Escuinapa de Hidalgo-Mazatlàn
95km
Oggi è il gran giorno! L'ultima tappa della nostra trans-México continentale. Dopo quasi 4000km di pedalate tra coste e monti, tra due oceani, giungla, vulcani e metropoli immense, arriviamo ora all'orlo estremo di questa bella terra. Da qui dovremo prendere la via del mare, e imbarcarci, noi e le bici, per attraversare il Golfo di California e sbarcare sull'ultimo stato del nostro viaggio, la Baja Sur. Uragano Hilary permettendo, ovviamente! Dopo 84 anni che una tempesta tropicale non lambiva queste zone, aride e desertiche, ecco che il maltempo attendeva giusto noi per mettersi di mezzo. L'imbarco è stato posticipato di 24 ore, quindi avremo un giorno in più da trascorrere a Mazatlan. Poco male: è una bella cittadina turistica di mare, non sarà difficile trovare qualcosa di bello da fare!
Ma prima dobbiamo arrivarci, e anche oggi son quasi 100km di colline e saliscendi, perchè che la costa sia pianeggiante è una grande menzogna che ci siamo raccontati, è una pia illusione. Noi, animali delle terre basse, bestie padane, abbiamo un'immagine deformata dell'orografia. E qui di pianura in senso proprio non ce n'è, se non per brevi tratti. Possiamo dire, ecco, che non è montagna. Le salite non portano in quota, e non sono mai più lunghe di qualche centinaio di metri.
Patiamo con calma, senza aver puntato la sveglia. La consapevolezza di avere poi due giorni di sosta (uno forzato, l'altro di navigazione) ci fa muovere lenti e tranquilli. In più oggi io sto BENE, bene davvero, per la prima volta dopo dieci giorni di malesseri più o meno gravi, dolorosi e impattanti.
Quando usciamo il sole è già rovente e l'umidità tremenda. Già portar giù bici e borse dalle due rampe di scale costringe a un bagno di sudore che rende perennemente collosi e unti. Mai come in questo viaggio ho avuto la sensazione di essere lercia e puzzolente... Probabilmente perchè lo sono.
Escuinapa si sta mettendo in moto; non c'è traffico, ma gli ambulanti e i negozianti stanno aprendo bottega. L'aria è densa di profumo di fritto (gamberoni, ovviamente) ed è tutto un alzar saracinesche e richiamare i clienti ai tamales e al cafecito de olla.
Prima di uscire dal paese facciamo un salto nella piazza centrale, che ieri sera abbiamo intravisto di sfuggita. C'è infatti un interessante monumento alla bicicletta, con tanto di scultura realizzata da un artista locale e abbellita con fiori e lucine. Il pannello informativo spiega che la bicicletta è un mezzo di trasporto tradizionale degli abitanti del paese, e rappresenta una forma di identità culturale, nonchè una proposta per il futuro. Hai capito? Sono avanti questi ragazzi! In effetti la bici, che pure non gode di gran fama fuori dalle città, è un mezzo molto usato per i piccoli spostamenti nei pueblos e nelle campagne; sicuramente più che negli USA! Sarà che costa poco e serve metterci benzina... Ma la coscienza si sta creando, e l'abitudine storica è consolidata: ora mancano solo le infrastrutture (ma il governo è troppo impegnato a devastare la penisola dello Yucatan con il suo tren maya...).
Foto di rito alla bici, alle litras gigantes, alla piazza con il mercato in apertura (da cui esala un odore di gamberi non proprio freschi che ammazza pure le mosche) e via.
Come temevamo, la menzogna della pianura costiera si ripropone anche oggi con un'infilata di ordini di colline che, viste dall'alto paiono le grinze di una tovaglia spiegazzata. Le gambe sono ormai abituate, ma il caldo umido, sulle rampe a salire, è insopportabile, da coccolone immediato. Le discese invece sono un balsamo di aria fresca, un tuffo di linfa. Perchè intorno è tutto verdissimo, tra piantagioni di mango, pascoli dove ruminano placide mucche enormi e macchie di selva spontanea.
Di città ne incrociamo ben poche, anzi, una sola: El Rosario, con la sua frazione dal nome curioso, La Entrada a microondas (11 abitanti... Gli altri si sono cotti). In compenso ci sono numerosi gruppetti di baracche sparsi agli incroci delle strade che vanno tra entroterra e costa; sono abitazioni con adiacente comedor o negozietto, annegati nella polvere o nel fango, a seconda di quanto piove.
