Giornata movimentata, oggi. In sintesi: seconda infezione intestinale, nel giro di un mese. Tentativo (fallito) di estorsione violenta da parte di un campesino della selva, per fortuna non abbastanza armato. Rischio scampato di masacre da parte degli ashaninka, i nativi amazzonici che, se potessero, infilerebbero a tutti i gringos un bel girarrosto nell’ano. Rischio scampato -per un pelo veramente di finire di notte su una rotta dei narcos-. In realtà ci siamo tuttora, ma siamo a tetto e non sulla strada [tappa del 21/8].
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da https://www.peruvia-gallery.com/geography/ashaninkas_imagenes.htm |
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foto scattata da Gigi, io troppo presa a telare |
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villaggio di ashaninka pacifici
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guado del Rio Ene |
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imbarcadero Puerto Anapati |
Sabato, 20/8
Kiteni-Pichari-Puerto Ene
53km pedalati, 165km trasportati
La giornata di oggi vale doppio, per durata e intensità. Comincio col dire che la sveglia è suonata alle 3.30 questa notte e siamo stati sulla strada dalle 4 alle 18, per un record che, tuttavia, non ci ha visti pedalare e basta. Abbiamo anche sofferto.
Come spiegavo ieri, per oggi si è rivelato necessario un trasferimento con mezzo a motore. 150km con una salita ad oltre 2000m non sono pedalabili in un giorno. Ma in questo tratto non ci sono pueblos nè strutture e non è sensato piantar la tenda. Siamo in una zona calda dove i gringos e i ficcanaso non sono ben visti. Qui passano i corrieri della pasta di coca e ci sono, collegati ormai al narcotraffico, ancora alcune costole del gruppo terrorista Sendero luminoso. Proprio pochi giorni fa due militari sono stati ammazzati in un attentato e, per contro, l'esercito è intervenuto e ha lasciato a terra 15 morti e diversi feriti tra i senderisti. Costoro, oltretutto, non sono poi nuovi al rapimento di americani, turisti e non, e noi potremmo pure sembrarlo, fino a che poi è troppo tardi.
Quindi ci serve un passaggio.
Ho chiesto ieri alle signore dell'hotel e mi hanno detto che basta andare in piazza a chiedere. Qui non ci sono servizi di trasporto pubblico, quindi tutto è gestito da compagnie private o da singoli autisti, in modo assolutamente non regolamentato nè formalizzato. Si va in piazza, si chiede. Il primo che ha un posto ti carica. Noi ci accordiamo con un tizio che ha un pickup già stracarico, che ci dà appuntamento alle 4, appunto, proprio lì in piazza. Ci dice che ci vogliono 5 ore per arrivare a Pichari (160km). Ce ne vorranno poi quasi 8.
Per tutta la sera penso che il tizio sia al servizio dei narcos, o che ci voglia derubare e poi buttare in un fiume a farci divorare dai piranha in nome di Mao e della rivoluzione proletaria. Invece no, è un brav'uomo che fa il suo lavoro. Alle 3.45 siamo in piazza ad aspettarlo. C'è l'auto stracarica ma manca lui.
Si presenta con mezz'ora di ritardo (fuso orario peruano) e impiega una buona ulteriore mezz'ora a sistemare le bici nel cassone, tra mobili, pacchi, pacchettini e scatoloni. L'operazione è lenta e intricata di corde ed elastici, un'agonia. Ma alla fine riesce a essere soddisfatto del lavoro e saliamo in auto.
Aspettiamo un altro passeggero, suo amico, il proprietario dei mobili. Si presenta con oltre un'ora di ritardo, s'era addormentato. Anch'io, in auto, nell'attesa. Questa volta si parte davvero. Sta albeggiando e Kiteni è in fermento: le bancarelle aprono, i negozi alzano le saracinesche, gli ambulanti iniziano a spadellare e cuocere interi polli sulla viva fiamma. Ci lasciamo alle spalle il paese e ci inoltriamo nella foresta, lungo una strada in salita che conduce a un passo, in circa 70km, che supera i 2000m e porta al Vraem, la valle dei fiumi Apurimac, Ene e Mantani. C'è nebbia e più si sale più ci si immerge in quest'aria densa e lattiginosa. Dopo 10 minuti sto già invocando una morte rapida. Io soffro di mal d'auto, tantissimo. E questa strada è sterrata e TUTTA a continui tornanti strettissimi. E il nostro autista ama accelerare tantissimo e poi frenare di colpo, riaccelerare a tavoletta e rifrenare, tutto ogni 50 metri. Solo a pensarci mi viene ancora da vomitare. Il malessere, sommato alla stanchezza e al sonno, nonchè, forse, ad alcuni effetti collaterali del Malarone (farmaco necessario da queste parti, dove il rischio di malaria è contenuto ma concreto, soprattutto per noi che stiamo sulla strada tutto il giorno), fanno sì che io stia così male da svenire più volte e subito riprendermi a causa dei conati. La prima ora e mezza è così: male. Male forte. Ma malemale.
