giovedì 21 luglio 2022

11-12. Cactus, avvoltoi, roccia e scaglie d'azzurro







Martedì, 19/7
Puerto Inca - Atico
103km

Oggi "abbiamo vinto" noi. Eh sì, caro Eolo, mi spiace ma questa volta devi accettare che i piccoli esseri terricoli che cigolano sulle loro biciclettine hanno avuto la meglio sulla tua forza cieca. Longa brevis: tra Puerto Inca, dove abbiamo dormito stanotte, e il primo paese dotato di strutture, Atico, ci sono più di 100km e più di 1000 metri di dislivello. Cifre del genere, in questi giorni di vento contrario, bastardo, incessante, sono impensabili. I giorni scorsi siamo arrivati intorno ai 90km, sopportando una fatica smisurata e indescrivibile a chi non vive queste esperienze, e sempre abbiamo pedalato un po' al buio, cose che, per sicurezza, su queste strade sarebbe meglio evitare. Ergo, immaginatevi che ansietta sapere che oggi ci aspetta una tappa ancora più tosta di quelle già affrontate, pena campeggiare alla bell'e meglio in zone in cui sarebbe vietato (dalla legge) ed è sconsigliato (dal buonsenso). Le previsioni davano il solito vento teso da sud, proprio la direzione in cui stiamo muovendo noi. Tuttavia (spoiler alert) ce l'abbiamo fatta e anche in tempi ragionevoli.

Sveglia presto, ci aspetta il tappone. E poi, prima di ripartire, voglio visitare le rovine di Puerto Inca e le cuevas dei pinguilli. Come sempre, qui, la prima luce è opaca e grigia di bruma che pesa sugli occhi e sull'oceano. I gabbiani ci svegliano all'alba e la caletta si presenta ancora silenziosa e vuota.





Facciamo colazione e, mentre Gigi sistema la sua bici, io vado al sito archeologico, una passeggiata di 10 minuti dalla nostra casetta in pietra. Il paesaggio intorno è misterioso e dà un senso di lontananza, nel tempo e nello spazio. Mi ricorda in qualche modo l'Islanda e i suoi deserti, ma qui è tutto ancora più arido e brullo, per quanto più "umano" (antropizzato). Le calette di terra rossa e sabbia nera, vulcanica, si susseguono tra dune e scogli acuminati come fauci aperte.





Il sito è completamente vuoto. Si intravedono solo alcune barchette di pescatori poco lontano da riva. Sono sola qui. Si possono chiaramente distinguere i sassi scuri utilizzati per la costruzione degli edifici, che risalgono ai secoli XIII-XIV. Ci sono abitazioni, torrette sepolcrali, depositi esterni e colcas, cisterne interrati, nonchè secadores, spazi usati per pulire ed essiccare il pesce.






Da qui, poi, il pesce veniva portato a piedi su su fino a Cuzco, lungo una delle strade perpendicolari al litorale che collegavano la costa alle vette andine, dove stava annidata la capitale dell'impero incaico. E' impressionante pensare allo spostamento di uomini e merci su distanze così vaste, in un territorio tanto impervio (lo è oggi, figuriamoci allora!).





Non manco di allungare la passeggiata fino alla battigia, dove vedo, finalmente da molto vicino, un avvoltoio dalla testa rossa e calva che se ne sta appollaiato su uno scoglio. Sembra un tacchino e non incute alcun timore, ma evito di dirglielo per non intaccare la sua autostima di necrofago di un certo rispetto.





Camminando per sentieri impervi (che, fatti in bici, ci permetterebbero di risparmiare km e dislivello, ma sono di sabbia spesso e impedalabili) arrivo agli scogli dove i pinguini trovano riparo, ma non se ne vedono ora (e Gigi ieri diceva che, per come è difficile da raggiungere l'hotel per la sterrata ripida che lo collega alla strada, i pinguini avrebbero dovuto fare lo striptease... mi viene in mente il fagiano in vetrina dei Griffin https://www.youtube.com/watch?v=GGOwn5MeTng )











Arriva il momento di mettersi in marcia, per quanto la pace di questo luogo e il suo alone di malinconia invitino a restare.
Ci saluta un pappagallo, che è libero dalla gabbia ma probabilmente risiede qui stabilmente.