Noi facciamo solo una breve sosta benzinaio/supermercato, dove incrociamo un paio di bimbi incuriositi dalle bici, che non riescono a staccar gli occhi dai nostri potenti mezzi, e un elegantissimo messicano che ci parla un po' in inglese e un po' in spagnolo, e ci consiglia un ristorante di pesce a Villa Union, che dista una ventina di km; dice che è un pueblo di pescatori e tutto il cibo è freschissimo e costa poco, e la gente fa anche tre ore di auto per andare a mangiar lì, e c'è sempre una gran coda. Non fosse che un pranzo del genere ci impedirebbe di proseguire, sarebbe un'idea allettante. Nei pochi minuti di conversazione riusciamo, nell'ordine, a essere punti da insetti simili alle nostre forbicette, ma più grossi, che lasciano bubboni dolorosissimi, a renderci conto che Gigi ha forato ANCORA (è l'undicesima volta!) e a litigare perchè Gigi teme che l'uragano si abbatta su di noi, quando è evidente che non sarà così. Ma la paura è irrazionale e fomentata dalla stanchezza, e io non ho modo di disinnescarla. Insomma, una sosta che ci stressa più che farci riposare. Ripartiamo e il vento è un poco girato a nostro favore. Ne approfittiamo per tirare dritti fino alla nostra meta, Mazatlan. Passiamo dalla trafficata Villa Union, che un tempo era la città vera e propria del porto di Mazatlan, che, appunto, era solo un attracco e rimessa di navi. Questa cittadina è patria di poeti, scrittori e linguisti, ricordati da targhe commemorative. Non ne conosco nemmeno uno, ma mi riprometto di rimediare a questa lacuna.
Gli ultimi 20km sono abbastanza impestati di traffico, soprattutto di mezzi pesanti. Autostrada e statale corrono unite, e la presenza del porto mercantile fa sì che tanto trasporto su gomma transiti di qui, in arrivo e in uscita. Oltretutto per raggiungere il centro storico di Mazatlan, dove abbiamo prenotato l'albergo, dobbiamo attraversare alcuni quartieri non proprio raccomandabili. Veniamo apostrofati in molti modi coloriti dai passanti e da chi ci affianca e supera in auto e in motorino. Non raccolgo mai, anzi, mantengo un'espressione impassibile, da mohai di pietra, perchè non mi sembrano personcine con cui sia bello aprire un dibattito su inclusività, rispetto e incontro di culture. Quei tatuaggi da narcogangster in faccia e ovunque, e le espressioni ottuse e violente, me lo fanno presagire. Auguro solo loro di trovarsi nello stesso disagio che ci procurano, ma per più tempo, e con meno mezzi per affrontarlo.
Tra un gringo e un camaron, arriviamo così nel tranquillissimo centro storico di Mazatlan, che è bello davvero, ed è popolato più da statunitensi che da messicani. E' il ghetto bianco, praticamente. L'uomo della reception è straultrafatto di marijuana, motivo per cui fare check in richiede un lungo tempo. Lui inserisce i dati, sbaglia, ride, si dimentica cosa stia facendo, ride ancora, poi cerca di rimettersi in ordine, sbaglia ancora, ride tantissimo. Alla fine non riesce a far nulla, gli caccio in mano i contanti e cerchiamo di entrare in camera, dove lui ci ha preceduti per accendere la tv a tutto volume e il condizionatore a livello Polo Sud. Forse così vuole darci l'idea di entrare in casa... Peccato si dimentichi di darci le chiavi, e sparisca, per ricomparire gran tempo dopo ancora più fatto. Oh sant'uomo! Che fatica! Però è gentile e si offre anche di occuparsi del nostro bucato. Glielo lasciamo, dopo altre lunghe attese e risatone, temendo di non veder tornare mai più i nostri preziosi straccetti. Se tutto va bene, la prossima lavatrice la faremo a casa.
Dopo una doccia e un giro panoramico del terrazzo, siamo pronti per esplorare la cittadina. Anche perchè la sete ci divora, e non abbiamo più nemmeno una goccia d'acqua.
Ci dirigiamo anzitutto verso il lungomare che costeggia la spiaggia più famosa di Mazatlan, quella che l'ha resa famosa come località turistica, Olas Altas. Nel tragitto incrociamo una serie di case storiche in ottime condizioni e alcune ville in rovina, oltre ad abitazioni, diciamo, eccentriche. Per strada si sente parlare più in inglese che in spagnolo, e l'accento è proprio da americanaccio.