Poi, per fortuna, pur essendo già stipati oltremodo, il nostro autista decide che c'è spazio per caricare anche una ragazza (avrà 16 anni) con suo figlio minuscolo, di un mese. Sale da una capannuccia immersa tra fogliame e tronchi, accompagnata dalla sorella, il nipotino e la madre. La salutano come se stesse andando in guerra. Lei si carica dietro, con me e Gigi, il bimbo in grembo e non si muove nè fiata per le successive ore. La sua presenza fa sì che la guida si faccia un po' meno aggressiva. Io smetto di morire e torno al mondo. Non sto benissimo, anzi, sto malino, ma non da invocare l'eutanasia cordiale. Al passo c'è un posto di controllo immerso nelle nuvole basse. Poi inizia la discesa che ci porta ai fiumi, nella valle che seguiremo per i prossimi giorni.
Facciamo una prima sosta a Palmapampa, dove scende l'amico dell'autista e scarica tutti i mobili, operazione così lunga che mi permette di fare un pisolino stremato, con la faccia incollata al finestrino. Per fare pipì mi concedono di usare il loro bagno, che non è una stanza a sè, con la porta e i muri, ma un vano in bella vista sulla cucina di casa.
Ripartiamo ma, in breve, l'autista carica una ragazza che scende qualche kilometro dopo, così, per sport. Nel frattempo i paesi hanno assunto un aspetto decisamente diverso da quelli amazzonici di altura. Qui la gente va in giro in canottiera e infradito, con machete lunghi un metro, a tagliar cocchi e far casino in spiaggia.
Sulla strada si incrociano dei bambini che tengono teso un filo per fermare le auto e farsi pagare un pedaggio da un sol. Stanno imparando bene il concetto di pizzo e quello di estorsione, si vede che in famiglia tira buona aria. Ricompaiono le vacche magre, che spesso invadono la carreggiata al pari di polli e tacchini (con i quali, vi ho detto, ho imparato a comunicare egregiamente. Io levo il mio saluto: blblblblbl! E loro rispondono sempre, e così via discorrendo in tacchinese).
Scende pure la ragazza con il bimbo e finalmente rimaniamo di nuovo soli e con spazio sufficiente per respirare. A Kimbiri l'autista decide che non ha più voglia di guidare e ci scarica ad un suo amico per gli ultimi 20km. Sleghiamo e scarichiamo le bici e i bagagli, e li ricarichiamo sul nuovo pick up. Via ancora, di nuovo con accelerate e frenate brusche e continue a causa delle strade sterrate piene di buche e massi. Sto male ancora un po', ma dura poco. Arriviamo finalmente, a mezzogiorno, al terminal terrestre di Pichari. Che Odissea! Che agonia! Scendiamo che non mi reggo in piedi. Ci vuole mezz'ora prima che sia in grado di fare alcunchè, e poi il tempo che la colazione/pranzo vada in circolo prima di pedalare (sono a stomaco vuoto da ieri sera e da settimane ho bruciato tutto, non c'è margine, ogni azione necessita di calorie esattamente corrispondenti a realizzarla). Iniziamo a pedalare vestiti "civili" e non da ciclisti, perchè è già tardi, c'è un cantiere che allunga il percorso per attraversare il fiume
e non sappiamo ancora se oggi prenderemo il traghetto a Puerto Ene (50km) o se dovremo spingerci fino a Puerto Anapati (100km, metà oggi metà domani) per salire sulla chiatta. Ho chiesto a dieci persone e ho ricevuto undici risposte diverse. Il pressapochismo e il tutto-forse dei local comincia a essermi un pochino indigesto, quando si parla di logistica. Uè, giargiaperuano, alura!
Per non sbagliare, iniziamo a pedalare. Andremo a Puerto Ene, dove ci sono alloggi, e dormiremo lì. Domani, se possibile, ci imbarcheremo subito, altrimenti pedaleremo ancora 50km prima di salire sulla chata.
Inizia a fare caldo e decidiamo di vestirci da ciclisti infrattandoci nella boscaglia. Di fronte c'è una chiesa da cui escono canti gospel, pianti acuti e grida. Non voglio sapere cosa stia succedendo lì dentro.
Ripartiamo e la strada si rivela subito per quel che è: un susseguirsi di collinette e dossi. L'asfalto è un ricordo. Il fondo costringe ad un passo lento e accorto (buche, sassi, sabbia, ostacoli mistovari pericolosi), oltrechè faticoso. I perri continuano a inseguirci, e noi non possiamo contare su una fuga rapida. Passiamo Puerto Mayo con le sue spiagge e le orde di ragazzini che, usciti da scuola, si riversano al fiume, spesso caricati a decine su moto scassate o cassoni di pickup.