Risalire per il sentiero sabbioso fino alla Panamericana è, già di per sè, un'impresa che prosciuga le poche energie. Abbiamo accumulato stanchezza, in questi ultimi giorni, il corpo presenta un conto salato da pagare. Il fondo instabile, il tolon onduleè e le pendenze a tratti impegnative ci impongono il cambietto molle rampeghino fin da subito e i 3km iniziali ci tagliano subito le gambe. Ma, una volta raggiunto l'asfalto di nuovo, una lunga discesa a strapiombo verso l'oceano ci conduce verso Chala.


Incrociamo due arzilli olandesi che stanno risalendo il Perù dal Cile, con un viaggio iniziato quattro mesi fa. Ci raccontano un po' di esperienze, ci spiegano com'è la strada tra Arequipa, Puno e Cuzco. Parlano delle difficoltà ma soprattutto della bellezza dei luoghi, come sempre capita tra chi viaggia in bici.



Dopo i saluti, ripartiamo e raggiungiamo il decadente borgo di pescatori che è l'ultimo avamposto umano per i successivi 90km. Qui facciamo scorte di cibo e acqua per la giornata, anche perchè non sappiamo se riusciremo  a percorrere tutta la distanza che ci separa da Atico.




Tra cani emaciati ed edifici cadenti, nella polvere, restiamo un attimo imbottigliati in una colonna di camion ferma a causa di un caoticissimo senso unico alternato, dovuto a lavori in corso nel centro del paese. Signore vestite con abiti tradizionali ma fluo, ad alta visibilità, vendono porcatine da mangiare agli autisti. Noi, nel caos generale, riusciamo a divincolarci e a passare.



Attraversiamo la periferia di Chala e iniziamo la prima salitella delle molte di oggi.





Un'enorme statua di Vergine in cemento veglia il desolante quartiere alto, che man mano cede il passo a quelle che definirei baraccopoli, ma non sono disordinate nè, soprattutto abitate (credo).



Sono casette piazzate nell'altopiano arido, frustate dal vento, immerse nella sabbia, animate solo da qualche cane ossuto.




Noi continuiamo a salire pian piano, stupiti dal fatto che il vento c'è, ma non forte, non paragonabile in alcun modo al delirio di violenza dei due giorni scorsi. Ne approfittiamo, cercando di pedalare svelti e lasciarci alle spalle ampi lembi di strada.


Anche qui gli edifici abbandonati e i ruderi sono usati come "strilloni" per promuovere i candidati delle elezioni del 2023. Non c'è muro che si salvi, anche nell'angolo più inculato (pardon) e desolato del paese. Una campagna veramente capillare!




All'improvviso la strada vira al basso in una serie di larghi tornanti che girano attorno alle dune di sabbia, ora con sfondo i monti, ora l'azzurro ammiccante dell'oceano. Questo tratto, in discesa e al riparo dal vento, dura poco, ma è una tale goduria che ci ridà la carica per affrontare qualsiasi divinità avversa.







E poi eccoci, di nuovo, finalmente, fianco a fianco al Pacifico che respira la sua salsedine nella brezza. Brezza, sì, perchè il drittone lungomare su cui pedaliamo è per lo più al riparo dal vento. I muraglioni scoscesi di sabbia ci coprono e noi riusciamo a goderci il tragitto, con lo sguardo sempre rapito dal movimento dell'acqua, delle onde, dei gabbiani.






Mi stupisce moltissimo che su questa costa non ci siamo paesi, insediamenti, villaggi. Nella vecchia Europa tutto partiva dalle spiagge, dalle città in riva al mare, che era fonte di sostentamento e via di collegamento primaria, in epoche in cui la rete stradale non esisteva o quasi. Qui invece la costa è desolata e i pueblos si trovano piuttosto nell'entroterra, arido e polveroso, chissà perchè.




