21/7/20
giorno 18
Lokciowe-Gdynia
111km
Ah, che bene: oggi e domani facciamo un po' i turisti. Pedalanti, andanti, e-unti, ma kultural-esploratori.
Davanti a noi si para infatti la tripla città. trojmiaso, la tripletta di Gdynia, Sopot e Gdansk, Danzica. Una figata pazzesca di storia e arte e cultura in senso lato che non vedo l'ora di bere con gli occhi.
Pronti, partenza, vi... Mado' che vento imperversa fuori, e che freddo!
Ha persino portato con sè due micioli simpaticissimi che ci aiutano a chiudere le borse e a impacchettare i nostri bagagli-casanomade.
Oggi l'Eurovelo non mi frega: non vogliamo più impantanarci nello schifo urendo delle fangaie, dei sabbioni e del marciume un po' lacco. Basta, per qualche giorno almeno. Abbiamo lavato di nuovo le bici, per bene, e siamo pronti a darci alla vita mondana, al turismo, ai musei, non possiamo mica arrivare impestati e luridi, con le socure zavorrate di sabbia e i calzini cementizi.
Metto sul navigatore l'opzione "auto" e... Scopro che così dobbiamo tornare indietro e allungare di oltre 30km. Mannaggia a questo paese e alle sue strade. E va be', il primo pezzo sarà in Eurovelo ancora, ma solo fino alla prima strada asfaltata. Cosa potrà mai succedere in una decina di kilometri?
I primi due-tre corrono lisci. Passiamo da Kluki, museo a cielo aperto in quanto villaggio tradizionale slovinzio, con cimitero slovinzio e case slovinzie e fattorie e stalle slovinzie e boschi slovinzi.
Poi, come prevedibile, come inevitabile, anche le strade son diventate slovinzie, casciube, smadonnabili.
"Tra 200 metri volta a destra" e trac, sentiero di sabbia, poi fango nero, appiccicoso, che ingoia tutto. Quello che descrive Primo Levi, che mangia gli zoccoli dei prigionieri e risputa cadaveri.
Che poi.
Qua e là il sentiero è anche strutturato con dei ponticelli (a volte solo assi di legno o pezzi di rami e corteccia a coprire le pozze di fanga); e nell'erba alta, non tagliata da secoli, compaiono dei pannelli informativi con foto di nutrie e toporagni.
Procediamo a rilento, annaspando, nuotando, aprendoci un varco là dove il sentiero scompare inghiottito dalla prateria. Poi, improvviso, inatteso nel silenzio mistico delle mie bestemmie mentali, un trattore. Dal nulla. Un trattore che taglia l'erba. E dietro al trattore una cicogna, che perlustra la traccia in cerca di animaletti gustosi.
E' un segno, la Polonia, la sigogna, il trattore. La trinità verso le tre città.
In effetti, poco oltre, il sentiero compare e non solo tracciato, ma anche lastricato di meravigliosi soviet-lastroni forati di cemento, che ti fanno rimbalzare il culo in gola e viceversa, ma son pedalabili. E sabbia e sentieri ancora, ovviamente, e gocce di pioggia, ma tra fattorie sempre più ravvicinate, che non fanno un paese neanche per finta, ma umanità e civiltà forse sì.
O forse, come in "Non ci resta che piangere", percorrendo queste vie sperdute siamo tornati indietro nel tempo, e ora è il '400 e una torma di contadini sta per inseguirci con fiaccole e forconi.
Invece no, arriviamo, dopo tanta pena (per soli 10km raggrinziti) alla strada asfaltata. Mi fermo ed annuncio solennemente: "Ora metto il navigatore con l'opzione auto BASTA strade di merda".
Voliamo con un forte vento a favore sull'asfalto liscio e benedetto per qualche kilometro.
"Svolta a destra" dice poi la vocetta stronza di Maps.
E ci troviamo di nuovo nella sabbia, che poi diventa pavè. Pavè impedalabile, con i sassi picchiati nella sabbia alla brutto zio, distanti, pericolosi, scivolosi e infidi. E meno male che questa è una strada per auto.
Poi, però, ne usciamo e finalmente comincia la vera tirata su strade normali.