Raggiungiamo poi Otari Nativos, comunità indigena finalmente ben visibile ananche per noi che ci limitiamo a passare come foglie portate dalla corrente. Sono Ashaninka, l'etnia amazzonica peruviana più numerosa (se foste curiosi:
https://es.wikipedia.org/wiki/Ash%C3%A1nincas ) che ha rivendicato i propri diritti con anni di lotte ancora in corso. Gli ashanika hanno subito anni di violenze (chiamate olocausto), che han portato a 5000 morti, 6000 desaparecidos e 10.000 profughi, senza che questi numeri abbiano vera certezza fondata, perchè mancano i dati, i censimenti. E sapete chi ha fatto molto di questo capolavoro? I senderisti. Ebbene.
Il villaggio è un insieme di capanne e strutture in legno e paglia. Sotto alla più grande, quella centrale, una signora in abiti tradizionali rimesta immensi pentoloni. Anche qui la campagna elettorale è pervasiva. Oggi poi girano per le strade auto e furgono con bandiere e megafoni, e sono in corso piccoli comizi di paese in gazebo improvvisati (perchè i gazebo non improvvisati sono le case...).
Il pueblo nativo è comunque più pulito e ordinato di quelli non indigeni, a proposito di cura degli spazi comuni. Riprendiamo la via tra corsi d'acqua che affluiscono al rio Apurimac e poi all'Ene, piantagioni di cacao, banane e cocco, e ampi spazi di selva selvaggia non coltivata.
Si arriva così a Teresa, un centro abitato che ha sapore di Far West. Da queste parti siamo guardati come alieni e ci additano. Siamo i rari gringos, per di più in bicicletta. I genitori chiamano figli per guardarci passare, e viceversa. Auto e moto non solo ci riservano sclacsonate di saluto, ma anche saluti sguaiati e qualche volta, a me, fischi e catcalling. Ma il machismo qui è ancora radicato e, anzi, mi sono stupita finora dell'educazione dei più.
A Mantaro, capitale della polvere, facciamo una sosta. Abbiamo finito l'acqua e anche un po' le energie. La sveglia presto e l'incubo delle otto ore in auto iniziano a farsi sentire.
Qui, mentre ci rifocilliamo, mi faccio amica una gattina minuscola, che nutro e coccolo. Inizia a seguirmi, miagolarmi e cercarmi a fusa e pasta. Vorrei portarla via con me ma Gigi è categorico sul no. Uffa! Che piangere piccolo.
Mancano circa 20km che diventano lunghi come quelli del paradosso di Zenone di Achille e la tartaruga. Salitelle e fondo esploso ci rallentano, pur nella continua tensione. Per fortuna il panorama intorno fa dolce l'aria e la luce già obliqua e candita ci consola. La foresta qui non è spettrale nè oceanica e imponderabile. Ha un volto più comprensibile, che si riesce ad afferrare meglio con l'occhio e il pensiero, pur nella sua vastità. E questo la rende molto meno spaventosa. Più affrontabile. Forse è il fiume che la divide e crea un "al di qua" e un "al di là". Traccia una linea, separa, cataloga, rimpicciolisce il tutto del reale a categorie della nostra portata.
Proseguiamo senza ormai più velleità di tempistiche, fretta, orari, corse. Ci godiamo il sole che cala, la meridiana liquida delle ombre che si allungano, le gocce d'oro che filtrano tra i rami. La valle rigogliosa resta sempre in vista, e il fiume si segnala nei suoi riflessi di cielo e argento.
Entriamo in Natividad che il tramonto è ormai vicino. Qui è questione di un attimo, una manciata di minuti. Il pollame che razzola nella foresta e nelle piantagioni spesso mi fa prendere dei piccoli colpi. Le galline sono abilissime nell'arte della mimesi, non si vedono, ma fanno, tra le foglie secche, rumore di giaguaro.
A Natividad offriamo lo spettacolo del mese. La gente esce di casa per assistere al nostro passaggio e i ragazzini corrono sulla strada per vederci. Il che ci crea un misto di allegria e imbarazzo. Qui siamo i diversi, in minoranza.
Ultimi strappi. Puerto Ene è ormai vicino. Il buio incombe ma la pace di questi luoghi è assoluta.
Passiamo un'altra comunità nativa Ashaninka
e finalmente eccoci alla capitale del Rio Ene, dove veniamo accolti da una folla di bimbi che ci insegue e poi sparisce tra le baracche.
Il centro poblado di Puerto Ene è un piccolo ma caotico ammasso di case, negozi, bancarelle e un numero insensato di ostelli. C'è l'imbarcadero, ma scopriamo, come si temeva, che da qui non si naviga fino a Puerto Anapati. Quindi domani dovremo pedalare altri 50km per la chiatta. Qui c'è solo un terminal terrestre con camionetas y carros, mentre le lance e le canoe a motore vanno solo sull'altra sponda, per la via brevis.