Raggiungiamo il malecon, che è affollato di turisti locali e non, e ci rendiamo conto, purtroppo, che abbiamo messo il costume invano: i bagnini che presidiano le spiagge impediscono l'accesso all'acqua, considerata pericolosa per la forte risacca e le pietre affioranti. Che disdetta! Speravo sinceramente di fare subito un tuffo rinfrescante. Ma la brezza fresca e salata e gli spruzzi delle onde sono già una benedizione. Passeggiamo verso nord, in direzione Zona Dorada, cioè l'area più nuova e turistica della città.
Si percepisce che siamo in una località balneare: ci sono locali che sparano musica dance a tutto volume, e la strada è trafficata di macchinoni e quad tamarrissimi, oltrechè da golf cart con autista e altri mezzi dalle forme curiose che servono ad autotrasportare famiglie americane o wannabe tali dal culo pesante, come taxi panoramici. Anche questi tengono la musica a un volume da sordità traumatica, e sui sedili si vedono personaggi di dubbia moralità, grossi e palestrati, truccatissime, tutti intenti a farsi selfie da postare sui social per far credere di essere ricchi, felici e dediti alla bella vita. Bastasse un po' di musica alta... Noi ci godiamo la vista dell'oceano, ritrovato qui dopo settimane di montagna ed entroterra. L'ultima volta lo abbiamo incontrato a Puerto Escondido.
Proseguiamo nella nostra passeggiata lungomare e superiamo una serie di locali e alberghi che sono anche un po' too much, ma, a quanto pare, funzionano e sono frequentati al punto da permettersi di gonfiare i prezzi e ricalcare quelli statunitensi, piuttosto che quelli messicani.
Raggiungiamo, tra piacevoli sculture che ricordano artisti locali o raffigurano personaggi mitologici come sirene e tritoni, una piazzetta che divide la città vecchia da quella nuova. Decidiamo di attendere qui il tramonto e poi andare direttamente a cena.
Quando l'afa del pomeriggio allenta la morsa e la brezza della sera rinfresca l'aria, la rotonda dove ci siamo fermati ad ammirare lo spettacolo delle onde che si infrangono sugli scogli si popola. Compaiono bancarelle di cianfrusaglie ma soprattutto di cibo. Qui, oltre al cocco fresco (condito sempre con salsa o polvere piccante) e alla frutta, oltre alle patatine, ai nachos e agli snack classici dello strett food messicano, si sono inventati dei piatti a portar via che meriterebbero un premio alla fantasia. Un esempio: i noodles liofilizzati, tipo Saikebon, arricchiti con mais bollito al momento, formaggio, salse e patatine, in modo da creare una cornucopia strabordante che sfamerebbe un elefante. Oppure sacchetti di patatine, già piccanti, aperti per lungo e tenuti come vassoietti, in cui si cacciano mille varietà di salse, formaggio fuso al momento e mais o noccioline. Per non parlare delle pannocchie bollite, infilzate su uno stecco, che vengono glassate con strati di formaggio colorato con coloranti fluo: blu, rosa, arancione... Insomma, c'è da perdersi nello studiare queste invenzioni culinarie, solitamente accompagnate da micheladas o bevande in sacchetto (sì, sacchetto di plastica, con cannuccia infilzata per bere come da una tettarella. Io ho fatto esperienza di tutto ciò in Perù, lo scorso anno).
Non mancano nemmeno i clavadistas, i tuffatori acrobatici che eseguono salti spericolati tra le rocce e le onde infide. Aspettano che la folla si raduni e, in cambio di qualche spicciolo, si gettano dagli scogli più alti.
Non posso fare a meno di gettare uno sguardo anche alla cueva del diablo, una grotta ai piedi del Cerro de la Neveria, altura a ridosso del litorale infilzata di antenne. La caverna è chiusa da un cancello evocativo, ed è, fuor di favola, colma di immondizia lanciata dall'esterno. C'è chi dice che qui si eseguivano rituali satanici, chi assicura che ci passava un treno (sì, dei puffi), chi dice che i pirati ci han nascosto un tesoro. Ma la leggenda locale narra che, durante un carnevale, due belle ragazze siano state attirati nel cuore della grotta da un giovane elegante e dal fascino magnetico, e non siano mai più uscite. Che fosse Lucifero in persona o l'ennesimo femminicida, non si sa. Molti assicurano che di notte si intravede un bagliore rosso sulle pareti di roccia. Certo è che questo è stato un deposito di dinamite quando è stato costruito il lungomare.