L'oceano chiama ogni volta a pensieri grandi, accoglie la vastità, contiene tutto. Mi mette un po' i brividi pensare a tutti gli animali abissosi che lo popolano e a volte emergono, pallidi, affilati di denti, ciechi. E mette i brividi anche pensare a tutti quegli uomini che hanno affidato la loro vita a una vela, un'ancora, un timone, spesso senza nemmeno sapere verso dove si facesse rotta. Sono proprio una volpe di pianura, eh.



Intanto esce il sole e la strada comincia a salire e scendere con tratti esposti al vento. Ma i colori che la luce ci riserva sono impagabili. Nessuna tonalità d'azzurro e blu manca, tra cielo e mare, che si mescolano sulla linea dell'orizzonte ma senza confondersi, che è pure una bella definizione d'amore. La sabbia splende e fa da contraltare a quei colori di distanza, sa di estate, anche se la temperatura è fresca e non si vede anima viva su questa spiaggia.







Nonostante la fatica inizi a farsi sentire e il passo sia rallentato, continuiamo a pedalare inebriati dallo sfondo incantevole che dà al cuore un fondo di mare calmo. Persino il traffico tace e i camion sono pochissimi oggi.


Una salita, una discesa e il paesaggio muta ancora. L'oceano resta un poco più distante e tutt'intorno alla strada si spalanca una piana chiarissima, spettinata dal vento, aperta da scavi di estrazione mineraria. Sembra il Kirgizistan, ma qui c'è l'oceano. Sembra Marte, ma qui ci siamo noi.







Ogni tanto una capanna di legno e giunchi interrompe il vuoto della spiaggia; tuttavia molte di queste casette sono disabitate, e chissà da quanto.



La prima fila di alture ci osserva, da non molto lontano, tra bruma e nubi.





Maciniamo kilometri senza soste. Solo a tratti mettiamo il piede a terra per distendere un attimo la schiena. Ma oggi non vogliamo arrivare al buio e quindi tiriamo dritti. Mangiamo pedalando, beviamo pedalando, chiacchieriamo, ridiamo, fuggiamo dai perri, sempre tutto pedalando.




Lo sfondo cambia di nuovo, ormai è pomeriggio inoltrato. Il sole sparisce dietro a uno strato di caligine e pietre e scogli dalla forma acuminata dominano l'orizzonte a monte e a valle. Qualcosa ancora mi ricorda l'Islanda, temperatura e assenza di precipitazioni a parte.
A tratti, stordita dal vento che rimbomba nelle orecchie e dalla fatica, mi guardo intorno e penso: ma dove sono? Dove mi trovo? Come quando ci si sveglia di soprassalto, magari non a casa propria, e per un attimo non ci si capacita, non ci si ritrova, ci si sente persi. Dove sono? E' il mio primo viaggio in America del Sud e le immagini delle altre avventure si affastellano e sovrappongono. Quando sono lucida tutto è in ordine e ricordo ogni cosa nei minimi dettagli (soffro della croce e delizia di una memoria che registra TUTTO). Ma quando la ragione perde terreno e l'inconscio, che lavora per immagini, prende il sopravvento, quando per lo sforzo si torna bestie, tutti i ricordi affiorano in disordine, mescolati, sovrapposti. Affiora a fior di pelle tutto ciò che ho visto e vissuto, i luoghi su cui ho posato lo sguardo, i volti, gli orizzonti, le luci, le voci, l'eco di trent'anni di esistenza al mondo che sale come marea montante e travolge. Alzo lo sguardo, vedo un mare, delle alture, un cielo grigio. Dove sono?





Raggiungiamo la minuscola Chorillo, dove tutta l'economia ruota attorno a due attività: gli pneumatici e le alghe. Per i primi, ci sono almeno 10 officine che cambiano e riparano, su un paese che farà 30 abitanti. Per le seconde, invece, tanti affollano le baie e gli scogli a raccogliere mucchi di alghe nere e dall'odore acre e salato, simillimo a quello dei croccantini per gatti.
Le alghe vengono raccolte, appallottolate in piccole balle e lasciate ad essiccare al sole in grandi campi recintati.