Prendiamo alloggio nella struttura più bella e più costosa: 30 soles la doppia (7.5 euro). Bisogna issarsi su per queste scalette, però.
Le stanze sono costruite sull'ultimo piano dell'edificio e le pareti non raggiungono il tetto, che è una lamiera. Tra i muri e la copertura ci saranno due metri di spazio. Rido pensando alle raccomandazioni dei dottori, a casa: mi raccomando, soggiornare solo in alberghi con le zanzariere ecc. Eh sì.
Questo è il corridoio su cui si affacciano le camere,
mentre questo il panorama dal balconcino d'ingresso.
La situazione igienica è un altro capitolo di cui bisognerebbe parlare. I muri intorno e a ridosso del letto sono coperti di macchie palesemente derivanti da pedate. Ma non con la suola delle scarpe, sporca per definizione. No. Con le piante dei piedi. Così luride e crostose da lasciare il marchio dell'infamia. Vero è che la doccia è solo fredda ed esce acqua (poca) MARRONE e piena di residui solidi abbastanza piccoli da non essere identificabili ma abbastanza grossi da fare schifo. Però laviamoci santo cielo.
Del bagno non vi dico molto per pudore. Semplicemente: i sanitari sono il cimitero degli insetti defunti nell'ultimo secolo, ormai cristallizzati a decoupage. L'acqua manca ogni dieci minuti, soprattutto quando bisogna tirare lo sciacquone.
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"amor" scritto con: A. materia fecale B. le caccole tra le dita dei piedi |
Prima di cena usciamo a chiedere conferma dei traghetti, che otteniamo di lì a poco all'imbarcadero (non è un porto. Le piroghe e le piccole lance arrivano direttamente a grattarsi la pancia sui sassi della spiaggia, senza molti nè attracchi).
L'ultima luce prima del crepuscolo infiamma il cielo di arancione e viola, e pare un incendio che non brucia ma illumina.
Anche l'ultima goccia di sole cade inghiottita dalla notte e noi torniamo nella nostra suite a riposare un po'.
Per cena pollo con pollo, riso con riso e patate con patate, come è giusto che sia. E frutta, comprata alle bancarelle, appena colta, dolcissima, nettare divino. Domani pedaleremo 50km a nord, fino al molo delle chiatte. Da lì sarà un attimo, via fiume, passare l'Ene e raggiungere Puerto Anapati. Poi ci sarà l'ultimo lembo di foresta e la grande salita andina in altiplano che andrà a sciogliersi in quasi 150km di discesa fino all'oceano, di nuovo, fino a Lima, dove tutto è cominciato.
Domenica, 21/8
Puerto Ene – Selva de oro
40km
Giornata movimentata, oggi. In sintesi: seconda infezione
intestinale da antibiotico, nel giro di un mese. Tentativo (fallito) di
estorsione violenta da parte di un campesino della selva, per fortuna non abbastanza
armato. Rischio scampato di masacre da parte degli ashaninka, i nativi
amazzonici che, se potessero, infilerebbero a tutti i gringos un bel girarrosto
nell’ano. Rischio scampato per un pelo veramente di finire di notte su una
rotta dei narcos. In realtà ci siamo tuttora, ma siamo a tetto e non sulla
strada.
Come dicevo, giornata movimentata.
Anche la notte scorsa non è stata da meno, con la combo
delle delizie: dirrea lancinante continuativa, carta igienica finita, niente
acqua in bagno, né per lo sciacquone né per lavarsi. Vi sto regalando immagini idilliache, vero? Il
tutto nell’hospedaje senza tetto, nel quale era un fiorire di zanzare malarose
e russa, conati e suoni inquietanti di sfinteri. Seconda notte in bianco per me,
che stamattina ero un cadaverino malconcio. Gigi subito va in panico, ma noi
siamo preparati, essendoci passati già entrambi nelle settimane scorse. Finiti
gli antibiotici di casa, ne avevamo fatto scorta a Cuzco, sapendo che il
rischio è sempre in agguato. E infatti. Se penso all’acqua marrone e
mucillaginosa che esce dal rubinetto, e immagino che con quella cucinino e
lavino le stoviglie… Fatto sta che acchiappo subito un pasticcone e va subito
meglio. Qui gli antibiotici per la diarrea contengono anche il principio attivo
dell’Imodium, quindi, oltre all’azione antisettica, tappano subito. Poi usciamo
a recuperare qualcosa per colazione. Non ho assolutamente fame ma so che, se
voglio pedalare in queste condizioni, devo re-idratarmi e nutrirmi a dovere.
Passiamo anche in una farmacia, dove compro dei fermenti lattici. Il dottore si
incuriosce e ci fa domande, poi, con l’aiuto della moglie che porta un bimbo in
saccoccia sulla schiena, compiono opera di psicoterrorismo in merito a malaria
e dengue. Dicono che è un problema gravissimo e che qui è pieno. Infatti da
stamattina alle 6 gira un furgoncino strillone che richiama la gente a farsi
vaccinare contro la malaria, gratis nel puesto de salud. Hanno mandato un
professore da Lima per questa campagna di profilassi dei villaggi rurali amazzonici.
