19/7/20
giorno 16
Nowogard-Koszalin
137km
Oggi tappissima, piena di imprevisti e meraviglie, problemi
e fortune. Una di quelle giornate che ne contengono altre mille, che ti fanno
dire “ho vissuto, ero presente a me stessa e mi ricorderò di queste terre, di
questi cieli”. Perché, apro e chiudo rapida parentesi, una delle cose che più
mi spaventano è lasciarmi scorrere addosso il tempo senza nemmeno ricordare
cosa sia avvenuto ieri o l’anno scorso. Come avviene spesso nella routine,
quando ci si muove per inerzia, per movimenti automatici già impostati e
avviati, senza pensare, senza esserci, dopo aver abdicato da se stessi. E i
giorni fuggono e non resta nulla, nemmeno nel ricordo. Un non-vivere
praticamente, un arrendersi all’impermanenza.
Invece viaggiando e scoprendo per me ogni minuto si imprime
indelebile sopra e sotto la pelle, come i tatuaggi che porto a casa alla fine
di ogni avventura. E tutto si tiene e sta al suo posto, in me, intorno, fluido
e saldo come una ninfea sul fiume.
Fine pistolotto.
Parliamo di oggi, che di cose da dire ce ne sono.
Stamattina la giornata si aperta in un sorriso spalancato
d’azzurro e luce. Che meraviglia la Polonia così, quasi irriconoscibile
dall’ultima volta, sempre imbronciata e scura in volto.
Il lago specchia e raddoppia questa serenità profondissima e
noi, dopo il solito tran tran del chiudi le borse-porta giù le borse-aggancia
le borse, siamo pronti a tornare in sella.
I primi kilometri corrono rapidi, senza vento e su asfalto
liscissimo, commovente. La strada è enorme e incredibilmente deserta, perché si
srotola accanto all’autostrada e il grosso del traffico si concentra lì. Quindi
noi voliamo leggeri tra boschi e campi indorati di sole.
Ogni tanto un rudere, o un ristorante aperto che pare un
rudere ma non è. O un edificio che pare un ristorante nuovo e invece è chiuso e
in vendita. Ma poco importa, la strada ci porta rapida sulla sua corrente. Ogni
tanto un ciclista della domenica, in bici da corsa, ci supera. Mi immagino
sempr che qui non indossino le tutine tecniche ma la tenuta degli ussari alati,
e che accanto ci passi un’armatura lucida con le lunghe penne e la pelle
leopardata. Non chiedetemi perché.
Poi accade il primo piccolo inconveniente: ci troviamo in un
punto in cui è inevitabile entrare in autostrada. Ci fidiamo del tizio in auto
che ieri ci ha detto che si può. In effetti c’è una larga corsia d’emergenza e
le auto non sono poi molte, anche se sfrecciano a tutta e qualcuno strombazza
infastidito dalla nostra presenza. Tiriamo come matti per uscire il prima
possibile e, in effetti, prendiamo il primo svincolo e ne usciamo indenni. Con
l’adrenalina a pallettoni, ma vivi.
In breve, però, rimpiangiamo l’asfalto perfetto e la via
diritta. Cominciano infatti paesini microscopici collegati da una roba che
chiamarla strada è farle un indebito complimento. Pavè, lastroni di cemento
tutti sbrecciati e sforacchiati, pezzi con asfalto anni ’60 ormai ridotto in
biriciole dal gelo e dal tempo, e rattoppato, ma male, a gobbe, crepe crateri
che pare in ’45.
Ogni tanto è necessaria una sosta tra le cascine e le
casette umili di mattoni e legno, tra le cicogne con i pulcini e le croci
grandi e addobbate di fiori che segnano l’ingresso in ogni villaggio rurale.
Le galline razzolano libere, qualche cane incazzoso ci
insegue senza che i padroni se ne diano cura e transitano personaggi storti e
pieni fin dal mattino, che pedalano obliqui e salutano ancora più sversi.
A causa del gran casino e dello sferragliare di locomotiva
che fa la bici sul fondo urendo, non sento che il navigatore mi sta dicendo che
ho cannato strada. Quando me ne accorgo, riconnetto i dati e ricalcolo il
percorso. Pare una strada bella e pedalabile, tra i boschi e le spighe.
