava per essere completato il raccordo tra la Southern Pacific Railroad e la Atlantic & Pacific Railroad, proveniente da Mojave. Per questo, si pensava che un buon nome per la città sarebbe stato Calico Junction, ma questo avrebbe creato confusione, poiché la località si trovava nei pressi di Calic, dove venne scoperto l'argento. Durante la primavera del 1883, fu deciso di intitolare la città al vicegovernatore della California, John Daggett. C'erano piani regolatori per rendere Daggett la stazione principale dell'area, con una ferrovia dove si potesse gestire i treni pesanti provenienti dall'est, ma, a causa dell'estrazione dell'argento che rese i prezzi dei terreni troppo alti, la ATSF si trasferì a Barstow, dove istituì la stazione ferroviaria principale. Nel 1903 anche la San Pedro, Los Angeles & Salt Lake Railroad, più tardi Union Pacific Railroad, costruì la linea da Las Vegas a Daggett per raggiungere sia Los Angeles che East San Pedro.
Anche l'estrazione del borace era importante, sia per l'economia che per la storia della città. Per due anni, Dagget divenne il capolinea della squadra di venti muli che percorrevano la Valle della Morte, ma a causa di un incidente, la Pacific Borax Company fece di Mojave il suo capolinea. E più tardi, nel 1891, Francis Marion Smith, il "re del borace", trasferì la Harmony Borax Works dalla Valle della Morte a Daggett per installare macchinari per l'estrazione mineraria in una miniera di borace chiamata Borate, a circa tre miglia a est di Calico. Questa operazione richiese l'assunzione di molti lavoratori. Venne riferito che la Pacific Coast Borax Company nell'estrazione del borace impiegava quasi 200 uomini. All'inizio, il minerale venne trainato dalla squadra di venti muli, che presto divenne famosa, ma Smith cercò di sostituire i muli con mezzi di trasporto più economici ed efficienti. La Borate and Daggett Railroad fu costruita nel 1898 per sostituire il trasporto del minerale dei muli.
A partire dal 1890, Daggett divenne una grande città, vantando la presenza tre negozi, due ristoranti, tre saloon, tre hotel, un deposito di legname e persino un ristorante cinese. Ma, dopo il 1911, quando i giacimenti di borace più ricchi furono scoperti a nord di Daggett nella Valle della Morte presso le Lila C. Mines, tutte le operazioni minerarie vennero spostate lassù e ciò condusse Daggett verso un costante declino, ancora presente al giorno d'oggi. Ma grazie alla costruzione delle centrali a energia solare, Daggett reagì, ed oggi la città è ancora abitata.
O quasi.





Arriviamo finalmente ad un luogo vivo davvero, di persone vive e non fantasmi che ondeggiano nell'aria che tromola di sole rovente. Subito prima di entrare a Newberry Springs c'è infatti un benzinaio con negozietto climatizzato, dove facciamo scorta di acqua e qualcosa da sgranocchiare più tardi. Hanno persino delle mele, che costano come pepite d'oro, ma hey, frutta fresca in pieno deserto!
Tra le varie delizie, mi cade l'occhio su questi lecca lecca con cadeaux, vermotti e scorpioncini e bacherozzi varii ac divorsi.





Dopo un poco di riposo all'ombra, che qui sta diventando un bene sempre più raro, torniamo in sella. Passiamo Newberry Springs, una ghost town in piena regola, con tanto di insegne scolorite che indicano motel e negozi di cui restano tre assi bruciate e poco più. Qui c'è il bagdad cafè, dove è ambientato l'omonimo fil culti del 1987 di Percy Adlon.
Le Rodman mountains chiudono lo sfondo e trasformano la valle in un calderone in cui cuociamo come caldarroste sul fuoco.






ma dove va questa signora con il suo carrello pieno di bottiglie vuote?



A Pisgah, che compare su Maps come un paese ma consta di tre case in cartongesso su ruote, mi cade l'occhio sul furgone della FedEx, che pure qui è giunta a consegnare un pacco. Non può che venirmi in mente il film Cast Away, tanto più che ho anch'io un "signor Wilson" in borsa fin da Sausalito, a nord di San Francisco. Ma del mio SignorWilson vi parlerò un altro giorno.