Ma l’accoglienza è tiepida quasi fredda e la vita scorre accanto e sopra al
fiume come sempre.
Rimettermi in piedi è operazione lunga e richiede un
grandioso, titanico sforzo di volontà. Non sto bene e se fossi in un posto non
dico accogliente, ma almeno normale, mi fermerei un giorno a morire in pace. Ma
qui proprio non è cosa, ho anche litigato con un vicino di stanza dalla faccia
losca perché alle 5 ha deciso di ascoltare musica a manetta. Qui il concetto di rispetto del queito vivere
comune viaggia su altri livelli. E poi non mi va di prendere anche oggi un
passaggio, è uno sbattimento mentale ancora maggiore che non l’idea di pedalare
e basta.
Alle 10.20 siamo in strada. Salutiamo la senora dell’hotel,
che ci fa mille domande e chiosa con tenerezza: “Io sono peruviana e tutti i
posti che avete visto voi in questo viaggio non so neanche dove si trovino, a
parte Lima e Cuzco”. Perché da queste parti si nasce, si vive e si muore nello
stesso pueblo.
Pronti, via. Partenza in salita. Tutta la giornata sarà un
susseguirsi di rampe, su e giù. La novità di oggi è che l'asfalto diventa un
lontano ricordo, sostituito da sterrati sempre più pericolosi e impedalabili.
Sabbia e sassi grandi, tondi, scivolosi. Infatti, con una sola sosta,
impiegheremo sei ore per 40km scarsi, molti dei quali camminati issando la bici
su per le salite, con i piedi malfermi o trattenendole dalla caduta libera in
altrettanto ripide discese.
Certo, la valle dell’Ene, vista dall’alto, è uno spettacolo
di rara bellezza. Oggi poi fa un caldo umido atroce, che rende i nostri vestiti
fradici in pochi secondi, e ci fa grondare dalla fronte agli occhi. Questo
clima, a quanto pare, invoglia le farfalle a mostrarsi. Ne vediamo di ogni
forma, dimensione e soprattutto colore. Blu elettrico, verde iridato, arancione
fiamma, rosso lampone. E pure le libellule, grosse come merli, non esitano a
mostrare i loro diafani arcobaleni che riflettono la luce del sole in lampi
azzurri e amaranto.
Passiamo per zone incolte e per altre tappezzate di piante di
cacao con i loro frutti gialli e rossi, banani stracarichi e palme da cocco.
Intorno alla metà della tappa, comunque, siamo già cotti.
Inoltre Gigi continua ad avere problemi ai freni e su queste discese frananti è
davvero pericoloso. Ci fermiamo a Valle Esmeralda, che pare un accampamento nel
Far west, con edifici in legno chiusi o sgangherati, fango, polli, cani
emaciati e l’aria densa di polvere che fa filtrare i raggi del sole a
listarelle.
Compriamo alcuni generi di conforto nell’unico
negozio del paese, dove sono raccolti tutti gli abitanti, da 0 a 99 anni, a
chiacchierare e sbucciare ortaggi. suscitiamo curiosità ma tutti si dimostrano
molto gentili. Mentre siamo seduti a breve distanza a riposare, ci raggiunge un
omarello di circa sessant’anni, con braghette, canottiera e berretto da
baseball. Ci chiede di dove siamo e, appurato che sembriamo gringos ma non siamo
mmerricani, intavola un’animata discussione sul Covid, i complotti, i poteri
forti, quel che non ci dicono. Santo cielo, anche qui. Ci dice che lui vive con
i pipistrelli i gli armadilli e ha preso il Covid mangiando cibo in scatola e
gallette poco sane. E che spesso ha a che fare con le scimmie ma non ha la
viruela e allora com’è? E’ coma della Cina come dicono o forse degli Stati Uniti?
Ad ogni affermazione ci incalza chiedendoci cosa ne pensiamo. Sei d’accordo con
questa affermazione, sì o no? E mangiare la mia barretta diventa difficilissimo
e pesantissimo.
Riusciamo a districarci dai complotti dell’umarell, cui nel
frattempo si sono aggregati tutti i ragazzini del paese, che devono dimostrare
di essere già grandi abbastanza da affrontare i gringos, e ripartiamo. Altra
salita, sassi, sabbia. Si cammina nell’afa più devastante e ormai anche noi
abbiamo corteccia, liane e licheni sulla pelle.
Si procede pianissimo, e la luce inesorabilmente si fa
sempre più obliqua. Comincio a temere che non arriveremo oggi a Puerto Anapati,
perché 20km possono protarsi per 4 ore e qui alle 18 il sole tramonta. Proviamo
ad accelerare, ma siamo continuamente frenati dal fondo troppo ammalorato per
permetterci di pedalare, se non a brevi tratti.