Dopo un ultimo saluto al Pacifico al crepuscolo, andiamo alla ricerca di un ristorantino: siamo affamati come lupi, anzi, come volpi! Purtroppo un black out ha colpito tutto il quartiere e quindi molti locali sono con la cucina in panne e servono solo da bere. Troviamo un posticino a due passi dalla nostra posada che si sta arrangiando con le torce dei telefoni e una cucina da campo. Un'americanona che non par nuova di queste parti, mentre indugiamo, ci dice che qui fanno degli ottimi tacos. E sia! Vada di tacos marlin e gamberi. In effetti, eccellenti.
20/8
Mazatlan
Oggi è una giornata di pieno riposo, quasi come fossimo veramente in vacanza, e non in viaggio! Non era prevista, e non era necessaria, ma approfittiamo della sfortuna del traghetto rimandato per cogliere un piacevole giorno libero, di recupero mentale e fisico, in cui sbrigare qualche faccenda e poi far anche niente, ma in posti belli.
Iniziamo con il dire due parole su questa città, chiamata anche "Perla del Pacifico". Innanzitutto il toponimo deriva da una parola nahuatl che significa "luogo dei cervi". E' la seconda città più popolosa di Sinaloa, con oltre 440.000 abitanti, dista 21km dal Tropico del Cancro (lo attraverseremo in Baja) ed è una delle destinazioni turistiche più gettonate della costa occidentale del Messico. La città fu fondata nel 1531 dall'ormai plurinominato Nuno de Guzman, in un luogo dove abitavano totorames, xiximes e tepehuanes. Nel 1576 viene fondata l'attuale Villa Union, la città cui Mazatlan, che era solo un porto, faceva capo. La zona del porto iniziò a essere abitata stabilmente solo dopo la guerra d'indipendenza e durante l'Ottocento, pur con alterne vicende legate alle varie guerre che ebbero impatto sui commerci, Mazatlan crebbe e visse il suo momento di massimo splendore, fino a diventare capitale di Sinaloa. Poi, però, perse importanza e fu messa in ombra a causa dei conflitti politici interni tra rivoluzionari e vecchia classe dirigente. Negli anni '50 del secolo scorso, però, l'immigrazione dalle zone rurali e la nascita del turismo balneare massivo riportò Mazatlan agli antichi fasti, anzi, diede un impulso all'economia sconosciuto fino ad allora. Oggi altre sono le mete del turismo internazionale, ma il turismo interno e un buon numero di statunitensi si dirigono qui per trovare movida, buona comida di pesce fresco, prezzi contenuti e 20km di spiaggia.
Noi approfittiamo del nostro hotel nel centro storico per fare una bella passeggiata tra le case d'epoca dai colori pastello, tenute in ottimo stato e capaci di rilassare anche solo a uno sguardo. Non manchiamo di concederci una colazione in una caffetteria vera e propria.
caramel frappuccino -se vogliamo fare le americanate, facciamole fino in fondo! |
Passeggiamo nel pittoresco compendio di nobili palazzi del XIX secolo e piazzette alberate che è il centro, oggi particolarmente tranquillo e silenzioso. I bagordi del sabato sera han lasciato il segno e sembra che tutti dormano fino a tardi -giustamente, è domenica della settimana di Ferragosto!
Tra una coccola ai gatti dolcini che popolano queste vie deserte e un'altra, raggiungiamo il Teatro Angela Peralta, costruito tra 1869 e 1874; il nome è in onore di una soprano in voga nel XIX secolo. Questo luogo è stato, ed è tuttora, il fulcro della ita culturale cittadina. A metà Novecento cadde in stato di abbandono e negli anni '80 stava per essere demolito, ma i cittadini si mobilitarono per invocarne la ristrutturazione. Così è andata, e il cartellone è denso di eventi per ogni palato.
A due passi dal teatro si trova poi Plaza Machado, orlata di alberi e quasi assopita di giorno. Bisogna tornarci la sera, cosa che non mancheremo di fare, per assaporare luci, profumi e viavai del mercato e dei locali che qui han sede ne la tarde.
Poco oltre si apre la Plaza principal, con le sue schiere di lustrascarpe e colombi ingrassati dai passanti; qui si affaccia anche la cattedrale, costruita nel XIX secolo, con le sue torri gemelle giallissime. E' in corso una funzione. La domenica se ne celebrano dieci: un tour de force!
Torniamo poi sui nostri passi, per passare dal museo archeologico (che saltiamo a pie' pari) e quello di arte (in cui gettiamo uno sguardo: ci sono delle interessanti temporanee, per di più gratuite).