La 66 corre diritta, con lievi saliscendi. A sud il paesaggio è tutto così




mentre a nord, alla nostra sinistra, tutto cosà






e c'è ben poco da ridere. Si diventa pazzi con il caldo che fa e la monotonia dell'orizzonte!
Infatti i pali dei cavi elettrici mi sembrano interessanti poli comunicativi.
Signori, brava gente, scusate un po': sapete mica se qua avanti c'è un bar con un frigo pieno di ghiaccio ghiacciato con bibite colorate ghiacciate da bere piano che se no fa male la testa?


Signori, dico a voi, mi avete sentita?
Gigi, diglielo anche tu, dai. Chiedi a queste brave persone tutte dritte composte come soldatini se sanno dove sta il prossimo Liquor store. Ragazzi ma non avete caldo voi a stare lì così tutto il giorno? Io sto schiantando, gli occhi tra poco fanno "pop!" e diventano cubetti di zucchero filato. Anzi no, di pop corn volevo dire. Cubetti semmai son di ghiaccio, che è esattamente ciò che vorrei ora, da mettermi in coppa come un ovetto. Se mi metto ora un ovetto sul casco si frigge la frittata. Che buona la frittata. Ma che sete mette poi.
Signori pali della luce! Hey!




D'un tratto, mentre parlo con le cose, e le cose mi rispondono ridendo e giudicando il mio pedalare lento (eh sassolini, lo so, vado piano. Mannaggia a voi che avete solo da star fermi nella vita. Ma voi non avete caldo sassolini roventi?), le rocce intorno diventano nere. Bruciate? No, no.
E' proprio il colore di questi minerali.
Il contrasto con il giallo dell'erba riarsa e della sabbia, che spiccano sull'azzurro infinito dolcissimo del cielo, crea un gioco di colori davvero meraviglioso.
Sto impazzendo e il cervello è bollito, mi brucia tutto, dai piedi alla zucca.
Ma il bello riesco ancora a riconoscerlo.
E mi commuovo.
Gli si inumidiscono per un istante, ma poco. Non ho più liquidi in corpo.






Viene il tempo di fare una sostina, non ne abbiamo più.
Ma non c'è un filo d'ombra nemmeno a pagarlo. Ah il deserto...


Signor rudere pieno di graffiti! Mi scusi, lei che è del posto... Sa dirmi se dobbiamo entrare nella sua pancia, come Pinocchio nella balena, per trovare riparo dal sole divino, o possiamo andar oltre? Perchè sa, in tutto sincerità, lei non mi sembra un posto tranquillo.



Poco avanti troviamo un'antenna di ripetitore di chissà quali frequenze. Intorno ha un muro alto, che fa un filo d'ombra. E questo è tutto ciò che si può rimediare senza infilarsi in luoghi pericolanti.




Ci fermiamo una mezz'ora, stando tutti schiacciati contro il muro per non lasciare nemmeno una fettina di mano o piede al sole. Mangiamo chips di banane secche e beviamo acqua caldissima, che se fosse della doccia mi darebbe fastidio sulla pelle. Ma chi si accontenta, non muore di sete.


Si riparte, ormai manca poco. Alcune nuvole (grazie signore nuvole!) velano un poco il sole e ci permettono di pedalare gli ultimi 20km con meno dolore e sofferenza.



La meta ormai è vicina. Siamo quasi alla ridente Ludlow, ultimo porto sicura, ultima oasi prima di altri 110km di deserto e nulla torrido.


Arriviamo, prendiamo qualcosa di fresco da bere nel negozio del benzinaio e qui dico di aver chiamato stamattina e prenotato una stanza. Tutto torna e, con 52 dollari, mi danno le chiavi di un miniappartamento che consta di 2 letti matrimoniali, bagno in camera e spazio cucina con microonde, frigo e freezer (domani al posto delle borracce si parte con i ghiaccioli).





Nel freezer Gigi trova anche due megapolaretti, che non sono cose da infilarsi in alcun orifizio, nemmeno quando si ha caldissimo, ma ghiaccioli con sali minerali lasciati, forse, da altri ciclisti. Non durano mezzo secondo.