Siamo esausti ma contenti di aver percorso già tanta strada. Gli ultimi strappi, ora sì controvento, sono i più duri. Le gambe mi fanno male con fitte lancinanti in ogni dove, il collo è bloccato, la schiena scricchiola. Mi sento invecchiata di duemila anni in 8 ore in sella. Ma ci siamo quasi. Superiamo la riserva naturale de La Punta, con il suo porticciolo in cui riposano le barchine dei pescatori.



Passiamo in corridoi scavati nella roccia, che la strada apre come una ferita che non rimargina,




scendiamo tra scogli a forma di denti di squalo e... Finalmente raggiungiamo la nostra meta, Atico, cittadina caotica ma fornita di tutti i servizi: hotel, ristoranti, botteghine e varie amenità. Ci fermiamo anche a un benzinaio a gonfiare la mia ruota posteriore. Ha perso pressione, pur non sembrando bucata, e da decine di kilometri mi trascino il carico dei bagagli e della bici con una gomma zoppa. Vedrai che ora mi dolgono le chiappe come se avessi fatto centomila squat. In ogni caso gonfiamo, e nel frattempo, prenoto su Booking l'hotel più vicino: 160 metri. A piedi avremmo fatto prima, ma almeno so che c'è posto di sicuro.


Ora, proprio dall'hospedaje Luz de Luna che affaccia alla Panamericana, devo fare una confessione. Ho un problema di accumulo seriale di residui terreni di animali morti.


a casa ho una nutrita collezione di ossa e crani provenienti dai più disparati angoli del globo, raccolti durante i viaggi. E qui in Perù è un disastro, si trova di tutto a ogni passo. Arriverò a casa con una valigia extra per tutto ciò che sto raccattando... Questo è il bottino di una sola settimana!

Per cena, stasera, decido di assaggiare gli sponsorizzatisimi peruanissimi chicharron de pollo. Per un attimo temo si tratti di sola pelle fritta (i chicharrones originali sono cotiche di maiale fritte ). Scopro poi con gioia che sono semplici nuggets di pollo, fritte, accompagnate con papas fritas. Insomma, tutto fritto. Tutto insalubre. Tutto buonissimo. Gigi non è da meno, ma più nostalgico e più nostrano: opta per una milaneza de pollo. La cotoletta, di fatto.


Abbiamo studiato le tappe dei prossimi giorni. Saranno più brevi, perchè il dislivello inizia ad aumentare. La meta prima, ora, è la bianca Arequipa, porta d'accesso alle Ande. Da lì saremo in quota, sempre, fino a sfiorare i 5000m.

Mercoledì, 20/7
Atico-Ocoña
77km

Che meraviglia svegliarsi senza la sensazione di dover pedalare distanze disumane, riposati, in pieno controllo del tempo, per quanto concesso all'uomo.
Facciamo una colazione pantagruelica per non deludere l'ospitalità dei proprietari dell'hospedaje e ci sdiamo alla frutta, le uova, il panemarmellataavocado, yogurt, succhi di frutta, tè e li mortè. Poi, strapieni, rotolanti, ci rimettiamo in sella. Prima tappa: banca. Non abbiamo quasi più contante e qui la tarjeta va e non va, piace e non piace. Scopro che non c'è il bancomat (atm), allora entro per farmi cambiare un po' di euro in soles. Mi ferma la guardia giurata: serve la mascherina doppia. Torno alla bici, metto la mascherina doppia, faccio per rientrare e no, serve il greenpass. Bici, greenpas, mascherina doppia. Entro. "Non cambiamo euro, solo dollari. Ah, bon. Do i 60$ che porto fin da Lima e uno, leggerisissimamente spiegazzato, mi viene rifiutato. Quindi cambio 40 dollari che ci devono bastare fino a domani sera, perchè, come mi spiega la signora da dietro al bancone, fino a Camanà non c'è una cippà. "Tre ore di strada" mi dice. Signora bella, magari. Ci mettiamo due giorni, noi. Ma pace. Poi riattraversiamo Atico per far spesina di acqua e pan di via. Il paese si sta svegliando e comincia il casino degli ambulanti e dei furgoni che, con gli altoparlanti, riempiono l'aria di "Tamales tamales naranjas pina pina dulce".