In un momento nel quale Gigi ed io siamo un poco distanti
(io ho fatto in sella una discesa che lui sta percorrendo a piedi) succede il
fattaccio. Dal folto della vegetazione, in mezzo alle palme e ai banani, sento
una voce rabbiosa che intima l’alt, urlando, più volte. Mi blocco ai piedi di
una salita ghiaiosa che impedisce una fuga rapida. Alt! Alt! Documenti! Non
vedo chi sia a urlare. Penso subito si tratti di un senderista che non vuole
lasciarsi scappare la pelle e il portafogli di due gringos. Arriva Gigi, altre
urla. Gli dico: fermati perché ci sparano. Non li vedo. Sono attimi che durano
un’eternità, il cuore che esplode nelle tempie. La consapevolezza che da qui in
poi può succedere tutto, anche morire.
Poi invece esce allo scoperto un ragazzo, avrà 20 anni e
porta sulla schiena una tanica con spruzzatore per i trattamenti alle piante.
Come tutti qui, tiene un machete grosso come una scimitarra alla cintura e spesso
ne sfiora l’impugnatura. Ci si fa vicinissimo e continua a urlarci in faccia di
dargli i documenti. Cerca di spaventare soprattutto me, ma Gigi si mette in
mezzo e la faccia feroce del ragazzo a tratti cede. Urla e urla. Gigi, fermo,
continua a dirgli no, chi sei tu, chi sei, che vuoi. Si alzano i toni, urlano
entrambi. “Sono un capo della polizia italiana!” arriva a sbraitare Gigi. Passa
una moto, il ragazzo deve scostarsi dal mezzo del sentiero e noi ne
approfittiamo per darci alla fuga, che pure è un arrancare disperato in salita
sui sassi che cedono sotto alle ruote. Tiriamo dritti spediti senza voltarci,
temendo un inseguimento. Ma quello non è un senderista né un criminale, è un
ragazzetto che ha paura della sua stessa audacia. Per fortuna.
Nella fuga Gigi perde un bagaglio, ci fermiamo a ricaricarlo,
quasi senza parlare, ci dciamo che è ben tempo di sciacquarsi dalle palle, via
di lì. Proseguiamo il più in fretta possibile, che vuol dire comunque 11 ricchi
km/h.
Inizia finalmente la parte pianeggiante della tappa. Pampa de oro. Di questo tratto non ho foto e anche le immagini mentali sono sfocate e polverose, abbacinate, quasi da sogno febbrile. Quest’area rigogliosa di frutta tropicale, infatti, è tutto territorio dei nativi ashaninka. I quali, constatiamo oggi, detestano i gringos ancor più dei “coloni”, i peruviani non nativi. Gli sguardi, i gesti e certe parole urlante, confuse al rumore della bici che fa collassare sassi e sabbia, sono sufficientemente indicativi. Arriviamo a Selva de oro, pueblo di coloni in mezzo ale riserve, e Gigi deve fermarsi per comprare acqua. Nel negozietto più vicino una signora chiacchierona ci chiede da dove veniamo e si stupisce che gli ashaninka non ci abbiano fatto la festa. Ci han provato, spieghiamo. Eh sì, è normale. Loro i gringos li matano. Ah. E dove andate?
A Puerto Anapati (14km di distanza).
Ahhhhh! L’ultima chiatta è tra dieci minuti e ci vuole un’ora in auto, da qui. Avete l’alternativa di andare al porto successivo ma lì non ci sono paesi ed è tutto territorio ashaninka, vi fanno a pezzi nella notte. Gigi è dubbioso, forse vorrebbe proseguire. Io sono già convinta a fermarmi lì: ho intravisto un insperato ostello. La sciura, capendo che Gigi non è convinto, gli spiega che dovremmo pedalare un ampio tratto al buio, e di notte, oltre i nativi, ci sono i narcos con camionette dirette al fiume cariche di pasta di coca. Non amano la presenza di estranei, chiosa la signora. Al che siamo tutti d’accordo. Non faremo un metro oltre.
Ci sistemiamo nell’hospedaje, 20 soles (5 euro) la doppia.
Anche qui manca il tetto e le pareti sono assi sconnesse distanti tra loro di
svariati centimetri. Ma c’è la zanzariera grande sul letto, che lo trasformano
in una tanetta a prova di indigeni aggressivi, narcos e altri mali del mondo.
Una bella doccia (fredda) e piombo in un sonno pesante prima di cena. Il bagno
è a tre minuti di scale pericolanti, non illuminate, e manca di acqua per
lavarsi le mani. Spero che l’antibiotico stia lavorando, parrebbe di sì.