Dopo aver scoperto che abbiamo accesso GRATIS a tutte le bevande calde e fredde, alle granite e ai cazzimazzi-ricchipremi-e cotillons del negozio del benzinaio, facciamo un giro nell'allegra cittadina. Come dicevo, trattasi di area di servizio con diner che chiude alle 18 quindi ciao, benzinaio, negozio e motel. Praticamente un'isola felice in cui vivere tutta la vita, cioè oggi.









L'ambiente deliziosamente vintage, che richiama sia la fondazione dei pionieri minatori sia gli anni d'oro di oltre mezzo secolo fa, è la cornice perfetta per questa breve lunga giornata in sella.
Domani si punta a Fenner, ormai al limite della California, dove (forse, se tutto va bene) c'è un parco che funge da rest area dove si può piantare la tenda. Suonando i serpenti a sonagli come maracas, che il Messico è qui vicino.



13/7
Ludlow-Hi oasis (stazione di benzina in the middle of the middle of nowhere)
114km

Oggi è stata la tappa più impegnativa di questo viaggio, e su questo non c'è dubbio.
Non perchè lunga, non perchè rampichina, ma perchè calda, caldissima, e senza possibilità di trovare nulla in mezzo, nemmeno un filo d'ombra.
Ecco il volto selvaggio degli States, ecco l'avventura estrema, la terra dei pionieri e dei nativi dai volti scuri.
Ecco il deserto, che non ha pietà.

Sveglia presto, vogliamo partire prima che il sole inizi  a cuocere questa terra bruciata e i nostri cocomeri sotto al casco, a bagno maria.
Colazione in camera con caffettone (sempre free refill compreso nei 26 dollari del motel), gelato e cookie artigianale, crema sulla testa e sul viso, crema sul culo ormai ridotto ad hamburger da sella e via, nel vento già torrido.

Ludlow si dimostra per quel che è: fuori dalla gas station, un paese fantasma. Anche qui la sabbia della clessidra si è portata via tutto, anime e tetti.






Ahimè partire presto è valso a poco: dopo 4km siamo a costretti a fermarci perchè ho forato: ruota posteriore infilzata da un fil di ferro che, per altro, impiego una vita a tirar via dal copertone. All'ombra di un gabbiotto del passaggio a livello (intanto passano due treni merci da oltre 130 vagoni, ciascuno carico di 2 container) Gigi tira fuori il meccanico provetto che è in lui e mi dà gran mano a sistemare il danno. Per ri-infilare il copertone, che è un Marathon plus durissimo e di solito pizzica un cicciolo di camera d'aria, rovinandola, mi vien l'idea di cospargere tutto di un balsamino ciulato in motel tempo fa. Oh, soluzione top, 10 e lode. Il copertone va su senza nemmeno dover usare i ferri.





E si riparte, sempre lungo la 66 che oggi si distacca parecchio dalla Interstate 40 e va a perdersi nel cuore del Mojave, dove davvero non c'è nulla nulla. Sappiamo che, sui 114km da fare, a poco meno di metà c'è un cafè dove far rifornimento, e basta. E' l'unico luogo vivo tra partenza e arrivo. Dobbiamo fare bene i conti, soprattutto con l'acqua.






Le temperature salgono in fretta. Arriveranno a 48 gradi, giornata da record anche per questi luoghi. Intorno il paesaggio non dà molte distrazioni e anche i paesi fantasma son così fantasma da esser spariti del tutto, invisibili tra sabbia e sterpaglie. Klondike, Siberia (ah ah, che simpatici. Stesso clima proprio!) e Bagdad (ecco, già ci siamo di più) sono solo nomi sulla carta.





La strada corre diritta e impietosa con un poco di vento caldo contrario e un sole in faccia che riarde.
Passa meno di una macchina all'ora e tutti i pochi strombazzano e mettono fuori dal finestrino dei gran pollicioni. Ma mica si fermano a chiedere se ci serve acqua... Quello lo facevano i cattivoni nel paese canaglia, in Iran. Qui le bottiglie costano 2 dollari per mezzo litro, capirai.