Gdynia ci attende e non possiamo mica perdere tutta la giornata a pettinare i toporagni e a conversare con le cicogne.
Il fatto di aver lasciato la costa fa sì che la tappa diventi un gran premio della montagna, con oltre 1000 metri di dislivello complessivi. Ma teniamo una media record e senza nemmeno sudare: il vento alle spalle è diventato potentissimo e teso e ci tira delle gran manate sulla schiena, facendoci inerpicare a velocità mai viste nemmeno in pianura, con le bici cariche.
Unico neo delle strade asfaltate: sono assai strette, non hanno bordo e ci sono le auto, poche sì, ma ci sono. E sfrecciano senza ritegno, alimentate spesso a vodka o liquido antigelo.
Passiamo per un'infilata di paesini e villaggi agricoli seminascosti dai boschi, sulle colline, tutti in -ino, Salino, Gniewino, Opalino. Qualche cittadina un poco più grande c'è, e ha la sua storia da raccontare. Facciamo una piccola sosta frutta in una fermata del bus che racconta del '18. Poi torniamo in sella, spinti da Eolo feroce e caparbio, che a volte è laterale e ci fa sbandare, ma per lo più ci aiuta e alla grande.
Incontriamo cicogne, tantissime
e persone che paiono un poco sperdute, di certo non (ancora) locals
boschi, talpe morte, camionisti vivi e allegri
e poi stradoni che ci costringono a slalom incredibili tra marciapiedi e sottopassaggi e sentierini scavati dal passaggio continuo di chi si è rotto le balle di camminare per 10 kilometri quando potrebbe farne 1.
E poi, finalmente, città più... Più città insomma. Centri abitati veri e proprio, con le strade, le strade di asfalto, e le rotonde e i semafori, i negozi e le case. Reda, Rumia con i suoi cantieri infiniti e i quartieri in costruzione tra i boschi delle colline, statue di papa Giovanni Paolo II
e, dopo altri tortuosi giri tra binari, attraversamenti impossibili, ponti e sottopassi di scale, l'agognata Gdynia.
Che ci accoglie con il suo monumento agli sfollati. Perchè entriamo in una zona di storia calda, anzi rovente, e piena di odio e amore e umanità, nel senso bello, ma anche tremendo del termine.
Prima di spendere due parole su Gdynia, un appunto sulla nostra casa di oggi: Blues rooms, ostello che si trova sopra un pub ed è tutto a tema musica americana anni '60-'70.
Le bici stanno sul palco, accanto alla batteria, tra gente che beve birra e ride forte.
Dicevamo, Gdynia. Città portuale che, con Danzica e Sopot, dà vita alla tripla città del golfo.
Prima stazione di pescatori, venne costruita solo a partire dal 1921, presa dai tedeschi nel '39 (nonostante i tentativi strenui e disperati di difesa) e dai sovietici nel '45, non riportò gravi danni durante la guerra, ma il porto fu distrutto.
Oggi è una città ricca di cultura e turismo, locali, musei e attrattive di ogni genere. Una città in definitiva piacevole, anche se c'è un aspetto che devo segnalare. Lo faccio subito, così ci leviamo il pensiero. Queste città (pure Sopot e Danzica un po' soffrono dello stesso male) hanno degli scorci bellissimo, meravigliosi, incredibili... Che si alternano a strettissimo giro con panorami desolati e sporchi, dimessi, degradati. Guardi di qui e c'è un edificio storico, guardi di là e ci sono cassonetti e palazzoni cadenti. Guardi in alto e si staglia un campanile in mattoni e guardi sotto e trovi container, binari, rumoroso via vai di camion. E' tutto insieme, senza distinzione tra centro e periferia, quartiere storico e quartiere delle industrie.
Però l'insieme è particolare e caratteristico, un po' meraviglia un po' marciume.
L'unico museo che decidiamo di visitare è quello dell'emigrazione, che si trova nell'edificio da cui migliaia di polacchi son partiti verso nuovi mondi in cerca di fortuna, o, almeno, un po' meno di sfortuna.
Proprio di fronte si trova il monumento agli "Uomini del mare", accanto alla capitaneria di porto.
