Domenica, 17/7
Nazca-Puerto De Lomas
93km
Quella di oggi è stata una tappa di fatica oscena, smodata, irrispettosa delle nostre persone. Una roba veramente OLTRE. Ma ora sto scrivendo sotto a molti strati di coperte morbide in una casetta a picco sull'oceano, e nel buio si sente il canto ubriaco delle onde alte. C'è mare mosso, il vento oggi è stato implacabile e noi ne sabbiamo qualcosa.
Tutto è cominciato presto, questa mattina. Sul far dell'alba ci siamo goduti la prima luce dalla terrazza dell'hotel, in attesa della guida che venisse a prelevarci per il giro a Cahuachi e Chauchilla. Sorseggiando caffè ho potuto notare i tetti di Nazca
caotici, non finiti e con tanto di tacchini che razzolano tra le antenne paraboliche e le bombole del gas. Mi ha fatto molto ridere il commento della proprietaria, che ha commentato "Esos gallos son toxicos" all'ennesimo chicchirichì (iniziati alle 2 di notte sotto alla nostra finestra e non ancora terminati).
Poi la guida è giunta. Parla solo spagnolo, ma ci capiamo. E' un omino cordiale e disponibile, anch'egli di epoca Nazca, con la pelle brunita e bruciata al sole e rughe che paiono scolpite nel rame. Ci carica su un'automobilina utilitaria tutta scassata e partiamo. Ci mostra, nel casino in uscita dalla città, la masa imponente e sbiadita del Cerro Blanco, la duna di sabbia più alta del Perù e tra le più alte al mondo; 2078m sul livello del mare e 1176 dalla base alla cima. Un gigante silenzioso.
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quest'uomo non stava lavando l'auto. Stava producendo fango |
Prima tappa del tour: l'acquedotto di Ocungalla, che si trova in mezzo ai campi, in una sterrata che corre lungo il fiume Rio Grande. Quest'opera fa parte di un sistema di acquedotti dello stesso tipo (chiamati "puquios") costruiti dalla civiltà preincaica dei Nazca circa 1500 anni fa. L'acquedotto assicurava l'approvvigionamento idrico alla città e ai campi circostanti, permettendo la coltivazione di cotone, fagioli e patate in una regione altrimenti arida. Il modello del trasporto idrico è quello del Qanat, usato anche nell'antica Persia e diffusosi fino in Cina.
La guida, Fernando, ci mostra che l'acqua si può bere ed è pulita (ma noi evitiamo, si sa mai... Anche perchè è stracolma di alghe e pesci di dubbia natura). Ci fa inoltre sentire che è tiepida e ci dice che anche quando il fiume è secco, come ora, la cisterna resta piena.
Inizia poi il momento "piccoli botanici preincaici": con una breve passeggiata nei bricchi, Fernando ci mostra le piante usate dai Nazca come medicine. Un semino (non ricordo il nome, ahimè) estratto da una sorta di piccola fava serviva come antibiotico, mentre le foglie di un'altra pianta dall'odore pungente (nemmeno di questa ricordo il nome) erano usate come repellente per gli insetti. Combinate, erano utilizzate per mummificare i corpi (che vedremo poi). Ci spiega anche che i cactus da fichi d'India sono coltivati non per la pianta in sè, ma per l'insetto che li infesta, la cocciniglia, venduta ed esportata come tintura di tessuti.
Ripartiamo su una sterrata che attraversa il deserto, seguendo il corso del fiume e la sottile linea verde di piante e arbusti che ne circonda le sponde. Ci sono abitazioni sparse di contadini, povera gente che si spacca la schiena e vive in capanne di legno e vimini. "Campesinos" commenta la guida. Ci mostra poi alcune dune irregolari: qui sorgeva un cimitero, usato dai Nazca e dalle popolazioni successive per seppellire i morti comuni, i morti del popolo. Erano fosse scavate direttamente a terra, per corpi singoli; i cadaveri d'alto rango erano invece mummificati e sepolti in tombe costruite con pietre e mattoni; ed eran sepolti in compagnia: famiglie, coppie, dinastie. Qui no. Qui giacciono i resti dei morti senza nome. Nemmeno i tombaroli se ne sono interessati, a differenza di quanto accaduto alla vicina necropoli.