Qui, in questo paesaggio da film western, da assalto alla diligenza, alla digilenza, da indiani a cavallo che corrono giù per la collina urlando in una pioggia di frecce, si può impazzire per davvero. Non si muove nulla. Non ci sono odori, non rumori, non ombra. Per fortuna i monti continuano a chiudere l'orizzonte, che altrimenti si spalancherebbe sconfinato come un occhio sbarrato, come il lampo di Pascoli, come i pascoli di Lampo. Sarebbe ancora più spaventoso e troppo, non è un infinito di mare in cui naufragare dolcemente. E' come un mare, una brulla distesa salata inadatta alla vita di noi umani che dobbiamo mangiare e bere e ripararci all'ombra.





E' tutto maledettamente immobile.
Solo, intravediamo, rapida una lepre dalle orecchie lunghissime, che ho battezzato "il lepro delle meraviglie".
Per tutta la giornata ne vedremo correre tra i cespugli.
Forse ho visto anche una volpe pigmea, ma forse è un miraggio, o il mio spirito guida evocato dalla terra dei Mohave, che indica la via e corre corre corre nel deserto immenso oceanico.








Se le foto vi paiono monotone, pensate e pedalare in questo panorama per quasi dieci ore, con un caldo allucinante e l'acqua e che si fa via via più calda, e provoca nausea, chè lo stomaco la rifiuta.
Ci facciamo foto per non cedere alla noia che trasformerebbe anche noi in pietre o granelli di sabbia. Che già lo diventeremo, ma dai, non adesso.
Notare la crema solare per le labbra che bell'effetto paiasso del circo Barnum. Venghino siori venghino! Il freak show è qui! Una volpe e un furpe che arrancano nel deserto! Alè alè!






Se non altro ci distraggono un poco le pietre nere ed un cratere grande che sembra la bocca di un vulcano.
Invero è il cratere, una buca ben grande, causata dall'impatto di un meteorite sul suolo del nostro pianeta. Ce ne sono diversi di questi parti, e parliamo di una sassata pazzesca avvenuta 50.000 anni fa, nel Pleistocene.





Intorno è pieno di resti di ciò che è stato: rocce, massi e sassi e sabbia neri. Che nei cafè vengono venduti alla bellezza di 15 dollari al pezzo.



 Passiamo accanto al cratere, ma fa troppo caldo per percorrere lo sterrato di sabbia infida e arrampicarci fino all'orlo. Ogni goccia di sudore va risparmiata.







Prosegue la strada e anche noi pedaliamo senza troppa fatica, soprattutto perchè Gigi, che smania per arrivare al primo, ultimo, unico cafè di oggi, fa da locomotore e tira la carovana fendendo il vento contrario e ora piuttosto teso.













Mentre mi focalizzo (non nel senso che divento un mammifero di mari freddi) sul meteor crater, per avere qualcosa su impegnare la mia attenzione (vedi myriade di foto), arriviamo ad Amboy. Ah, la nostra oasi di quasi metà giornata, a 47km dalla partenza.



Oggi è una città fantasma, quasi del tutto. Fu costruita del 1853 per volere dell'ing. Kingman, che, per conto della  ferrovia, fece tirar su sotto il sole cocente una serie di città lungo i binari, tutte con nomi in ordine alfabetico.
Con la costruzione della 66 e della ferrovia di Santa Fe, la città esplose e vennero costruite strutture per accogliere i turisti, che riuscirono a far sopravvivere l'economia locale anche dopo la Grande depressione e la seconda guerra mondiale, perchè questa era davvero (ed è ancora) un'oasi nel mezzo del nulla.



Di tutto ciò oggi rimangono: l'ufficio postale, la chiesa e il Roy's motel & cafè, che oggi è solo pompa di benzina e baretto (il motel riaprirà).
Proprio in questa struttura ci fermiamo per quasi due ore, a dissetarci ed attendere che le ore più calde passino.



La storia del Roy's è interessante.
Fu aperto nel 1938 ed era l'unica gas station, con motel e diner, in tutto il Mojave orientale. Divenne famoso per l'architettura retro-futuristica e per l'insegna, aggiunta nel 1959. Per diversi decenni questa ridente attività di famiglia prosperò, ma poi, con il declino della 66, prima perse importanza poi chiuse del tutto. Nel 2005 la vedova del proprietario (che possedeva tutta la città in realtà) cedette il locale ad Albert Okura, proprietario della catena Juan Pollo (sembra un personaggio di Breaking Bad. Tutto qui sembra Breaking Bad); Okura pagò 425.000 dollari cash e promise di dare nuova vita al Roy's. Così è successo. Ora il proprietario, che ha acquistato tutta la città, sta pian piano rimettendo in sesto anche le casette del motel.