Passeggia e passeggia, ci spingiamo in direzione del porto, dove abbiamo deciso di recarci anche per chiedere informazioni e avere conferme riguardo al traghetto (una vocina intrusiva nella mia testa ripete che ci faranno lo scherzone e la barca salperà comunque oggi, perchè l'uragano è passato senza far danni).
Prima di raggiungere gli uffici di Baja Ferries passiamo davanti al faro, posto a 135m di altezza su una collina e considerato erroneamente il secondo più alto al mondo.
Dopo aver parlato con la gentile addetta dell'ufficio vendite di Baja Ferries, l'unica compagnia che effettua traversate tra qui e La Paz, ed esserci messi il cuore in pace grazie a tutte le risposte che ci fornisce, mangiamo uno spuntino e andiamo in spiaggia. Anche oggi c'è il divieto assoluto di balneazione, ma ciò non ci impedisce di stare con i piedi a mollo e di camminare sul bagnasciuga alla ricerca di conchiglie. che è un'attività che mi rilassa tantissimo. Pur avendo messo la crema solare, nel giro di poco le parti non abbronzate si ustionano, e quindi siamo costretti a riparare in hotel nelle ore più calde.
Approfittiamo di questa manciata di ore per organizzare l'ultima settimana in sella, in Baja California, soprattutto a fronte del giorno di ritardo sulla tabella di marcia. Ci aspettano circa 400km, in un anello che parte da Pichilngue, il porto dove sbarcheremo, e La Paz, meta finale, dal cui aeroporto ripartiremo tra 10 giorni. Non abbiamo necessità di correre e possiamo fare tappe umane, per goderci le spiagge meravigliose, oltre ai panorami desertici. Arriveremo fino a Cabo San Lucas, la punta più meridionale della penisola, per poi risalire. E' la ciliegina sulla torta, il gran finale di un viaggio pazzesco.
Dopo la logistica, tornato il fresco con la sera, usciamo di nuovo per apprezzare il centro anche in queste ore vespertine. Plaza Machado ora ha tutto un altro volto, e le luci rendono giustizia alla bellezza di queste vie e di queste case. Il tramonto sull'oceano ci regala sprazzi di fuoco tra le nuvole scure sull'orizzonte, e il ristorante sul lungomare dove ci fermiamo a cena ci coccola con prelibatezze freschissime. Insomma, per essere un giorno "perso", sembra davvero guadagnato!
21/8
Mazatlan-Pichilingue
Finalmente ci siamo, la partenza è confermata. Oggi ci imbarchiamo per la Baja California del sud, in barba a tempeste tropicali, uragani, Hilary di sorta e altre sfighe. Quindi dobbiamo essere precisi con la logistica e far incastrare per bene i tempi come tasselli di un puzzle. Usciamo a far colazione con calma, lasciando la stanza occupata. Poi, finalmente, riesco a fare il bagno nell'oceano: oggi il bagnino non ha l'ordine di tener tutti a distanza di sicurezza, e non si sente alcun fischietto d'avvertimento. Probabilmente temevano improvvise onde alte per la tempesta... Che non sono mai arrivate, qui. Ma meglio così. Ho visto i danni provocati più a nord, un disastro! Quindi mi tuffo, rimanendo per oltre un'ora a prender le onde (comunque belle alte e impegnative), sola in tutta la spiaggia. Gigi a stento si bagna i piedi, che si è scottato ieri malamente. Detesta l'acqua e riesce a immusonirsi alla sola vista di una pozzanghera. Infatti rimane a 30 metri dal bagnasciuga, punto limite di sicurezza per i suoi standard. Io pure mi ustiono, nonostante la crema, sul collo e il petto, e mi stampo un'ulteriore zebratura a forma di top di costume. Poi torniamo in hotel, ci facciamo una doccia e organizziamo le borse in vista del traghetto: una sarà "bagaglio a mano", con cambi di vestiti, materassino, sacco a pelo e quanto necessario per stare oltre 14 ore in uno spazio angusto, le altre rimarranno con le bici. A mezzogiorno lasciamo la stanza, andiamo come d'uso in pellegrinaggio dal benzinaio a gonfiar la gomma di Gigi e poi ci trasferiamo al porto. Facciamo check in, ci vengono assegnati i posti a sedere, e inizia una lunga attesa che terminerà alle 8.30 del giorno successivo.