Arriviamo poi, finalmente, al sito archeologico vero e proprio, dove si trovano le piramidi di Cahuachi, "luogo dove vivono i vedenti". E' stato il centro cerimoniale della civiltà Nazca dal I fino al VI secolo ed è costituito da 40 monticelli di sabbia sormontati da struttura in adobe, il tempio scalonato e la grande piramide. Fernando, come i Nazca insegnano, traccia linee nella sabbia per spiegarci che tutto qui ha un senso: i geoglifi sono orientati in modo organizzato intorno a questo sito sacro, che era meta di pellegrinaggio. Tutto è posizionato sui punti cardinali con un senso logico.
Qui i sacerdoti raccoglievano offerte e celebravano riti. Si festeggiavano i matrimoni e ci si congedava dai morti. Si chiedeva alle divinità di intercedere contro la siccità (tant'è che i Nazca furono spazzati via da un'alluvione stile El Nino... Quando i celesti son beffardi!). Si partiva verso i geoglifi per portare doni. Mi colpisce pensare che questo popolo, di agricoltori e pescatori, pacifico, non conosceva la scrittura. E forse le linee erano un modo per comunicare con i numi, a disegni, stile pictionary.
Il sito, per quanto visitabile solo in parte, lungo sentieri che corrono torno torno alle piramidi, è di grande impatto. Il colore chiaro degli adobe, che si distingue da quello della sabbia e riluce al sole, dà ancora ad oggi un senso di sacro, di alto. Figuriamoci allora, quando il mondo era molto, ma molto più silenzioso e tutto era pieno di dei.
Ricordo che qui ha scavato un italiano, l'archeologo Orefici, insieme alla sua squadra.
Dopo una lunga corsa al cardiopalma lungo le piste sabbiose (auto e autista non paiono in grado di reggere... Eppure), torniamo sulla Panamericana, che poi percorreremo in bici, e da lì voliamo alla necropoli di Chauchilla.
Anticamente il sito era conosciuto come "Cimitero dei lama", a causa della grande quantità di resti di lama trovati nelle tombe, accanto alle mummie, in qualità di offerte funebri. La necropoli di Chauchilla risale approssimativamente ad un periodo compreso tra il 900 e il 1500 d.C.; fu utilizzata nel periodo culturale chiamato impero Wari (600-1100 d.C.) ed in seguito dalla cultura Carrizales-Poroma (1100-1500 d.C.). Il sito fu materia di studio sin dagli inizi del XX secolo, ma anche di ripetuti saccheggi dagli anni '50, che la privarono della maggior parte dei reperti archeologici. Gli ultimi scavi risalgono al 1996-2004, quando la necropoli fu restaurata, dichiarata sito archeologico e venne aperta al pubblico (Wikipedia).
I corpi trovati qui sono tutti mummificati in posizione fetale e rivolti ad est. La guida ci spiega che era un modo per propiziare la rinascita dopo la morte, motivo per cui i corpi venivano sepolti con tutti i loro averi, cibo, vestiti, vasellame, animali e preziosi.
La particolarità del sito è che le mummie sono lasciate, aperte, nelle loro tombe. Il clima secco aiuta a conservarle, per quanto siano stati costruiti dei ripari dal sole e probabilmente le sepolture saranno sigillate con lastre di vetro, perchè i roditori si stanno pappando i muertitos.
Di mummie e corpi imbalsamati o conservati in qualche modo ne ho visti tanti, in giro per il mondo. Qui stupisce che i resti, spesso ridotti a mucchi infagottati, ma con capelli ed espressioni talora riconoscibili, sembrano osservare i turisti dal fondo delle loro case eterne, almeno quanto i turisti osservano loro. E' una silenziosa curiosità reciproca. Anzi, questi fagottini di ossa si sganasciano proprio dalle risate, letteralmente!