Nel locale l'acqua costa 2 dollari mezzo litro, le lattine 1 dollaro. Assaggio la Dr Pepper e decreto che no, grazie, non fa proprio per me. Sa di caramello sciolto gasato misto sciroppo per la tosse.


Nel diner ci sono raccoglitori con tutti gli articoli e i passaggi del progetto di Okura


e anche book fotografici promozionali di dubbio gusto.



Gigi spende un patrimonio in bibite e pure in un gelatino che, dice, pare una mozzarella e si chiama Fat boy. Tanta roba.


Mentre lasciamo che passi l'ora panica conosciamo turisti da ogni dove: ragazzi russi, una famiglia francese, un gruppo di cowboy che sputazzando, con voce roca di tabacco e alcol, ci chiedono cosa abbiamo nella zucca per pedalare con sto caldo. Poi una signora con in braccio un bimbo dagli occhi a mandorla, che ci dice se sappiamo cosa stiamo facendo, se abbiamo esperienza di deserti. Si preoccupa molto. Idem il marito di una donna mezza paralizzata ma vestita in completo jeans e stivali in pelle da vera cowgirl. Poi becchiamo anche due cicloturisti. Uno è cinese, è partito da New York e va a Los Angeles; ha fatto la nostra stessa strada al contrario, è completamente gremato dal sole e parla poco, in un inglese stentato. Ci conferma solo che stasera, a Fenner, potremo fermarci e campeggiare AGGRATIS accanto a un distributore con negozio per cibo e acqua. Aggratis. Alla faccia di chi crede che per viaggiare negli Usa si debba avere il portafogli a fisarmonica.
Poi facciamo la conoscenza di Paul. Alto, magretto, occhi azzurissimi strabuzzati per il caldo. Sta andando anche lui ad est, e si fermerà a Fenner anche lui, e anche lui seguirà la 66 per un pezzo, insieme a noi. Solo che lui alterna tappe da 160km a tappe da 50. Noi tentiamo di fare una cosa un po' più equilibrata. Ci dice anche che a Newberry Springs, dove lui ha dormito la scorsa notte, gli hanno detto che erano passati due ciclisti proprio la mattina. Eravamo noi.

Paul riparte, e noi anche, ma con più calma.


God bless America, e le sue carte di credito




Questa in foto sotto è la scuola di Amboy, chiusa nel 1999 dopo che gli ultimi studenti se ne sono andati. Restano l'edificio scrostato e l'insegna arrugginita.



Salutiamo il Roy's a malincuore e ripartiamo. L'ora più calda è tutt'attorno in una desolazione assolata che non lascia tregua.



Passato anche l'ultimo shoes tree, albero su cui si gettano scarpe, passate alcune croci piantate a terra e numerose scritte fatte sulla sabbia con sassi o lattine


si rispalanca il braciere, per di più in salita e con vento contrario. La media è inferiore ai 10km orari e percepisco il collasso vicino. Ci chiediamo scusa, io e Gigi, per alcuni scazzetti delle ore e dei giorni precedenti, entrambi con l'idea che, se dovesse venirci un coccolone, almeno quel che dovevamo dirci ce lo siamo detto.
Il deserto rende molto onesti e fa percepire la piccolezza, la finitudine nostra.




In mezzo al nulla, come un miraggio che prelude allo stramazzare al suolo, due leoni cinesi a guardia del vuoto. Li chiamano Guardian west e east. Probabilmente delimitavano un terreno, un ristorante, un quartiere cinesi, che non esistono più. Resta però il cartello di un'agenzia immobiliare: il terreno è in vendita ed è di proprietà di un tizio dal nome cinese.





Si pedala a fatica. Fa troppo caldo. L'acqua, lasciata nei freezer del Roy fino all'ultimo, già scotta (e non ditemi del calzino bagnato da mettere intorno alla borraccia: dovrei passare il tempo e sprecare acqua ad inumidirlo ogni tre minuti. Ci sono quasi 50 gradi!).