Prima si sta in fila in attesa dell'imbarco, che prevede controlli (nel caso nostro no, la guardia si scazza all'idea di dover aprire così tante borse e borsine per due gringos dall'aria rincoglionita), altri controlli dei documenti, file per fare la fila, code su code per mettersi in coda.
Quando abbiamo superato tutti questi ostacoli, veniamo finalmente ammessi alla vista del traghetto, che è davvero gigantesco! Infatti sui tre ponti stanno caricando camion e container (perchè è una nave più mercantile che turistica/passeggeri); a parte qualche famiglia e qualche straniero, gli altri a bordo son tutti camionisti.
Siamo tra i primi a salire, e riusciamo a sistemare le bici per bene, legandole a un mezzo usato per movimentare i container (che non sarà usato, ci assicurano). Poi saliamo ai ponti superiori, destinati ai passeggeri, e prendiamo posto nell'area asientos especiales (che temevo fossero i cessi), che ci sono costati 0 pesos, ed erano ancora disponibili quando abbiamo acquistato il biglietto. I condizionatori sono impostati a 20 gradi, poi vengono abbassati a 16. Dobbiamo cambiarci e vestirci pesanti, cosa che ci fa sembrare ridicoli ogni volta che usciamo a prendere una boccata d'aria o ad ammirare il mare di Cortéz. La fortuna, però, vuole che quest'area non si riempia e l'intera fila da 4 posti resta libera per noi.
Alle 15 siamo noi siamo pronti, ma dobbiamo attendere le 17 prima che si accendano i motori. Nel frattempo viene servita la "cena di cortesia", che, per l'orario è più una merenda. E' inclusa nel prezzo quindi ci guardiamo bene dal non approfittarne, anche perchè il mio bagno tra le onde con solo un caffè in corpo mi ha prosciugata. Ci danno pollo ai funghi, riso, crema di fagioli e tortillas, oltre a un buffet libero di insalata e una gelatina di frutta color evidenziatore. Mangio la mia porzione e pure quella di Gigi, perchè lui, per cominciare, ha inghiottito un intero, carnoso peperone apparentemente innocuo, ma piccantissimo, che lo riduce a un'ameba lacrimante e ustionata nelle budella per le successive due ore. Il picco calorico, sommato al clima montano, mi porta all'abbiocco immediato. Vengo svegliata dal volume dei film che iniziano a passare sui megaschermi. La tortura uditiva prosegue fino quasi a mezzanotte, quando però il frastuono è coperto dal russare allucinante di molti passeggeri, che tra il fumo, le panze e i quintali di cibo spazzatura e birra che si calano ininterrottamente, sono ridotti a balenottere spiaggiate.
Il sole tramonta alle 18.30, regalandoci uno spettacolo dolcissimo e quasi commovente, degno di un ultimo saluto al Messico continentale che ci ha ospitati per due mesi e tanto ci ha regalato, in meraviglia, esperienza e incontri.
Ciao terra bella, arrivederci!
Dopo il tramonto, sorge una sottile falce di luna e il tempo diventa un fluido appiccicoso di dormiveglia, qualche spuntino, qualche strappo di film guardato (Il re leone, per esempio, che non avevo mai visto nella nuova versione non cartoon. E' stato il primo film che io abbia visto al cinema, con il papà, una domenica pomeriggio, nonchè un cult guardato decine di volte fino a fondere la videocassetta, quando, nel cenozoico, si usavano ancora questi supporti voluminosi). Fa ridere che questi film proitettati da Baja Ferries siano palesemente scaricati da siti pirateschi di streaming; quando vengono lanciati, sugli schermi compare lo sfondo di un desktop, con la freccina del mouse che fruga una cartella. E i nomi dei file sono proprio quelli piratelli! Che tipi.
Dormo, dormicchio, sonnecchio, poi mi addormento davvero. Sento Gigi che non sta gran bene, soffre il movimento della nave ma non vuole affrontare quella che secondo lui è l'umiliazione del chiedere in reception il farmaco per il mal di mare.
Riapro gli occhi e intravedo un chiarore fuori, sono le 6. Gigi dorme. Esco ad ammirare l'alba, che è ancora impigliata alle ciglia della notte, ma già accarezza con la luce obliqua i primi lembi di Baja, la seconda penisola più lunga al mondo, e di poco, con i suoi 1200km (rispetto ai 1250 della Kamcatka).
Poco più tardi si sveglia anche Gigi, con la faccia di chi non sta proprio benissimo. Andiamo a far colazione, anch'essa inclusa nel prezzo del biglietto, che consta di caffè nero lunghissimo amarissimo dishwash e un pan dulce. Ce li facciamo andare bene, alla fine non mangiamo nulla da ieri primo pomeriggio.