Tornando, la guida ci spiega che qui intorno ci sono numerose miniere anched'oro e d'argento, e che Nazca ha numerosi centri di lavorazione dei metalli, che confluiscono qui anche dalle regioni circostanti. Un cimitero di campesinos e minatori segnalala presenza di villaggi rurali.
Tutta questa meraviglia di archeologia, storia e storie ci ha rapiti e distratti da un dettaglio: noi oggi dobbiamo anche pedalare, e parecchio. Quasi 100km per tornare sulla costa. E in tutto questo io sono ancora senza mutande.
Torniamo in hotel e per fortuna le signore che lo gestiscono e le loro amiche e amiche di amiche ci fanno riavere i vestiti, puliti e quasi asciutti. Miracolo insperato! Certo, questa lavatrice di favore ci costa come aver buttato via tutto e ricomprato nuovo in un qualsiasi mercatino qui, ma non importa: bisogna ridistribuire la ricchezza, in qualche modo.
Ora che ci rimettiamo in sella, chiuse le borse e comprati acqua e viveri per la tappa (saremo sempre nel deserto), sono già le 11.30. Tardissimo.
A parte il caos dell'uscita da Nazca, i primi 30km scorrono senza attriti sotto alle ruote. Il traffico è gestibil, i perri anche. Il fondo decente, le salite affrontabili. Passiamo il villaggio di Poroma e costeggiamo la Riserva di San Fernando.
Poi iniziano i rosari. I dolori. I cazziamari.
Nel giro di un attimo si alza il vento. Da brezza si trasforma in cattiveria pura urlata in faccia. Un muro d'aria fredda che ci spinge indietro, ci trattiene, ci impedisce il passo.
Sarà così per tutto il resto della giornata.
Il continuo saliscendi diventa una pena. Il rombo inesausto nelle orecchie, dopo poco, disorienta (e impedisce di accorgersi di auto e camion che passano).
Per fortuna intorno il deserto si tinge di colori minerali, verde, rosso, bianco, e lenisce un poco la pena.
Ogni fibra è tesa allo spasmo, non c'è mai un momento di requie. Le ginocchia e la schiena scricchiolano. Ogni tanto, al sommo di un colle, ci fermiamo a rifiatare. Ma Eolo stordisce e fa vacillare anche da fermi, oltre a portare un freddo innaturale.
Proseguiamo a fatica, sempre più stanchi dallo sforzo inesausto, dagli strappi, dagli schiaffi del vento. A poco meno di metà, sull'incrocio che porta a San Juan de Marcona, incappiamo in un micropueblo per viandanti e peccatori.
Ne approfittiamo per una ricca, insperata sosta al riparo dalle furie di Eolo; un ristorantino, che fa anche da bazar e parrucchiere, ci offre rifugio. Da questo patio ci si gode il deserto nella sua pura essenza, si sta bene e tutto pare bello e ben rifinito,
e anche i perri e il gatto (lo potete vedere nella foto sotto, nella colonnina azzurra a bordo muro, sotto al secchio d'acqua) sono docilissimi e amorevoli. Solo il bagno è, diciamo, un'esperienza. Vi dico solo che in questi edifici manca l'acqua corrente, quindi il wc è un closet senza water. Un'urna in ceramica che contiene e conserva, praticamente.. Il resto si spiega da sè. Per lavarsi le mani c'è un secchio di acqua antica e torbida, uno per tutti, tutti per uno.
Tocca ripartire. Da qui in poi l'incedere si fa sofferto, doloroso, possibile solo grazie ad una grandissima forza di volontà che spinge ad andare. Tutto nella consapevolezza che non c'è tempo da perdere: procediamo a circa 10km/h, spingendo come bestie disperate, e la strada è ancora lunga, e il tramonto non lontano. Pedalare con il buio andrebbe evitato.