Pare.
Perché dopo un attimo diventa un sentiero sterrato di sabbia
e sassi, sabbia fine e soffice e asciutta come sulle spiagge romagnole. E poi
questo sentiero diventa prato incolto, prateria anzi, con l’erba e i cespugli
alti fino alla spalla, ortiche abnormi e fango, rovi, tafani e zanzare. Una
debacle.
Ma non ci arrendiamo, e spingiamo, a mano, coi gomiti, coi
denti, le bici che si impigliano in tutto.
A tratti sembra proprio che non si possa procedere, ma tra
una madonna e un santo si tira diritti, e, raccolte le ennesime zecche piccine,
arriviamo finalmente al sentiero sterrato, di nuovo, poi al pavè straciamaroni
rincoglionente e infine all’asfalto. Rotto e schifoso ma pur sempre asfalto.
E così, proprio in questo momento di piccola felicità,
inizia a piovere. Un gocciole, due, tre, dieci, il diluvio. Il primo della
giornata.
Io non sto nemmeno a coprirmi, paiono nuvole passeggere e
non mi do pena. In effetti smette presto e il caldo e il vento ci asciugano.
Proseguiamo tra i campi e ormai siamo vicini alla prima meta
della giornata, Kolobrzeg, la prima città sul Baltico, l’inizio del nostro
tratto in Eurovelo 13, la pistona ciclabile che ripercorre la cortina di ferro.
Il mare è vicino, ma ci mettiamo ancora una vita a
raggiungerlo. Infatti, oltre a stradin allucinanti e impedalabili, siamo
costretti a tornare sui nostri passi allorchè la via (sterrata) che dovremmo
percorrere è interrotta da un fiume che ha scavato la sabbia e ha creato una
gola profondissima, con al fondo acqua impetuosa.
E superato questo ostacolo ricomincia a piovere, stavolta
forte e a lungo.
Ma noi tiriamo dritti, caparbi, incappucciati nei k-way,
fradici e pieni di fango, impanati di sabbia. Arriverà il mare, prima o poi!
Giungiamo finalmente a Kolobrzeg, centro medievale del
commercio di sale, città libra della Lega Anseatica e cittadella fortiicata,
assediata, resistente ed espugnata; è l’ora di pranzo, e abbiamo già pedalato
più di 80km e vissuto tre vite. Il mare è a due passi, l’Eurovelo agognata
dista poche decine di metri.
Già.
Con i binari della ferrovia in mezzo e una scalinata a sei
rampe da percorrere, in salita e in discesa. Per fortuna ci sono i passaggi per
le ruote delle bici. Fa tutto Gigi: io non sono in grado di movimentare la
Felicita carica e dovrei lasciare e poi riprendere la zavorra, come ho sempre
fatto nei viaggi da sola.Ma stavolta c’è Gigi e quindi è tutto diverso, in
meglio.
Arriviamo al lungomare, affollatissimo, e poi al bosco che
cresce proprio a ridosso della spiaggia, e finalmente al Baltico. Lo vedo per
bene ora, per la prima volta.
Mi toglie il fiato da tanto è bello. Da tanto è strano trovare un mare
anche di qua, a nord, con colori un po’ diversi ma pur sempre inconfondibili.
Un mare, qui. Con i gabbiani che gridano al vento e il profumo di sale
nell’aria umida. Il mare. Incredibile.
Ci sediamo su una soffice duna di sabbia, tanto più zozzi di
così non possiamo essere. E’ uscito di nuovo il sole, un sole tiepido e di luce
opaca, che rende irreale il paesaggio naturale e umano intorno.
Stiamo in silenzio ad ascoltare i bambini che giocano sul
bagnasciuga e le madri che li richiamano, per lo più in russo. Lasciamo che la
luce e la salsedine si posino su di noi come un velo di polvere, potremmo
essere tronchi portati dalla marea, o statue al molo, o relitti di barche,
fasciame costoloso aperto tra le dune.
Poi l’incanto si rompe e il tempo ricomincia a scorrere.
Mangiamo e ci cambiamo, pronti a ripartire poi verso est, sempre seguendo la
costa.