Intorno, navi e il mare grande e terribile.
Dentro, la storia di migliaia di famiglie, di volti, di nomi, molti dei quali perduti nel vento. Non è solo un museo dell'emigrazione polacca, è un filo rosso che ripercorre la storia del popolo di questa nazione dalla metà dell'Ottocento e dai primi moti rivoluzionari fino ai giorni nostri. Con le sfighe infinite e le diverse fortune che la Polonia ha vissuto.
Non si può descrivere ciò che questo museo lascia. La miseria che spinge a imbarcarsi per il vasto mare infecondo, la paura e i sogni. Il lieto fine di molti, la nuova vita di altri, meglio o peggio non si sa. La consapevolezza che la stragrande maggioranza dell'umanità ha vissuto e vive come bestie da soma, nel poco o nel nulla, e che non è vero, ma proprio no, per noi, che si stava meglio quando si stava peggio. Chi dice così è ignorante e non conosce la storia.
Usciamo, pensando a questo strano animale che è l'uomo, che vuol essere stanziale ed è nomade, che traccia le linee e segna i confini e recinta l'orto, e poi però fa su il suo fagotto e la valigia di cartone e si affida alle correnti pur di varcare la linea, il confine e l'orto.
E che questo valeva anche per noi, noi italiani che abbiamo dimenticato di essere un popolo di migranti. E vale per chi oggi lascia gli affetti e una zolla di terra, si affida ai trafficanti di uomini e tenta la sorte nel Mare Nostro, in cui si continua a morire. Per noi è forse normale e non ci tocca la notizia di altri 10 o 100 annegati, o altri 1000 rispediti al mittente, dagli aguzzini da cui cercavan rifugio.Mi viene in mente la preghiera laica di Erri De Luca:
Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola e del mondo,
sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale.
Accoglie le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde,
i pescatori usciti nella notte,
le loro reti tra le tue creature,
che tornano al mattino con la pesca
dei naufraghi salvati.
Mare nostro che non sei nei cieli,
all’alba sei colore del frumento,
al tramonto dell’uva di vendemmia,
ti abbiamo seminato di annegati
più di qualunque età delle tempeste.
Tu sei più giusto della terraferma,
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le vite cadute
come foglie sul viale,
fai da autunno per loro,
da carezza, da abbraccio e bacio in fronte
di madre e padre prima di partire.
Tra queste nuvole e questi pensieri usciamo e, di binario in molo, ci spostiamo verso il centro di Gdynia, che si raggiunge dopo una bella passeggiata immersi nel degrado post sovietico.
Le vie del turismo sono decisamente diverse, forse meno autentiche, ma più vicine alla nostra idea di bella città. Palazzi e casette, locali e negozi si susseguono.
Spunta la stuatua di Antoni Abraham, promotore della cultura di Pomerania, scrittore e attivista per i diritti dei casciubi.
Arriviamo al cuore di Gdynia, la piazza Kosciuszki, ampia e baciata da un sole obliquo che ricopre tutto di miele, compreso il monumento ai caduti della Seconda guerra mondiale
i palazzoni che paiono navi
le foto che ricordano la storia e il passato marinaresco della città
e le giostre e i baracchini dei turisti.
Arriviamo al molto centrale del porto, dove riposano due navi museo, oltre all'acquario e museo oceanografico. La prima è la Orp Bliskawica, cacciatorpediniere polacco-britannico usato dal '37 per numerose operazioni, dalla Campagna di Norvegia al recupero delle truppe a Dunkerque e persino allo sbarco in Normandia. In seguito nave scuola, poi museo, oggi è il più vecchio cacciatorpediniere ancora conservato.
Subito accanto riposa la Dar Pomorza, Fregata bianca, veliero polacco costruito nel 1909, nave scuola che ha servito in Inghilterra (era finita lì per come debito di guerra) e Francia e poi di nuovo in Polonia, dopo esser stata ricomprata.
Pare di esser stati catapultati in un quadro di qualche pittore fiammingo amante dei dettagli. La luce, limpida e morbida a un tempo, addolcisce le forme e impasta i contorni, come in un dipinto ad olio.