Domani partiremo alle prime luci per attraversare questi
ultimi 14km peligrosi e attraversare il fiume, finalmente. L’Amazzonia si è
rivelata per quel che è: un calderone in fermento nel quale vita e morte si
con-fondono in un inesausto alternarsi di orrore e meraviglia. Dal letto-bunker
è tutto. Il centro poblado Selva de oro, e il quartiere Fe y alegria stanno andando a dormire e si sentono solo
latrati di cani e musica in lontananza.
Lunedì, 22/8
Selva de oro - Puerto Anapati - Pichanaki
17km pedalati, 1 in chiatta sull'Ene, 180 in camioneta
Appena fa luce ci mettiamo in moto. Oggi ci attende una giornata lunga. Dobbiamo pedalare in territorio ashaninka per quasi 20km, sempre più addentro alla giungla, su una pista senza paesi se non i villaggi dei nativi, che finisce in se stessa dove la vegetazione si fa più fitta. Unico sbocco è l'imbarcadero sull'Ene, dove si prende la chiatta per Puerto Anapati.
Qui si pone un altro problema. La strada riprende di là dal fiume, ma corre per 100km, malamente sterrati e in salita in mezzo a foresta e piantagioni di cacao. Niente città, niente servizi. E' tutta una grande, inviolata area in cui vivono solo nativi. Ashaninka, of course. Siccome 100km di quel genere non sono percorribili in un solo giorno, nè è pensabile accamparsi in tenda, Si rende necessario trovare un passaggio almeno per una parte della tappa.
Ci penseremo dall'altra riva del fiume. Usciamo in una luce opaca di umidità, mentre alcuni ragazzini in uniforme già si dirigono a scuola. Alcuni di loro si fanno delle vasche, a piedi o nei cassoni dei furgoni, di decine di km per frequentare le classi.
Di tutto il tratto in area ashaninka non ho foto. Abbiamo pedalato spediti e a testa bassa, ignorando le provocazioni dei contadini, alcuni dei quali armati di fucili ottocenteschi, altri con machete. Che serve per tagliare le piante, ma non solo. Le donne, in abiti tradizionali, al nostro passaggio si coprono il volto, per non mostrarsi. Le più anziane ci fissano, invece, con feroce disprezzo. Gli ashaninka sono un popolo fiero e combattivo. Si sono opposti con violenza alla colonizzazione, tanto che queste zone sono state esplorate e abitate da coloni a Perù già indipendente, negli anni '20 del '900. Ancora oggi gli ashaninka difendono con unghie e denti le loro terre e la loro identità, e non sono mancati gli scontri, i morti, le guerriglie per anni. Ho fatto solo tre foto per rendere l'idea della strada e dell'impossibilità di chiedere aiuto, in caso di problemi. Qui ci sono solo farfalle e pappagalli, scimmie e armadilli.
Gli ashaninka, comunque, vivono in strutture simili a capanne di legno con tetto in paglia, molte delle quali rialzate, come palafitte a due piani. Quasi nessuna abitazione ha pareti: solo colonne portanti, pavimento e tetto. Portano abiti tradizionali, il viso dipinto e si dedicano soprattutto alla coltivazione di cacao, caffè e frutta tropicale. Sono eccellenti arcieri.
Le han sempre prese, pur tentando di darne. Dagli europei, dai coloni peruviani, dai senderisti, dai governi che hanno svenduto l'Amazzonia al miglior offerente, dalle multinazionali del disboscamento. Io capisco la loro rabbia, la loro sete di vendetta di queste ingiustizie. Ma non vorrei fossimo noi un capro espiatorio di decenni di violenze.
Finalmente, dopo oltre un'ora di pedalata a cuore in gola su un sentiero che di base sarebbe impercorribile in bici (ho le mani di un minatore, per calli e indolenzimento, dopo solide giorni offroad) giungiamo al desvio per l'imbarcadero. Si trova proprio accanto a una scuola, da cui esce un allegro vociare di bimbi. Appena passiamo, cala il silenzio. Il maestro si mette a sbirciare, seminascosto dall'angolo dell'edificio; ci scruta, avvolto nella sua tunica bianca. Poi, con un lungo bastone che, probabilmente, usa con e sui suoi alunni, ci fa segno di andare. Non so se sia stato un aiuto a trovar la via o un consiglio a levarsi di torno prima di ricevere la nostra dose di masacre. Ci tuffiamo nel folto della vegetazione, seguendo il sentiero.
La pista porta al fiume. Si fa fango colloso, poi palude. Siamo costretti a trascinare la bici nell'acqua stagnante, immergendoci fin oltre la caviglia in pozze che contengono tutti i parassiti e gli insetti che la Pachamama ha inventato, nella sua immensa fantasia.
Sembra poi che il sentiero riprenda forma, ma è solo l'inizio. Siccome la portata dell'Ene è molto variabile, e ora siamo in stagione secca, il traghetto copre solo il punto di acque profonde. Il resto si guada a piedi. Ci sono alcune assi di legno, che sono ponti e lavatoi, ma per lo più si avanza a bestemmie tra sassi enormi e acqua alta.