L’Eurovelo inizia dal bosco e prosegue, per il primo tratto,
sempre lungomare, su una pista piastrellata un po’ stretta e tortuosa e
affollata, ma piacevole. E’ ben segnalata, anche. Poi diventa strada asfaltata,
poi fangaia sfoacchiata di buche che pare Kabul, poi di nuovo piastrelle, poi
asfalto, poi palta e via così.
Certo è che di gente ce n’è tanta, tantissima. A piedi, in
bici, sui monopattini, su motorini elettrci, caddy, macchinine a pedali,
risciò, birocci, carretti, di tutto. Un bordello indescrivibile di bimbetti e
famiglie e sciure pallide e scottate e panzuti mariti.
C’è proprio aria di festa, di estate, di clima vacanziero e
rumorosamente allegro.
Ogni paesino che incociamo è una fiera cielo aperto di
porcate turistiche, poracciate e intrattenimento spicciolo anni ’70. Giostrine
colorate e un po’ meste, baracchini che fanno i tatuaggi temporanei e le
treccine colorate, calciobalilla e flipper, tiro a segno, punching ball per far
vedere alle ragazzine quanto si è forti, geletai e paninari di dubbia igiene…
Insomma, non manca nulla al marché de putané. E districarsi nella folla informe
è difficile.
C’è ressa pure alla Messa delle 18, al punto che son state
alestite panche fuori dalla chiesa e il prete canta uno stonatissimo Alleluja
in filodiffusione, che va a mescolarsi alla musica tamarra da giostre e
all’odore di pesce fritto.
Però ci sta, è tanto tempo che non vediamo un po’ di gente
che fa cose.
E poi qui in Polonia c’è un becerame buono che è sempre
piacevole. La tamarraggine raggiunge livelli stellari e lo spettacolo umano è
imperdibile.
La nostra passeggiata lungomare si conclude, per oggi, a
Mielno, dove comincia la promenade, ovvero una strada stretta tra acqua e
acqua, tra il Baltico e un lago, il Jamno.
Qui il casino è ancora più intenso e quasi dobbiamo
sgomitare per raggiungere l’inizio della promenade, dove sorge la statua del
tricheco più bistrattata di Pomerania.
Il tempo di guardarci attorno e già piove di nuovo, con
scrosci impietosi che fan scappare la folla sotto alle tettoie e alle auto. E’
il segno, è ora di andare. A Koszalin ci attende un bell’appartamentino
prenotato in pieno centro, cui arriviamo via ciclabile, fradici ma felici di
lasciarci alle spalle la lunga coda di automobili e tutti i guidatori incazzosi
imbottigliati nel traffico dopo la fuga dall’acquazzone.
Mentre aspettiamo la padrona di casa che ci dia codici e
chiavi per entrare, con il figlio tredicenne che fa da timido interprete,
assistiamo a un mini concerto della banda, che suona in piazza sotto la
pioggia. Mi immagino tromboni pieni d’acqua e flauti che spruzzano come
super-liquidator. Suonano anche bene, per le condizioni in cui sono ridotti.
Avendo a disposizione una cucina, ci diamo dentro: io zuppa
di carote, pasta alla smetana e paprika e contorno di legumi; gigi riso con
broccoli e curcuma, tramezzino uova e bacon, e poi biscotti, pane e marmellata
a frutta a volontà. E un tè caldo per sgorgare.
Ah, qui vendono la Pepsi aromatizzata al mango: è la fine
del mondo. Fa ruttare a spregio ma dio, che buona.
I prossimi tre giorni saranno tutti di costa, e che costa!
Muoviamo verso Danzica via Gdyno e Sopot, sempre seguendo l’Eurovelo 13. Il
tempo non sarà probabilmente dei migliori ma era in conto.
Intanto due parole su Koszalin, la più grande città della
Pomerania centrale, centro culturale e politico della regione. La città risale
ai primi del Duecento, divenne parte della Lega Anseatica nel 1422 e poi visse la decadenza nel ‘500: incendio,
pestilenze e Guerra dei Trent’anni; poi venne la Riforma anche qui, e Gustavo
II Adolfo di Svezia prese queste terre, che passarono poi di mano in mano, a
Brandeburgo e alla Prussia, ai francesi di Napoleone e via così.