Torniamo verso l'ostello passando per i baracchini animati e le giostre. Non mancano i gelatai, che per lo più offrono questo prodotto qui, soffice e schiumoso, che gelato non è, ma piace assai.
Domani tappa brevis e turistica: circa 30km con visita a Sopot e Danzica. Le tre città, insomma, che han scritto la storia di questi luoghi.
22/7/20
giorno 19
Gdynia-Danzica
35km
Mattina limpida e spettinata dal vento anche quella di oggi, che ci accoglie con una luce immensa che abbacina e va vibrare i colori di purezza vivida.
Torniamo al molo per salutare le navi che tant'acqua han visto, e tanti cieli e volti
e per ammirare i due monumenti al fondo del molo: le vele e la statua a Joseph Conrad. Il famoso autore inglese, polacco di origini (la sua città natale ora è in Ucraina) servì nella marina mercantile prima di essere pubblicato e non ha nulla a che fare con Gdynia, ma amen, porto, mare Polonia, tutto fa brodo.
il museo oceanografico |
il monumento a Conrad |
Oggi stiamo il più possibile sulla costa, seguendo l'Eurovelo 13, di nuovo, tra spiagge d'oro baciate da un sole tiepido e gentile
e musei della marina, che ricordano tempi tutt'altro che gentili.
Poi di nuovo belle ciclabili lungomare, poco affollate e silenziose, su cui riecheggia il grido dei gabbiani portato dal vento
lunghi moli di legno protesi all'orizzonte
e maledetti sterratini sabbiosi e impestati di lavori in corso e gradini, perchè l'Eurovelo non perdona mai, nemmeno quando si devono fare solo pochi kilometri.
Però ci sono dei gran servizi, e delle gran scolaresche che attraversano i parchi con quel disordine bello tipico dei ragazzini.
Dunque altri boschetti e sentieri, per non pedalare mai troppo in fretta o con troppo agio
e finalmente Sopot, prima tappa del nostro tour di oggi.
La perla del Baltico, la Montecarlo del Golfo di Danzica, questa cittadina vanta il molo in legno più lungo d'Europa (oltre 500 metri), un festival della canzone internazionale e una storia di rinomata località termale e di cura. Nonostante le avverse vicende storiche, che han fatto terra bruciata anche qui, e a più riprese, la cittadina è rimasta località turistica e ha accolto attori e star del cinema, della musica, capi di stato di varia natura, da Hitler a Castro, e pure papa Wojtila. Insomma, gli hotel e le spiagge qui hanno avuto ospiti di un certo riguardo.
Tra il molo e la via principale, dedicata agli eroi di Monte Cassino, si incontrano tutte le attrazioni turistiche principali, dai botteghini che vendono la qualunque, ambra e pellicce incluse, al faro
alla Casa storta, che ospita un centro commerciale piuttosto squallido dentro, ma particolare con le sue linee curve e sciolte fuori.
La via si chiude poi con la chiesa di San Giorgio, dell'inizio del secolo scorso, convertita al culto cattolico dal '45.
Finita la breve visita in quel di Sopot, muoviamo verso Danzica, le cui periferie sono ormai vicinissime. Già che dobbiamo attraversare la città, ne approfittiamo per qualche deviazione furba.
La prima, alla cattedrale di Oliwa, che svetta nell'omonimo quartiere ed è sede dell'arcidiocesi di Danzica.
Si trova sulla vetta di una silenziosa collinetta tutta parchi e cimitero e risale alla seconda metà del '500 su una struttura già del XII secolo. Gli stili rinascimentali, barocco, rococò e neoclassico si mescolano in questo cuore della spiritualità polacca.
A questo punto è ora di tirar diritti verso l'ostello, in pieno centro. Non senza aver prima notato i soliti monumenti alla storia pacifica dei luoghi.
La prima meta della nostra visita è il Centro europeo Solidarnosc, che si raggiunge attraverso una passeggiata tra edifici cadenti e aree degradate di quelli che furono i cantieri navali Lenin.
Qui nacque il sindacato e movimento di resistenza civile d'opposizione al regime comunista.
L'edificio, museo e biblioteca, richiama i cantieri navali ed ospita la mostra permanente che va visitata, se si è da queste parti. E' imperativo.