Guida allucinante dei peruani, sabbia sulla carreggiata, bordo inesistente, salitelle e, soprattutto, il vento contrario, trasformano le ultime decine di kilometri in una vera e propria via crucis. Vi dico solo che il vento era così forte che, respirando a volte dalla bocca, mi gonfiava le guance come un batrace triste. Fatica. E ansia di non riuscire a raggiungere il primo barlume di civiltà, al km 93, dopo tanto nulla.
A un certo punto cala il freddo e il cielo si annuvola, torna lattiginoso e inquietante come nei primi giorni. Sa di fine del mondo imminente e ci angoscia vieppiù.
Quasi alla fine della tappa si susseguono alcune rapide discese che ci fanno riguadagnare un pochino di fiducia. Certo si scende sopravvivendo al fondo sconnesso, allo sbandare per il vento e ai tir che mai, mai rallentano, mai si fermano, mai allargano. Registro un TikTok scemo, cerco di tenere la testa impegnata in altro. Restare nel momento ora è difficile, perchè la fatica sta prendendo il sopravvento. "Resta colo dolore!" insegna il Fight club. Ma non è facile e il crepuscolo incombe. Arriviamo alla deviazione per Puerto de Lomos, primo paesino degno di tale nome, con strutture. Scendiamo proprio sulla costa, ormai con le luci accese.
L'abitato si mostra ammiccante nei lampioni che baluginano per la distanza (e per il vento). Tiriamo, spingiamo, lottiamo contro Eolo per questi ultimi kilometri.
Troviamo finalmente l'hotel che ieri ho contattato, per email e poi anche al telefono. Nel primo caso senza risposta, nel secondo sentendomi dire che non c'è problema, non serve prenotare: è vuoto.
Arriviamo, tutti contenti di averla portata a casa anche oggi e... Una donna di cui non riporterò gli epiteti ci squadra con sufficienza per dirci che non c'è posto, non abbiamo pagato la caparra, non c'è modo alcuno per.
Mavaffanculo.
E ora?
Google mi segnala un altro hotel, subito avanti, ma passiamo più volte senza vedere nulla. Non un'insegna, non un cartello, non un citofono. Alla fine dico a Gigi di suonare al campanello dell'edificio che su Maps risulta come albergo (El Abelardo). Se non sono loro, ci daranno informazioni.
Inattesa gioia: sono loro! Due signore sorridenti e gentilissime ci fanno entrare, mentre due cani e un gatto ci fanno gran feste. Nel giro di un attimo abbiamo la camera, che è letteralmente sopra all'oceano. Le onde e i gabbiani fanno da tappeto sonoro alla nostra stanchezza e alla gioia di poterci riposare. Il vento, fuori, ulula ancora e fa tremare i vetri e i tetti.
Usciamo a cena dopo esserci docciati e riposati (e liberati dai kili di sabbia che ci portiamo addosso, nelle scarpe, nei vestiti, nelle orecchie, in tutti gli orifizi). Giro breve in paese, di cui vediamo la piazza e la via dello struscio
e poi via a cena in uno dei molti localini che affollano la strada centrale. Sono luridissimi, untissimi e ne esce un vapore profumato di cibo fritto grasso e spesso buonissimo. Fuori sta il trabiccolo dove si griglia, dentro i posti a sedere alla buona. Ne scegliamo uno che pare il più raffinato.
Tavoli e sedie e sgabelli sono coperti da una crosta di roncio di epoca Nazca. Un Gesù di dubbio gusto mostra il sacro cuore alla griglia, manovrata da una donna afroperuviana di forma cubica, che apre mezzi polli a mani nude e li spatascia a cuocere tra spezie e salsine. Si mangia con le mani, se proprio vuoi puoi avere il lusso inutile di una forchetta. Niente bicchieri, niente fronzoli da borghesi.