Domani uscendo ne vedremo il centro, che comunque non offre
grandi attrattive.
Per ora ci limitiamo a contenere il casino che si crea ogni
volta che prendiamo possesso di una camera, con Gigi che appende le sue cose ad
asciugare ovunque, persino sul frigorifero.
Si vedrà, poi, domani, quanta strada riusciremo a fare, e
come, sotto quale luce.
E’ ora di legge un po’ di Szymborska, prima che mi trasformi
definitivamente in un volpino di Pomerania.
Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.
Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d'acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all'albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
(Sotto una piccola stella)
20/7/20
giorno 17
Koszalin-Lokciowe
136km
Anche oggi tappa matrioska, con dentro mille avventure,
molte vite, giorni interi in poche ore. Siamo stati fortunati, comunque: non
siamo stati nemmeno sfiorati dalla pioggia, nemmeno una goccia minuscola,
nonostante le previsioni dicessero il contrario, e per tutto il giorno nuvoloni
scuri si siano inseguiti in cielo. Abbiamo avuto il vento a favore, anche forte
a volte. E abbiamo capito che l’Eurovelo 13 è bellissima a tratti, ma anche
basta, adesso. Con calma spiegherò il perché, raccontando.
La mattina comincia bene: non piove. Colazione, armi
bagagli, ingrassata alla catena piena di sabbia e dolore e via, di nuovo verso
la costa, a riprendere l’Eurovelo. Passato il centro di Koszalin con il suo
museo e le mura medievali, attraversiamo una serie di paesini di campagna
ancora silenziosi nell’uggia del primo mattino.
Mi frulla in testa la canzone dei Cartoons “Everybody sing
this song DooDah DooDah” ogni volta che vedo i manifesti elettorali di Duda. E
non voglio essere giudicata, per questo.
Dopo qualche kilometro su stradone ci infiliamo su strade
sperdute nella campagna del Voivodato, dove i più frequenti incontri sono con i
daini, che vediamo in gran numero pascolare allegri nei prati, e con le
cicogne, che si puliscono le piume fradicie della pioggia recente.
Ci sono anche infiniti piccoli abitanti della terra, le
lumachine e le raganelle, ed io faccio un continuo slalom me non investirle.
Perché diventerò giainista, prima o poi, me lo sento. E non voglio immaginare i
funerali della giovane chiocciola, con tutti parenti in lutto, o le esequie del
brucoverde, stimato professionista. Ah no, il problema della morte è solo
umano, gli altri animali han solo il problema della vita. Infatti non producono
arte, per distrarsi dalla consapevolezza della finitudine.
Tra un DooDah e l’altro ritroviamo l’Eurovelo, che comunque
ci conduce a paesini umidissimi, cicogne arruffate e mucche indolenti, in
un’aria priva di luce che ci accompagnerà per tutta la giornata. Sono i paesi
di Kripstak e Petrektek.
Certo ci sono tutti i servizi del caso: bagni chimici ogni
poco, paesini con i negozi, tavoli e panche riparati, dove qualche cicloturista
passa la notte, e persino anziane di vedetta che stanno alla finestra e danno
indicazioni sulla strada da intraprendere, quando vedono qualche pedalante
peregrino e perso. In effetti in questi villaggi abitano solo anziani, anzi,
anziane. Loro non parlano inglese, io non parlo polacco. Potrei intendermi in
russo ma temo che tirino fuori l’AK-47 e mi crivellino dalla finestra, dove son
piazzate a mo’ di cecchini.
Una nota di colore e vita si raccoglie a Darlowo, che ci
appare con il suo castello dei duchi di Pomerania sul fiume Wieprza; la via
centrale, con i negozi, che porta alla piazza del mercato, è assai affollata da
torme di polacchi vacanzieri. Incrociamo la statua di Stanislaw Dulewicz, primo
sindaco della città dopo la seconda guerra mondiale, attivista politico e
indipendentista morto nel ’63, e la fontana dedicata al mare e alla pesca. Alcune
foto rievocano la storia recente della città, e la porta delle antiche mura ci
dà un maestoso arrivederci alto verso il cielo.