La visita, grazie alle audioguide che accompagnano per tutto il percorso, è assolutamente immersiva ed emozionante. Ripercorre la storia polacca dal '45 in poi e si concentra non solo sulle vicende di Solidarnosc e del suo leader Walesa, ma pure sull'idea stessa di resistenza pacifica, solidarietà e necessità del dialogo come unica via percorribile, esclusa la violenza.
Emerge la forza di chi non ha potere, l'importanza della collaborazione e del pragmatismo, ma condotto con la parola. Il dramma di un paese due volte schiacciato in meno di mezzo secolo e la speranza e la vittoria della gente.
C'è veramente tutto e, nonostante ogni storia abbia le sue luci e le sue ombre, qui emerge chiara la volontà di costruire insieme, allora come ora, un futuro umano e libero.
A completare la bellissima esperienza, si può salire sul terrazzo panoramico del centro. Qui l'audioguida spiega la storia del quartiere e dei dintorni, che si possono abbracciare dall'alto in un solo sguardo.
Qui, tra queste gru, è nato Solidarnosc. Qui un tassello del mosaico che chiamiamo Europa ha cambiato volto.
Dopo questa esperienza indimenticabile, che lascia pieni di speranza, nonostante tutto, nei confronti dell'umanità, tocca invece rifare un bagno di realtà nel nuovo (2017) museo dedicato alla Seconda guerra mondiale. Perchè pure quella è, in un certo senso, cominciata qui.
Anche di questo museo non si può dir nulla, se non che toglie il fiato. E si soffocherebbe, se non si sapesse già che c'è un lieto fine. Qui in Polonia sono successe le cose peggiori, le più atroci e disumane. Perpetrate su due fronti, dai sovietici e dai nazisti, per la guerra, per la terra e per la razza, senza alcun senso, senza più contatto con la realtà della vita altrui.
Foto, filmati, oggetti e ricostruzioni di interi ambienti immergono del dramma e nell'orrore, nella resistenza e nella paura
Si percepisce chiaramente cosa è rimasto, quali ferite, quante macerie.
e questo edificio storto racconta l'ancora più storta storia delle vicende di quegli anni. I due musei visitati mi portano a dire che Danzica, sì, è città per la pace. Perchè ha vissuto la guerra. E la ricorda e ne parla in modo crudo e diretto, senza perifrasi nè eufemismi. Questo è stato. Che non sia più.
Peccato esser di memoria tanto breve, ahimè.
Carichi di un enorme fardello di immagini e pensieri, stemperiamo lo sciame scuro nel caleidoscopio di colori del fiume Motlawa, che raccoglie i riflessi dei mattoni rossi della filarmonica e li fa danzare nell'azzurro profondo.
Prima di rientrare in ostello salutiamo la sera che arriva. Domani visiteremo il centro storico, prima di lasciare questa città d'acqua e ferro, di fuoco, di morte, di fiori e di vita fortissima che rinasce sempre.
Della storia della città parleremo un poco più in là. Per ora abbiamo detto che qui son precipitati gli eventi che han dato inizio al secondo conflitto mondiale (la Polonia rifiutò di cedere Danzica al Reich) - correva l'anno 1938, e qui è nato Solidarnosc.
Chiudo stasera leggendo un po' di Milosz, ritrovato oggi dopo tanto tempo, e sempre con piacere sottile di luoghi condivisi.
Il senso
– Quando morirò, vedrò la fodera del mondo.
L’altra parte, dietro l’uccello, il monte e il tramonto del sole.
Letture che richiamano il vero significato.
Ciò che non corrispondeva, corrisponderà.
Ciò che era incomprensibile, sarà compreso.
Ma se non c’è la fodera del mondo?
Se il tordo sul ramo non è affatto un indizio
Soltanto un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
Si susseguono non curandosi del senso
E non c’è niente sulla terra, tranne questa terra?
Se così fosse, resterebbe tuttavia
La parola una volta destata da effimere labbra,
Che corre e corre, messo instancabile,
Verso campi interstellari, nel mulinello delle galassie
E protesta, chiama, grida.
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