Prendiamo un salchipapa e una parillada de pollo. Tutto è buonissimo, comprese le patatine fritte che sono preparate ab origine, a partire dalla papa cruda. Stasera i minima moralia igienici vanno a farsi benedire. Mangiamo con le mani, beviamo a canna da bottigliette polverose e abbondiamo con salse miste rigorosamente aperte, non conservate in modo corretto e pericolosissime anche solo a guardarle. Tuttavia, se devo prendere (di nuovo) la salmonella o qualche infezione simile, la prendo contenta. Infatti, nemmeno a dirlo, è tutto buonissimo.
Concludiamo la serata con acquisti minuti: frutta, qualche biscotto, qualcosa di buono da bere mentre si scrive, una volta tornati in camera.
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gatto non in vendita
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Ora scrivo e si sente il rombo delle onde sotto di noi. I gabbiani tacciono, mentre il vento fa scricchiolare persino i muri, che son di legno e danzano alle intemperie.
Domani ci attende un'altra giornata campale, di kilometri, perri, salite e, stando alle previsioni, ahimè, vento contrario ancora.
Lunedì,18/7
Punta de Lomos - Puerto Inca
86km
Anche stasera la nostra cameretta affaccia all'oceano, e nel buio la sua voce parla di abissi e lontani bagliori di navi e stelle, anime e pesci pallidi. Anche stasera ogni fibra del corpo duole e chiede riposo, è assetata di requie. Anche oggi è stata una tappa tosta, di vento contrario e strappi in salita, e sabbia negli occhi e tra i denti.
Tutto è cominciato nella quiete del risveglio. Tace Eolo e il Pacifico è degno del suo nome. Cormorani e gabbiani affollano gli scogli e la luce è color latte.
Facciamo colazione in camera con qualche biscotto comprato ieri sera, e nel giro di un attimo compare il sole a ridipingere tutto lo sfondo, il cielo e il mare e la spiaggia. Uno spettacolo di pace che invoglia a restare, a fermarsi. Ma la strada ci chiama.
Ormai pronti per uscire, scopriamo che la gentilissima signora dell'Abelardo ci ha preparato la colazione, classica international peruana: caffè, pane, burro, marmellata (buonissima, fatta in casa) e uova sbattute. Una nota: il caffè viene servito ristretto in piccolo bricco simile a quelli in cui da noi si mette il latte, sempre accompagnato da un thermos di acqua bollente e una tazza vuota. Scopo del gioco è allungare con acqua il caffè ristretto, a piacere, e zuccherare. Niente latte.
Gigi ha l'onore di mangiare quasi tutto ciò che ci viene portato e quindi fa una seconda e terza colazione. Ripartiamo poi sotto ad un cielo imbronciato, attraversando il paesino di Punta de Lomos e ripercorrendo la via fatta ieri, per tornare sulla Panamericana. Molte case, interi quartieri, risultano distrutti e la gente ancora vive in capanne e baracche.
Questi 6km sono gli unici tranquilli dell'intera giornata. Persino i perri mali, che ieri ci hanno inseguiti nel crepuscolo, dormono ancora o sono intenti a divorare i resti del pesce buttati al porto. Poi imbocchiamo la nostra carrettera e ricomincia la pena.
La strada corre dritta attraverso dune e promontori, tagliandoli di netto con rampe di continuo saliscendi. Niente di che, non fosse che il vento già si leva teso e contrario, e aumenta in violenza ogni minuto.
Passiamo accanto al museo paleontologico de Sacaco, che raccoglie fossili e resti di animali marini preistorici trovati nella zona (per la prima volta, a fine '800, dall'italiano Antonio Raimondi). Decidiamo di non fermarci: di questo passo, a breve, potremmo essere esposti anche noi come mummiette seccate dalla fatica al sole e al vento
Nei brevi momenti di lucidità, formulo questa consapevolezza: il fatto di avere l'oceano in vista rende la vastità del deserto meno inquietante. Si vede una fine, un orizzonte certo. L'occhio abbraccia una distanza concepibile, sa che c'è sabbia da qui a lì, e non oltre. Di per sè non cambia nulla, per noi che andiamo. E' solo una constatazione che desumo dal mio cercare continuamente con lo sguardo la linea blu scuro del Pacifico.