Appena fuori dall’abitato ci troviamo immersi in quella che
forse è stata la parte più bella e indimenticabile dell’Eurovelo finora. Tra il
Baltico e il Lago Kopan corre una sottilissima striscia di sabbia, circondata
da pini e betulle dai tronchi ritorti a causa del vento. Qui ci sono blocchi di
cemento a formare una ciclabile tra le dune di sabbia chiara e finissima,
mobili, modellate dal vento di continuo in un labor limae che Faber definisce
“minuscoli frammenti della fatica della natura”.
L’aria è bianca e opaca, densa di umidità e salsedine.
Sembra di stare in un kombat film dello sbarco in Normadia, ma mezz’ora prima
che tutto accada, in un silenzio irreale.
Pare anche di essere immersi in una boule a neige.
Unico problema: c’è veramente troppa gente. La ciclabile è
affollatissima di pedoni e ciclisti su ogni mezzo, bambini, famiglie, gruppi di
ragazzini. Sono tutti silenziosi e ordinati in fila, ma non si riesce a
pedalare con un minimo di ritmo e spesso gli inesperti cicloamatori scivolano
nella sabbia e crollano a terra come sacchi di patate. Già mi muovo con estrema
cautela, temendo di scivolare sulle dune. Se poi devo continuamente evitare
l’imperizia altrui, e rischiare di farmi male comunque, anche no.
Così questa zona di cielo bianco opaco e mare bianco opaco e
aria bianca opaca viene un poco disturbata dai troppi passanti, male che si
ripete ad ogni cittadina sul mare, presa d’assalto e occupata da centinaia di
polacchi e russi e qualche tedesco.
Dopo un poco di bosco, finalmente tranquillo e lontano dai
più (l’umanità è bellissima ma a piccole dosi), giungiamo a Jaroslawiec, dove
ci concediamo una sosta sull’affollato lungomare. Ah, per la cronaca, in queste
zone della Polonia le caselle della posta sono tutte raccolte in un unico punto
del paese, e non sono alla porta di casa.
Ci sediamo su una panchina vista mare e una coppia di anziani pieni di birra ci
guarda fissi e cerca il dialogo. Diciamo che siamo italiani e andiamo a Capo
Nord. Sono increduli e commentano portando la mano alla fronte e dicendo
“Buongiorno! Mamma mia!”.
Intanto la gente va e viene e mangia gelati e panini e fa
selfie e parla, con una musica di sottofondo tamarrissima, che proviene da un
chiosco. Sono le hit del momento ma lievemente taroccate, accelerate o con i
ritornelli modificati. Per fare pipì si pagano due zloty ad un alconauta che
sta sverso su una panchina.
Mangiamo un poco di frutta e ripartiamo in fretta: se ci si
ferma fa freddo. E vengono i brividi a guardar troppo da vicino le persone.
Foto al faro, foto alla stuatua del pescatore e via. verso
altra campagna grigia e fangosa, verso altri paesini abitati da galline e
cicogne. Lasciamo il Voivodato della Pomerania occidentale ed entriamo in
quello della Pomerania. Su colline fradicie e cariche di spighe ed erba, di
fieno e fiori che esalano un misto di odore di marcio e di profumo dolce,
pedaliamo in una non luce che manda in tilt la mia ghiandola piGneale e il
ritmo circadiano. Mi viene sonno, ma così sonno che rischio di addormentarmi in
sella. Ed è assai piriglioso, visto lo stato impietoso del fondo stradale, che
ormai è più sterrato che altro, e sterrato stronzo di sabbia e sassi e fango e
buche.
Attraversiamo Ustka, città trecentesca fin da sempre abitata
da coloni tedeschi, poi sottomessa ai duchi slavi di Pomerania, alla Prussia,
all’Impero tedesco, alla Repubblica di Weimar, al Terzo reich, alla Polonia
infine, che espulse i tedeschi e gli slavi germanizzati nella Repubblica
federale tedesca. A ripopolarla giunsero i rifugiati polacchi della Galizia e i
coloni dalle regioni centrali della nazione.