Passiamo il cartello del Joshua tree national park, dove ci sono tutte le Yuccas ciccifolie.



e trviamo la strada chiusa. Qui, mentre Gigi ha un momento di crisi da caldazza power, parlo con un ragazzone tutto palestrato che ci dà dell'acqua fresca (un gallone) e ci dice di andare comunque dritti per la 66 perchè ci son stati dei cedimenti ma in bici si può fare. Per fortuna! Altrimenti avremmo dovuto allungare il percorso, fare più salite e pedalare nel traffico rovente della I-40.
Il ragazzone mi fa una foto "che se no mia moglie non ci crede!" e va via. Noi riposiamo un momento all'ombra dei cartelli e ripartiamo.






Il cuore batte pianissimo, come in letargo. Le tempie pulsano e la sete è bruciante. Inizio anche io a sentirmi debile e debole, come se stessi evaporando, come se mi stessi trasformando anch'io in un fantasma, come le città di qui e i loro abitanti.


A Cadiz, città semideserta con tanto di insegne, motel e ristoranti abbandonati, ci fermiamo all'ombra di alcune palme. Qui commetto un errore fatale, per me che soffro di reflusso. Mangio. Nella fattispecie alcune chips di banana secca. E bevo, molto, acqua caldissima.



I successivi 10km, in salita e vento contro (ma per fortuna con qualche nuvola a ripararci la cucuzza) mi vedono vomitare le suddette chips di banana a più riprese, mentre piango i pochi sali minerali e la poca acqua che vedo andarsene così indegnamente dal mio corpicino. Penso ai miei gatti che si rimangiano il loro vomito e inizio a capirli. Faccio le ultime decine di metri di salita a piedi, mentre riprendo fiato. Poi, finalmente, si sente qualche refolo di aria meno calda e inizia la discesa.


Proseguiamo ancora e ancora, ma ora la temperatura sta scendendo. Arriviamo ad Essex, ennesima ghost town, ma importante per noi perchè qui la 66 piega a nord e incrocia di nuovo la I-40, e mancano dunque pochi km a Fenner, nostra meta. Siamo bolliti, non ce la facciamo più.








Finalmente, attesa, richiesta, sperata, ecco la nostra Oasi.
E' una pompa di benzina con negozio tuttivendolo e diner, cibo pronto o da preparare nel microonde a disposizione.
Musica rock a palla (entriamo noi e partono i Queen: "I want to ride my bicycle....") e cianfrusaglie varie per turisti della 66. Cibo e bevande a volontà, frigo e freezer, roba che sembra u altro mondo rispetto alle nude dune e alle rocce di oggi.
Ne approfittiamo con ampie vedute di laqualunque colorato frizzante gustoso, ci laviamo alla bell'e meglio nei bagni e riempiamo la boccia da gallone con acqua fresca. Non sopravvive alla serata.




Nell'ultima luce incontriamo di nuovo anche Paul, che ci spiega i suoi piani ed è assai contento che qui il campeggio, per hiker e biker, sia gratis.





Dopo lauta cena (paninazzo con pastrami, insalate di patate e maionese, insalata, frutta, numero X di roba fresca da bere, mango secco con chili) i proprietari del locale ci regalano pure una cartolina a testa (vedria, gli abbiamo lasciato lì un rene! Però c'è pure un cartello che dice di non lamentarsi dei prezzi alti: ci sono 100 miglia per parte di deserto!).


Ora ci lasciamo sbollire nel vento fresco della sera, mentre uccelli rapaci girano in cerchi svelti sopra di noi. Domani si va a Needles, e poi sul fiume Colorado, dove campeggeremo. Attraverseremo una fettina di Nevada e poi entreremo in Arizona (perdendo un'ora per il fuso).
Ciao California, è stato bello vedere il tuo oceano e il tuo deserto, le tue città e la tua gente. Nel bene e nel male. Ciao Cali.

2 commenti:

  1. adoro questi racconti, mi sembra di essere lì a bollire con voi. Non avevo ancora considerato l’america per un cicloviaggio ma ora ci sto pensando, intanto viaggio con te grazie a questi racconti meravigliosi.

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