Intorno comunque c'è solo gran sabbia, che è la protagonista della danza di oggi (poi vi spiego). Da un lato dune, dall'altro spiagge. Ora sono deserte, ma comunque segnalate.
Un mirador segnala il punto da cui si può osservare la piana piena di fossili. E' una distesa arida rosa e ocra. Un fondo di bicchiere su cui si son depositati cetacei preistorici, squali giganteschi e altre mostruosità vomitate dall'oceano e da un passato in cui saremmo stati semplicemente prede, tenera carne.
Passiamo alcuni pueblos minuscoli con i loro baracchini che vendono da mangiare e da bere, copertoni e polvere. Molte strutture, spesso in pannelli di canne intrecciate, sono l'equivalente dei nostri stabilimenti balneari a ingresso spiaggia.
Passiamo da Bella Union e Chavina, con il suo fiume e i suoi avvoltoi dalla testa rossa che se ne stanno appollaiati come tacchini nella sabbia, al riparo dal vento.
Pedalare diventa sempre più difficile perchè il vento soffia a raffiche ora contrarie, ora laterali, che fanno sbandare e costringono alla continua tensione dell'intero corpo. Inoltre comincia a sollevarsi la sabbia, che corre come un fiume impalpabile sulla strada, fa risuonare le parti metalliche della bici di infinite campanelle e frusta il viso. Spesso si ammonticchia pure sulla carreggiata, costringendo noi e gli automobilisti a improvvise deviazioni.
Poichè siamo circa a metà strada, decidiamo di rifugiarci per un attimo nella periferia di Yauca, dove ci sono i soliti baracchini ronci ad attenderci e offrici un riparo dal vento e dalla sabbia. Inutile dire che destiamo la curiosità delle tre proprietarie: una signora sordomuta ma supereloquente nei gesti e nelle espressioni, sua figlia che ci tempesta di domande e sua nipote. E cani e gatti in numero variabile e seconda del momento.
Si riparte. La sabbia non solo corre sulla strada e contro la bici. Ora si solleva anche più in alto, colpisce il viso, pare una tempesta di spilli. Viene soffiata con violenza nelle orecchie, negli occhi, nelle scarpe e in tutti gli orifizi disponibili. Ci proteggiamo perchè dobbiamo attraversare diversi kilometri così, di strada che corre a ridosso delle dune e della spiaggia.
L'unico momento di pace è offerto dal vallone del fiume di Yauca, città degli olivi, dove si susseguono decine di bancarelle che vendono olio, olive, olive ripiene, olive in salamoia, olive cotte, olive crude... Olive. Come i gamberi di Bubba in Forrest Gump.
Poi ci attende un drittone infinito vessato dal vento, in cui la sabbia corre e si leva e rende difficile persino respirare. Non è una tempesta, ma è un buon inizio.
Dalle foto è difficile capire quanta parte del deserto si sia riversata sulla strada e nell'aria, in corsa di frusta. Pubblicherò dei video, più eloquenti. Fatto sta che abbiamo mangiato dune intere, e ci siamo letteralmente riempiti le scarpe (oltre che le balle). E' stato difficile. Anche perchè la sabbia si è accumulata in lunghe lingue sulla strada, costringendo auto, camion e noi a grandi slalom e pericolosi scatti. Una ruspa lavorava per ripulire la carreggiata, ma in una lotta impari contro Eolo.
Compare, finalmente, Tanaca, nel suo piccolo golfo protetto. Questa cittadina segna la fine del tratto in riva al mare e l'inizio di una salitella che porta, in un susseguirsi di tornanti e zigzag, a superare un alto promontorio.