Nel frattempo il sole si alza un poco e gioca a specchiarsi tra mare e nubi basse. Ci vogliono ancora oltre 2 ore di navigazione per raggiungere il porto di Pichilingue, a 20km da La Paz. In questo tempo noi riprendiamo contatto con il mondo esterno e con noi stessi, ci vestiamo da ciclisti e ci prepariamo ad affrontare i primi 70km di questa terra nuova che tanto promette.
22/8
Pichilingue-La Ventana
70km
Come prevedibile, anche lo sbarco è operazione lunga e noiosa. Veniamo divisi in gruppi, poi i sottogruppi, si scende un po' per volta, ma talora le porte si chiudono e si rimane imbottigliati tra scale e angusti corridoi, dove la gente inizia a fischiare e vociare, finchè qualche addetto apre. Le bici sono dove le avevamo lasciate, come le avevamo lasciate. Gigi però si accorge di avere un maledetto filo di acciaio, di quelli che si staccano dai copertoni esplosi dei camion, infilzato nel copertone. E' riuscito a prenderlo nel kilometro e mezzo tra hotel e porto, ieri. Da premio Nobel! Per fortuna sembra non aver forato...
Seguiamo il flusso dello sbarco, incappiamo in altri controlli, sia dei documenti sia del bagaglio. Solo a Gigi però. E' lui quello con la faccia da narcotrafficante o clandestino! Il suo malumore peggiora quando non riesce a prelevare contanti al bancomat (io sì) e si immusonisce al punto da non apprezzare la bellezza di questi primi scorci di Baja.
La luce è cristallina, come le acque che lambiscono la costa. Fa un caldo atroce già di pima mattina e la strada è circondata da colline aride coperte di cactus maestosi. Purtroppo al porto non riusciamo nè a riempire le borracce nè a mangiar qualcosa, perchè la confusione ci scoraggia e ci fa desistere da ulteriori attese. Ci mettiamo in strada un po' alla bersagliera, sperando di trovare qualcosa non troppo avanti. Il primo impatto, per me, è spettacolare. Ci sono proprio tutti gli elementi che mi aspetto da un deserto messicano: cactus giganti che paiono colonne; sabbia e roccia rosse e ocra; strade lunghissime a perdita d'occhio. In più, qui, c'è l'azzurro limpido del mare, che contrasta con il resto del panorama, e pare un gioiello incastonato nel metallo. Una meraviglia!
Non passiamo da La Paz, che è la meta finale del nostro viaggio. Avremo tempo di esplorarla gli ultimi giorni, di ritorno dal nostro anello nel sud del sur. La strada ci conduce dunque verso l'entroterra; rivedremo il mare soltanto diverse ore dopo, all'arrivo. Iniziamo ad arrampicarci su colline dalle pendici mai ripide ma lunghe di salite ininterrotte. Si scoppia di caldo. Qua e là tra i cespugli e le piante grasse compaiono cavalli, mucche, capre e pecore che pascolano liberi. Alcuni flashback mi riportano ai grandi deserti statunitensi, attraversati nel 2019 durante la nostra coast to coast da San Francisco a New York.
Quando l'arsura ci ha cotto il cervello troviamo finalmente un baretto, un posticino lercio che però vende acqua fresca e qualche cibaria. Sorge a bordo strada, già con la sabbia fino al collo e il filo spinato intorno e quel gusto un po' da ghost town.
sulla nuova banconota da 50 pesos c'è l'axolotl! Che è l'animale più simile a Quetzalcoatl che esista |
Ripartiamo, rifocillati, per quanto provati dalla notte insonne e dai pasti disordinati. Ora la strada ci getta tra le alture, e affrontiamo quasi 1000m di dislivello in pochi kilometri, sotto al sole feroce che qui non fa sconti. Non c'è un filo di ombra, mai.
Lungo la strada sorgono molti edifici abbandonati, case e negozi ormai in rovina. Quelli abitati sono rari, isolati, lontani dalla statale. Li si intravede tra le colline intorno, segnalati dai cartelli (son tutti ranchos) e dalla musica che giunge, portata dal vento.
Non mancano gli incontri da brividini nonostante le temperature: qui due esempi fulgidi, tra tarantola pelosa e crotalo con sonaglio sonante.