Vediamo in lontananza il faro ottocentesco e per errore
entro nella zona militarizzata, da cui,neglli anni ’60 e ’70, furono lanciati
razzi per l’esplorazione delle meteoriti.
A questo punto l’Eurovelo ci tradisce e si infila in un
bosco maledetto, pieno di gente che affolla gli sterrati, pieno di sabbia in
cui ci si impantana, e la gente cade, e cade addosso a me, pieno di fango, di
sassi, di radici affioranti, di pericoli. Tutto nella semi oscurità che
impedisce di vedere in maniera decente ciò che c’è intorno. Non scendiamo mai
dalla sella, ma procediamo al rallentatore. Tanta parte del pomeriggio se ne va
per percorrere pochi, sudati, stressanti kilometri, in un tortuoso snodarsi di
sentieri inadatti alle lunghe distanze.
Perciò, giunti alle sponde del lago Gardno, decidiamo di
seguire l’Eurovelo asfaltata e percorsa anche dalle auto, e non quella
riservata alle bici e ai pedoni. Perché non ne possiamo più di perdere così
tanto tempo e di rischiare di spaccarci un osso ogni due metri.
Gli ultimi kilometri scorrono rapidi, nel parco nazionale
Slowinski, con le sue dune mobili, ma su strada normale.
Ci fermiamo a Lokciowe, dove ci sono alcuni alloggi e un
campeggio. Intendersi è un’avventura: pochi parlano inglese, molte strutture
sono chiuse ed è persino difficile distinguere le case abbandonate da quelle
ancora abitate. Non è proprio una zona ricca del voivodato, per quanto di qui
passasse l’ambra, l’oro del Baltico. Siamo a due passi da Kulki, città di
Slovinzi, i Casciubi luterani.
Nella mia infinita ignoranza, ho scoperto oggi
dell’esistenza di questi due, se vogliamo così definirli, popoli. Ho fatto
qualche interessante lettura, si trovano anche dei testi e delle registrazioni.
Lascio a voi il piacere della ricerca riguardo a queste bolle di antica cultura
slava non germanizzata fino a una manciata di decenni fa grazie all’isolamento
geografico.
Ora siamo alloggiati in casa di una gentil signora che ci ha
dato un’intera ala della sua umile dimora. Abbiamo anche approfittato della
canna dell’acqua per lavare bene le bici e pulirle dalla sabbia e dal fango,
che smangiano tutti i componenti (e devono resistere ancora per migliaia di
kilometri!) e fatto il bucato.
La spesa è avvenuta in un microscopico negozietto (2x2
metri), l’unico nel raggio di 20km, che vende i minima moralia di tutto, dal
dentifricio ai wurstel, dal detersivo alla frutta. Lo abbiamo svaligiato e la
proprietaria, dopo il nostro passaggio, ha probabilmente dovuto chiudere per
esaurimento scorte.
Ma la cenetta è stata regale: pasta con sugo alla paprika,
salsiccette con contorno di mais, carote, piselli e pane nero. Yogurt,
marmellata, biscotti e frutta. E chi ci ammazza.
Per domani e dopo abbiamo preso una seria decisione: non
seguiremo più l’Eurovelo. Ci fa perdere troppo tempo e si avvicinano cose ben
più interessanti che kilometri di boschi e sabbia. Tireremo dritto a Gdynia,
dove ho già prenotato un ostello in pieno centro. Da qui, senza fare la
ciclabile, sono poco meno di 100km. Distanza perfetta per avere il pomeriggio
libero per visitare la città.
Il giorno dopo pedaleremo solo 25km, fermandoci alla
vicinissima Danzica, per visitarla. Nel mezzo, non mancheremo di esplorare
Sopot.
Così i prossimi due giorni saranno meno da ciclisti e più da
turisti, ma le tre perle del Baltico meritano questa attenzione. Poi dovremo
spingerci verso l’interno per aggirare l’exclave russa di Kaliningrad, in cui
non si può entrare causa Covid. E sarà quasi tempo di salutare la Polonia.
Ma a questo pensiero a tempo debito. Domani ci aspetta la
splendida Gdynia, la prima delle tre città, Trojmiasto anzi. E questo tramonto
è solo l’assaggio di tanta bellezza.
Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
(Ogni caso, W. Szymborska)
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