Facciamo una sosta per controllare che le ginocchia, a furia di forzare controvento, non siano esplose e il collo abbia ancora un minimo di mobilità. Insomma... Oltretutto devo fare pipì e qui trovare un bagno è ardua impresa. Di decine di baracchini, solo uno ce l'ha. Chiedo alla proprietaria del primo ristorantino e mi indica quale è il prescelto, provvisto di servizi. Mi avvicino, chiedo a due sciure e un ometto: avete l bagno? Risposta: no. Ma come... Torno alla bici e intravedo, qualche metro avanti, una porta: baño, 1 sol (25 centesimi di euro). Mollo la bici e torno alla carica: ma allora lo avete il bagno, a un sol! I tre fanno la faccia di chi, mannaggia, è stato sgamato. L'omino va a prendere le chiavi e la carta igienica, poi si mette a piantonare la porta. Scopro che, anche qui, manca l'acqua corrente. Vedo a terra una tanica di plastica sporca di roncio di secoli e penso: sarà l'acqua da versar nella tazza. Agisco, e, poco dopo, ma già troppo tardi, scopro che non è acqua ma un qualche detersivo iperschiumoso che trasforma il cesso lurido in una vasca idromassaggio della Baribie millebolle. Esco con nonchalance e l'ometto mi caccia in mano un secchio d'acqua. Rientro, verso, e la situazione peggiora. Uno spettacolo circense di bolle. Mi affaccio alla porta e dico a Gigi: stai pronto a partire. Mi rimetto il casco e i guanti e via, sperando che nessuno scopra il misfatto. Passo la successiva mezzora di pedalata in salita a temere che qualcuno in auto ci insegua per chieder conto del water sparabolle.
Comincia così la salita, che è piuttosto dolce e ci ripara dal vento. La strada si dipana tra muri di roccia e balconi a picco sull'oceano. Inizia a far fresco, la luce si fa bassa e color caramello, allunga le ombre. Cerchiamo di affrettarci ma anche qui, come in pianura controvento, di rado superiamo i 10km/h, pur spingendo con vigore.
Passiamo i borghi di Agua Salada e Atiquipa. I tratti esposti al vento, in salita, sono puro dolore. Il tramonto si avvicina e noi siamo ancora lontani da Chala, ideale meta di oggi. Si addensano anche nuvolette che paiono nebbia alta, e portano fresco. Bisogna affrettarsi a trovare un riparo per la notte.
Ci viene in soccorso il resort di Puerto Inca, di cui avevo letto nella guida della Lonely Planet. Dalla Panamericana si prende una sterrata che si tuffa giù giù all'oceano, proprio accanto al sito archeologico e alle cuevas dei pinguini. Il sole è tramontato. Chiamo l'hotel e chiedo se hanno posto. Sì, vi aspettiamo. E così scendiamo, tra mucchi di sabbia (edaje) e tolon ondulee. Ma siamo quasi arrivati e la baia, con i suoi scogli che paiono denti di squalo, è uno spettacolo pure nell'ultima luce.
Veniamo accolti con tutti gli onori, anche perchè trattasi di posto di lusso. Ci viene data una casetta di pietra sugli scogli, a pochi metri da dove si infrangono le onde. E' una meraviglia trovare una goccia di balsamo di ristoro qui. Domani visiteremo Puerto Inca, dove si pescava e seccava il pesce prima di portarlo su fino a Cuzco, e le caverne dei pinguini. Per ora ci pappiamo una frittura di pesce in salsa criolla (io) e una vasca di spaghetti al pollo e patatine (Gigi).
Domani muoveremo ancora verso sud lungo la costa, sperando che il vento ci lasci andare. Partiremo presto, perchè le cose grandi richiedono tempi distesi, come insegnano le stagioni e le galassie.
Ti sei mega allenata... Proprio per passare tutte queste cose e per raccontarcele. Bellissima anche questa tappa.
RispondiEliminaBellissimo, grazie, le gioie, le magnificenze ed il fascino dei luoghi, le fatiche le condivido con voi, buona strada ciao 👋🚴
RispondiEliminaSento il soprasella e polpacci dolenti, non so se per il giretto di oggi o per l'immedesimarmi nel racconto! Buona continuazione e grazie!
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