Gigi fa particolarmente fatica, ancora provato dal mal di mare e dal mancato riposo. La salita non lascia respirare, e l'acqua sta finendo di nuovo. Intorno, il deserto, in cui si sentono corre lucertolone, iguane, e qualche gregge o mucca isolata. Ma, mi chiedo, chi le va a recuperare poi queste bestie? O tornano loro dove c'è acqua, senza bisogno della cura di un pastore che le segua passo passo?
Quando siamo in cresta, che pure è un saliscendi continuo, incrociamo alcuni agglomerati di baracche e capanne, in legno e mattoni, foglie e lamiere.
Finalmente arriva il momento di scollinare, e tornare al mare. Davanti a noi si spalanca una pianura azzurrognola per la distanza, mentre la strada pare bagnata, classico miraggio da riflesso della luce. La discesa è una linea tracciata con il righello che si tuffa giù, ripida, in pochi kilometri. Il vento laterale rende tutto un po' più complesso, ma ci godiamo il vento in faccia e il paesaggio surreale. Sembra di essere sulle giostre con un visore che proietta immagini di mondi altri, di fantasia. Si vede anche il mare di nuovo, finalmente!
Man mano che scendiamo i cactus si fanno più fitti, più alti, più grandiosi. Sono una vera e propria foresta secolare.
Arriva il momento di lasciare la strada principale per una deviazione verso la costa, dove ci attende il paese scelto come meta di oggi: La ventana. Abbiamo prenotato una camera in un ostello cheap, circondato da strutture che mica paion tanto belle, ma hanno prezzi da 5 stelle. Ci fermiamo in un negozietto a bere, e sembriamo lavandini. L'acqua e le bibite scendono come per un tubo senza tappo. In queste occasioni si sperimenta la sete, quella vera.
Gli ultimi 8km verso la costa sono controvento. Ci mettiamo quasi un'ora a pedalarli, tanto le raffiche sono prepotenti. Domani, però, sarà a favore, quando torneremo sulla statale ripercorrendo al contrario questa strada. Il vento qui soffia regolarmente da ovest, cosa che rende le spiagge il paradiso di surfisti, kitesurfisti e amanti di Eolo (cosa che noi no, non siamo).
Finalmente eccoci a La Ventana, con le sue strade si sabbia e i cactus che occupano più spazio delle case e delle persone che ci abitano. L'ostello, gestito da una coppia di paciosi messicani, è spettacolare: i blocchi di camere sono costruiti tutti con materiali di recupero, coloratissimi e circondati da cactus grandiosi (quello centrale ha più di 200 anni, ci dicono).
Dopo qualche attimo di svenimento sotto ai ventilatori e una doccia fresca, mentre Gigi cambia l'ennesima camera d'aria e poi riposa, io vado in spiaggia. Ormai è quasi il tramonto e il sole non morde più, anzi, c'è una brezza fresca e salata che rende più piacevole stare all'aperto che non in camera, che è un discreto forno.
La spiaggia è quasi deserta, ci sono solo un paio di mamme con prole e un ragazzo con tre canetti felici. In compenso non mancano gabbiani e pellicani, che si ingozzano delle numerose carcasse di pesci giganteschi portate a riva dalle onde. Nella sabbia è pieno di lische, pezzi di corallo bianco e conchiglie. Pochissimi i rifiuti. Si vede che non è molto frequentato questo litorale! Passeggio un po' sul bagnasciuga, fino a trovare il punto giusto per fare un tuffo. L'acqua è tiepida e calma, e questo bagnetto mi rimette al mondo dopo la stasi di ieri e il caldo di oggi.
Quasi al buio rientro in ostello, circondata dalle sagome scure dei cactus che si stagliano contro il cielo al crepuscolo. Pare un quadro, una cartolina. E' tutto troppo bello! Un roadrunner (quegli uccelli velocissimi, Beep Beep di Willy Coyote per intenderci) mi attraversa la strada a pochi metri dai piedi. Sto sognando.
La cagnolona dei proprietari decide di volersi far adottare e viene in camera da noi e ci gironzola intorno per tutta la sera, tra coccole e legni tirati e riportati.
Si va quindi a far spesa (l'ostello ha anche una bella cucina all'aperto) e ceniamo nell'aria finalmente quasi fresca. Domani ci attende un'altra tappa con dislivelli importanti, che ci porterà a sud, a Los Barriles, altra località nota a livello internazionale per il mare fantastico e gli sport acquatici. Essendo bassa stagione (quella alta è tra Natale e Capodanno) non dovremmo incrociare grandi folle di turisti, cosa che rende tutto ancora più magico.
Bene,bene
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