Oggi è tappa di saliscendi costieri, abbiamo 1300m di dislivello da affrontare e subito dopo il paese si comincia subito. La luce è quella grigia del mattino, poco invitante ma ormai sappiamo come funziona: a breve uscirà il sole e sarà tutto un altro mondo. Pure la roccia nuda, con la luce, fiorisce.





Così infatti accade e pian piano cielo, oceano e terra prendono colore e tornano alla vita. In questa zona i fianchi dei monti e i declivi di spiaggia non sono brulli. Ci sono centinaia di cactus, alcuni anche parecchio alti. Sono piante incredibili, antiche, essenziali, cazzutissime. Vivono senza bisogno di quasi nulla, affondano le radici nella pietra nuda e sterile, e, siccome la vita è una lotta di resistenza, si son fatti venire delle spine tante per mettere in chiaro le cose: noli me tangere. Sono belli i cactus, sono bellissimi!





Ora che avete apprezzato anche voi QUANTO siano belli i cactus (e già ho eliminato quasi tutte le foto), torniamo alla strada. A tratti è una panoramica meravigliosa a strapiombo sul Pacifico, stretta tra i monti e le onde. Un balcone privilegiato da cui farsi permeare dallo spettacolo che questo lembo di universo offre. C'è anche poco traffico, per ora, e i camionisti guidano piano e con attenzione: le carreggiate sono strette, proseguino a zigzag e curve peligrose e finire ammmmmmare è un attimo. Anche Gigi teme lo il vuoto che strilla fin giù agli scogli e pedala un po' in mezzo alla strada.











Certo tutta questa bellezza non è gratuita. Si sale e si scende lungo i fianchi di queste alture, che la Panamericana segna come una cicatrice sulla pelle dei grandi cetacei. Pare, a tratti, di essere in California, nel Big Sur, sulla Highway 1, come quattro anni fa. Qui è però tutto più selvatico, più difficile, più arcaico.


Scendo in una spiaggetta, durante una breve sosta: mia mamma, stamattina, mi ha detto che prima di lasciare la costa è bene bagnarsi nell'oceano: porta fortuna e sulle Ande ne servirà. In questa magnifica caletta, mentre osservo la risacca e l'infrangersi ipnotico delle onde, ho la ventura di pestare una mierda, quasi sicuramente umana. Sarà buon segno anche uesto, immagino.




Gigi mi osserva imprecare mentre pulisco il danno. Sogghigna: stavolta è capitato a me!

Ripartiamo, godendoci lo spettacolo di azzurri e oro fino. Intorno volano gli avvoltoi in giri larghi e spesso stanno al sole con le ali aperte, un po' come i cormorani quando devono asciugarsi.


Intorno a mezzogiorno, nel sole alto, tutto appare nella sua più pura, limpida, inebriante meraviglia. La strada ci conduce tra immense dune di sabbia e roccioni a picco sull'acqua cristallina. Pedalare nella brezza tiepida, mentre questa tavolozza semplice e perfetta si impasta intorno in un acquerello di miele e infinito, ci ubriaca di gioia e ci riempie i polmoni di vita. E' un'esperienza da fare, almeno una volta e tutte le volte che si può.










I saliscendi continuano ma tutto intorno è così bello da assorbire completamente la nostra attenzione. Non sentiamo fatica, non peso, non stanchezza. Solo il cuore che batte un ritmo placido e il fiato che si armonizza al respiro dell'oceano. Tutto è. Tutto scorre. Noi pure, al centro del fiume di Eraclito, e nulla fa male. Il culmine della fusione panica si raggiunge quando la strada diventa un abbraccio tra enormi spalle di sabbia, un muro di duna altissima e levigatissima che scende all'acqua con la dolcezza inesorabile degli addii.




i tacchini avvoltoi che, intenti a mangiare i resti di un panino, non si spostano nemmeno a cannonate e, anzi, si mettono in posa per foto



Scendiamo in un volo al microscopico Cerro de Arena, un villaggio di pescatori dove vivono molti ma molti più gabbiani che anime. Dalla battigia sale il grido di migliaia di uccelli marini, i veri padroni della zona.