Finalmente, dopo quella che pare un'eternità di fatica da bestie, arriviamo al "molo".
Qui c'è un capanno di legno sotto cui alberga una fanciulla che vende popcorn e frutta secca artigianale. Sta qui tutto il giorno in attesa di passanti che si imbarcano e se vendesse l'intero campionario di prodotti, porterebbe a casa una decina di soles (2.5 euro)
Vediamo la chiatta sull'altra sponda. Aspettiamo. Arrivano intanto due pick-up stracarichidi merce e persone. Quando l'imbarcazione ci raggiunge, siamo pronti. Saliamo per primi e troviamo un posto comodo per tenere ben salde le bici. Basta un nulla e tutto finisce sul fondo del rio.
Paghiamo i 10 soles di pedaggio e, in pochi minuti, siamo di là. Puerto Anapati ci accoglie, spoglio e fangoso come è giusto che sia.
Il minuscolo pueblo intorno all'imbarcadero finisce ancora prima che ce ne si renda conto. In una rampa e tre sfiatate siamo già fuori, di nuovo nella jungla fitta, su uno sterrato orribile, in salita, che porta in bocca ai territori nativi, per due interi giorni in sella. Anche no.
Torniamo indietro, al paese, e ci fermiamo in una sorta di ristorante, gremito e con furgoni parcheggiati davanti. Gigi prende l'iniziativa e chiede come e dove si possa ottenere un passaggio per San Martin de Pangoa, la prima cittadina di coloni dopo il cuore della foresta.
Un ragazzo che sta pranzando alza la mano: "Io ho posto sulla mia camioneta, venite con me". Aspettiamo che finisca di mangiare e iniziano le operazioni di carico bici, tra i soliti quintali di mobili (ma che senso ha trasportare arredo di intere case su e giù per la giungla?) e mucchi di roba: sedili, peluches, catini di plastica, frutta, forse semilavorato della cocaina (il nostro autista ha un po' troppo telefoni cellular per non destare sospetti).
Con noi viaggiano: davanti una fanciulla prosperosa che l'autista guarda molto più della strada, dietro, oltre a noi due, un ragazzo chiacchierone che vuole vedere tutte le foto del viaggio e farsi raccontare i luoghi del suo paese che non ha mai visitato, e sul cassone aperto, in mezzo ai bagagli, alle sedie e alle cassettiere, un altro tizio, cui si aggiunge poco dopo un ragazzo ashaninka. che sbuca da un villaggio.
Il viaggio finirà oltre rispetto al previsto, fino a Pichanaki. L'autista fa capolinea lì e ci chiede, se non è un problema, di aspettar lì a scendere. Per noi è un vantaggio, in termini di comodità e tempo, e accettiamo.
partiamo alle 11 di mattina e arriviamo alle 16. La strada è un sentiero di montgna in condizioni disastrose, che corre tra muri verdissimi che, a volte, lasciano intravedere una capanna o un villaggio di legno e paglia, anticipati dall'odore acidulo del cacao che asciuga e fermenta.
Nelle prime città, dove la maggioranza è comunque nativa, si osserva un curioso mix di tradizioni e nuove abitudini.
Scaricati a Pichanaki, languida città caotica della selva centrale, dove i primi non ashaninka han messo piede solo negli anni Venti del secolo scorso e gli scontri violenti non son mai mancati, troviamo alloggio nell'hospedaje più vicino. Pur essendo marcio e fatiscente, ci sembra una reggia. Ha le pareti, i muri, il tetto e le finestre con i vetri. Ha pure l'acqua! Per quanto solo fredda e in certi orari. Una festa.
Ci riposiamo, laviamo noi stessi e i vestiti luridi e infangati, che andranno disinfettati col lanciafiamme, a casa, e ricalibriamo le tappe dei prossimi giorni. Lima è vicina, dista meno di 400km, ma 300 di questi son di salita. Ci aspetta un passo andino a 4800m.
Usciamo a cena e Pichanaki ci appare prima nel suo volto dissestato e macilento
poi in quello più ameno e godereccio, con le luci, i negozi e le piazze, le strade asfaltate e le panchine, tutte meraviglie dell'umano ingegno che non vedevam da qualche tempo.
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alligatori come statua nella plaza de armas... e noi oggi a spasso a piedi nel fiume! |
Con l'appetito saziato e la sensazione di essere al sicuro, in salvo, scampati, torniamo in albergo e ci concediamo qualche
Da domani affronteremo gli ultimi lembi di Amazonas, nella Selva centrale, per poi ricominciare a scalare per attraversare la cordillera che ci separa dall'oceano e dalla capitale. Inizia così l'ultima settimana di viaggio, che sarà la ciliegina sulla torta di questa avventura incredibile.
Senza parole.
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