Un palpito e siamo già fuori. Inizia una salita più impegnativa, che ci porta a 250m sul mare nel giro di poco. E' il momento di assaggiare i biscotti razzisti che ho comprato stamattina, uno dei prodotti di punta delle bodeguite. Cosano un sol e sono una tamarrata latina. Ottimi per far fondo quando si è a secco di energie.



Il cielo si vela, continuiamo a salire. Intorno la roccia è nuda, l'oceano per un attimo sparisce dal campo visivo. Le pendenze sono sempre limitate ma trascinarsi la Signorina Felicita gorda su e su è un'impresa comunque. Ho un piccolo infarto quando, cambiando, mi casca la catena e sono agganciata con entrambi i pedali e la bici è quasi ferma. Questa volta ho la prontezza di sganciarmi al secondo giro a vuoto, a differenza di quanto accaduto in Islanda lo scorso anno. Lì veramente ho rischiato la musata. Qui solo un colpetto al cuore.




In cima a questo promontorio ci attendono un baretto, un venditore ambulante e il santuario Las calaveritas.




Vuoi non entrarci? Si tratta di una chiesina dove automobilisti e camionisti sostano per raccogliersi in preghiera, chiedere una grazie e ricordare i defunti. Ogni angolo è stracolmo di offerte, immaginette, statue di santi e di vergini, ceri, fiori e foto. Non mancano, come offerte, nemmeno frutta, caramelle, cioccolatini, sigarette e bottiglie di birra. Perchè sì.








Subito fuori ci sono, forse, un vecchio cimitero e, sicuramente, un cactus con la scarpa in testa



Poi si comincia a scendere. Incontriamo il quarto cicloturista di oggi, ma nemmeno con lui abbiamo modo di parlare. Traffico e velocità renderebbero pericolosa una frenata brusca. I primi due erano una coppia gringa, il terzo un ragazzo biondissimo di barba e capelli. Questo invece sembra sudamericano e viaggia con una bici stracarica e un po' barboneggiante. Se ne incontrano di viajeros perdidos, gente che va e basta, per l'andare, senza meta, senza soldi, senza, probabilmente, grandi preoccupazioni. Abbiamo conosciuto un ragazzo colombiano così, pochi giorni fa. Sta facendo tutta l'America del sud in autostop.
La valle ci attende dopo un discesone in picchiata, con la sola preoccupazione di star attenti ai sassi che rotolano giù dal fianco el monte finsulla strada. Succede spesso anche mentre passiamo, da tutto il giorno.










Passiamo il villaggio di Pescadores, che, oltre alla pesca, ma va'?, gode del fiume che fa fertile il terreno. Ci sono olivi e campi di mais e patate e tutto è verde come non si vedeva da tempo. Peccato che si riparta subito in salita, con un drittone che pare una rampa infinita ma ci dà una visuale privilegiata sulla valle e sulla foce.






Finisce la salita e, per l'ennesima volta, ricomincia la discesa. Inizia a rinfrescare e l'aria è greve di umidità e sale e polvere. Voliamo attraverso La Planchada, pueblo di pescatori e gente di mare. C'è musica per la strada. Quando la vita è molto dura, ma molto, tanto vale ballarci sopra. Ce lo hanno insegnato i greci antichi: sulla tragedia si canta, e si danza.






Da qui la strada diventa una piramide a gradoni da scalare scoglio dopo scoglio, promontorio dopo promontorio, golfo a golfo. Una galleria un po' più lunga di quelle affrontate finora, buia e decisamente pericolosa per gli standard di guida qui, mi dà il colpo di grazia. Chiedo a Gigi di fermarci un attimo e facciamo sosta su un masso panoramico sull'oceano.


Mentre riposiamo si ferma a breve distanza un furgone da cui escono tre ragazzi e una signora. Tutti si vestono con mute da sub o simili autarchici (tuta coperta da sacchetti di plastica con opportuni buchi per la testa, le braccia e le gambe). Scendono velocissimi come stambecchi giù dal muro di rocce franate fino all'acqua e lì spariscono, intenti a cercare o pescare o raccogliere chissà che. Li cerco con lo sguardo anche quando ripartiamo, ma di loro non c'è traccia.




Rifocillati e riposati ci mettiamo in marcia per l'ultimo strappo. Sembra di pedalare nel Grand Canyon o su Marte. La terra è rossa e striata, come la roccia, squadrata, spaccata, tagliata dal vento in forme che paiono innaturali.




Ma presto si scollina e si apre ai nostri occhi la valle del fiume Ocoña, omonimo della cittadina in cui facciamo tappa stanotte. La verde Ocoña, la rorida Ocoña, la florida, la fertile, la grassa Ocoña.





Questa città risulta come possedimento di un conquistador spagnolo nel 1538, ma è stata ricosciuta come tale solo nel 1825 da Simon Bolivar. Mi ha fatto ridere leggere delle ipotesi etimologiche di questo toponimo. Sono 3: o viene dal quechua e significa "un neonato", come se il fiume partorisse al mare, o viene dall'aymara significa "luogo umido/paludoso"... Oppure un conquistador, meravigliato dalla bellezza della valle verdissima tra tanto deserto e sale, ha esclamato: "Oh figa!", in spagnolo "Oh, coña!". Ipotesi degna di Isidoro di Siviglia, ma ci piace.

Scendendo al paese incrociamo un gruppo di pellegrini tutti vestiti di viola con mantelli e cappe, che portano croci e feticci di... Santi? Sono bamboline di cartapesta e stracci montate su carrelli e passeggini. Uno di loro predica a gran voce in mezzo alla strada, fermando le auto. Gli altri stanno seduti a terra e questuano. Ne abbiamo incontrati tre anche ieri, che spingevano il simulacro su un carretto su per una salita fuori Puerto Inca.



Passiamo il distretto di Pumacoto (che diventa ovviamente puma cotto) e i suoi campi, per portarci in centro e trovare alloggio.



Dopo qualche giro a vuoto optiamo per l'Hostal secretos (perchè segreto? Quali liquidi secreti?). Ci apre una sciuretta con diciotto mascherine, armata di sanificanti e disinfettanti come un pistolero. Vuole i soldi in contanti e subito. La camera è comunque carina ed economica, c'è un copricassetta del water in pizzo e l'acqua calda si ottiene con un impianto elettrico sicuramente a norma.



Dopo esserci riposati un po' usciamo per le vie del paese, che sono piuttosto desolate e decrepite.



Per cena la scelta è varia: ci sono sei locali aperti. Tutte pollerie che offrono gli stessi identici piatti: pollo e patatine o pollo e riso. Ne scegliamo una in centro, la più affollata di locals e perri.



Oggi assaggio il mostrito 1/8, cioè la versione ridotta del mostro, che è il pollo intero. Io prendo 1/8, Gigi 1/4. Anche oggi sfidiamo la sorte con verdura cruda e salsine di dubbia moralità.


Dopocena, come ormai consuetudine, facciamo visita a una delle molte fruterias e facciamo il pieno di frutta fresca dolcissima buonissima. Non resta che rientrare in hotel, dove a momenti restiamo chiusi fuori (chiave e serratura difettosi)



Domani ci aspetta una tappa leggera, sia per dislivello sia per kilometraggio. D'altronde, sulla via per Arequipa, o ci fermiamo a 70km, a Camanà, o dobbiamo tirarne più di 130 a Majes, con oltre 2000m di salite, e non ha alcun senso. Non abbiamo fretta e da dopodomani si comincia a salire, ma per davvero.

2 commenti: