23/8
La Ventana-Los Barriles
98km (in teoria 80 ma ho sbagliato strada)
La notte passa nel gran silenzio del deserto, che è interrotto a tratti dal frusciare di zampette rettili e dal grido di qualche uccello. Non fronde mosse dal vento, non onde, per quanto vicino sia il mare, non voce. Sembra però di sentire la risata cristallina e ammiccante delle stelle, che qui si vedono davvero, milioni, lontane, con la loro luce che attraversa le notti ancestrali e infinite e supera persino la morte stessa della sua fonte, ormai un sasso esploso, freddo, muto. Così è loro voce che sopravvive al tempo, così la nostra, quando "non omnis moriemur", per citare Orazio in persona diversa.
Veniamo svegliati dal caldo, nonostante i 3 enormi ventilatori che trasformano la camera nel secondo cerchio dell'Inferno dantesco. Alle 6 già il sole scotta. Quando usciamo, dopo colazione, apre in due la testa come un'anguria matura.
Salutiamo la proprietaria di casa, che ieri ho visto per errore desnuda in doccia (i bagni sono condivisi) e la cui immagine mi perseguita perchè TROPPO uguale a quelle statuette preistoriche di potnia theron, di dea madre rotondissima tutta tette pancia fianchi culo cosce. Pensavo fossero immagini astratte e volutamente esagerate per esaltare la fecondità, la fertilità... Invece no! Esiste nella realtà, si chiama Estefania e ha due trecce biondo platino tinte e stinte dalla salsedine.
La Ventana ancora dorme, e così i suoi 255 abitanti, per lo più pescatori, e i pochi turisti presenti in questa torrida stagione.
Qui vivevano già 10.000 anni fa tribù di cacciatori-raccoglitori, come dimostrano le pitture rupestri trovate in zona. Cortés giunse qui da La Paz, in nave, nel 1535, ma dopo aver tentato di stabilire un insediamento, a causa di problemi logistici abbandonò il progetto. Nel 1596 giunse Vizcaino, a capo di una spedizione di cercatori di perle, ma nemmeno lui riuscì a stabilirsi qui. Il primo insediamento risale al 1695, ma più a nord. La città odierna fu fondata solo nel 1940 da un pescatore di perle, Salomé Leon, trasferitosi qui da La Paz quando la sua attività divenne poco redditizia. I suoi discendenti ancora vivono qui e fanno i pescatori.
Salutiamo anche i cactus, la sabbia e le schegge di mare e ci rimettiamo in strada, ripercorrendo a ritroso gli ultimi 8km di ieri, per tornare sulla strada principale che segue la costa ma un poco all'interno, nell'entroterra. Oggi andremo a imboccare la famosa Highway 1, l'unica strada che attraversa tutti i 1200km di penisola della Baja California, da Tijuana, al confine statunitense, a Cabo San Luca, il punto più meridionale.
le mucche che pascolano qui sono tutte infilzate di pezzi di cactus appesi alla pelle per le spine! |
Tanto è bello costeggiar la costa, e tanto ci piace che ogni 2km ci siano locali per bere acqua fresca, che sbaglio strada. Il bivio non è assolutamente segnalato, e la nostra strada, piccina e sabbiosa, corre nel cuore della Sierra de la laguna, il gruppo montuoso che occupa il sud della Baja. Poi qui son davvero parchi di cartelli e segnaletica, mannaggia a loro! Per fortuna, a un certo punto, mi viene il sospetto di aver mancato la svolta e, quando controllo, con orrore constato che siamo andati troppo avanti di 8km. La tensione del momento e la rabbia nei confronti di me stessa innescano un litigione di quelli grossi con Gigi, il quale non solo non mi aiuta a capire se c'è modo di rimediare all'errore (se non tornando indietro) ma mi risponde anche male. Ora: dal punto di vista logistico il carico organizzativo è al 99% sulle mie spalle, con tutte le responsabilità, lo stress e la fatica che ciò comporta, tanto più che non devo badare solo a me stessa. E' la prima volta in tutto il viaggio che toppo di così tanto. Il tono sgarbato nei miei confronti è immeritato, e non manco di sottolineare il concetto per la successiva ora, in toni coloriti (diciamo), mentre torniamo sui nostri passi, sapendo che gli 82km previsti saranno poi quasi 100 (che tra caldo e dislivello è una distanza impegnativa).
Torniamo al bivio mancato e imbocchiamo la strada, che è tappezzata di serpenti enormi (ma non crotali) e iguane spiaccicate. Vi dono un'immagine splatter: queste bestie sono piene di budella, sono gavettoni di interiora ben compresse nella pellaccia rugosa. Quando esplodono sotto alle auto è una pignatta di intestini. La strada inizia ad arrampicarsi. All'inizio è una lunga rampa morbida, poi diventa un susseguirsi di muretti a saliscendi. Però sul fondo delle discese si accumula la sabbia, che costringe a rallentare tantissimo, e non si riesce mai a prender velocità. Una pena. Il caldo poi, più ci si allontana dalla costa, più diventa insoffribile. Di norma non sudo molto, ma qui scopro come possano grondare parti del corpo che nemmeno pensavo potessero gocciolare: la piega delle palpebre, che mi indirizza il sudore salatissimo negli occhi, accecandomi; i baffi, le ginocchia e i gomiti. Mi sciolgo, lascio pozze sotto di me, i vestiti sono zuppi come se mi ci fossi tuffata in mare.
A un certo punto Gigi si ferma a versarsi l'acqua in testa, per rinfrescarsi. Lo supero, e non lo vedo più. Penso sia rimasto un po' indietro, come capita spesso a entrambi a seconda dei giorni, e proseguo pian piano fino al primo paesino, dove trovo un filo d'ombra e dell'acqua. Non sono più di 5km da dove ci siamo staccati. Mi chiama Gigi, cosa rarissima, e mi dice di non stare bene. Gli spiego che sono poco avanti, e lo aspetto, ma non torno indietro, e nel caso non riesca a proseguire può comunque prendere un passaggio... Aspetta e aspetta, inizio a preoccuparmi. Il suo telefono risulta offline e senza campo. Aspetto ancora. Quando finalmente riusciamo a sentirci, lo sento tutto arzillo che mi dice di aver fatto l'autostop e di esser stato caricato da un camionista gentilissimo che lo sta portando a destinazione, anzi, sono quasi già arrivati. La cosa mi fa un tantinello innervosire, e poi mi amareggia. Mi attendono ancora 40km di colline bastarde, di caldo e di sete. Non ho tutto il necessario in caso di foratura o guasti, perchè il materiale lo tiene Gigi. Inoltre, ed è la cosa che mi dà più fastidio, mi è passato per forza davanti, perchè la strada è uno ed io ero in bella vista a un incrocio ad aspettarlo. A perdere tempo. Mando giù il boccone amare e mi faccio forza: di questo passo sono tre o anche quattro ore in sella, considerando che al pomeriggio di alza il vento ed è contrario.
La strada corre tra colline verdissime, che sembrano un altro mondo rispetto al deserto e alle foreste di cactus appena lasciate alle spalle. Sono le sottane lunghe della Sierra la Laguna, che è tutta una riserva naturale che mira e proteggere flora e fauna (tra cui cervi, coyote, volpi grigie, avvoltoi...). Vedo tantissimi cardinali, gli uccellini rossi con il ciuffo punk che finora avevo visto in così gran numero solo negli USA.
Dalle foto non si può capire la fatica bestiale, animalesca, che si fa a pedalare su questi falsipiani, controvento, sotto al sole. Per fortuna non c'è traffico di sorta e la strada è pulita ed ha un fondo in ottime condizioni. Ogni volta che si può faccio scorta d'acqua: mi è tornata la fissazione della sete irrisolta, il pensiero intrusivo del "metti che poi fino all'arrivo non c'è più nulla e buchi e devi fartela a piedi e arrivi domattina, che bevi?". Questo mi tiene al riparo dal rimanere a secco, e, devo dire, nemmeno una goccia delle borracce va sprecata.
Il paesaggio torna a tratti più arido, tra roccioni nudi e distese di sabbia. Poi si segue il canyon scavato dal fiume che sfocia proprio accanto a Los Barriles, e dovrebbe essere meta di escursioni per le sue belle cascate. Io vedo solo un letto di sabbia asciuttissima, chiara, quasi bianca, e nemmeno un rivolo stagnante... Pe fortuna siamo nella stagione delle piogge!
Dopo tanto salire alcune lunghe discesone mi riportano alla vita, con l'aria fresca sui vestiti madidi e il mare che torna in vista, azzurro da fondersi al cielo. Le salite non sono finite: per entrare in città ci sono due aspri promontori da superare, collegati da un ponte. Chiedo a Gigi di cominciare a chiamare qualche struttura, perchè qui i prezzi mi paiono assurdamente alti e non ho prenotato nulla. Lui esita, ma poi si convince "con le buone" attraverso alcuni vocali perentori. Purtroppo tutti gli alberghi economici sono al completo. Un dolore al cuore, l'ennesimo, oggi!
Con un ultimo sforzo raggiungo la città e trovo Gigi sotto ai portici di un supermercato, dove è rimasto in attesa per ore, fino a metter radici. Rimando a più tardi la discussione e il rinfaccino delle sue -opinabili scelte odierne. Ora c'è un'urgenza logistica da risolvere: trovare un posto per la notte. Chiamo il più cheap degli hotel fuori budget, il primo consigliato dalla guida, e mi dicono che hanno posto. Bene. In dieci minuti siamo alla reception.
Inizia poi una lunga e penosa discussione perchè i prezzi indicati su Booking e sul sito dell'hotel sono specchietti per le allodole, trappole malefiche. Sono espressi in dollari americani, ben accetti in contanti. Ma se paghi con la carta o in pesos, eh no!, allora cambia tutto. In un caso c'è una percentuale extra (20%, roba da denuncia), nell'altro mica usano il tasso di conversione attuale, no no. Usano un tasso di conversione stabilito dall'amministrazione dell'hotel, ovviamente ben più conveniente per loro. Insomma, tra una discussione in spagnolo, una in inglese, un vaffanculo in italiano e un modulo di accettazione compilato con il dito medio alzato (mail: gofuck-yourself.gmail.com; residenza: via Stocazzo 1, Suca, MI, Italy) pago una cifra intermedia tra l'inculata con la sabbia e quella con la granella di peperoncino e siamo in camera. Se non altro mi son tolta la soddisfazione di non lasciargli la cifra piena che chiedevano. Il diavoletto sulla spalla mi suggerisce di lasciargli danni camera per una cifra ben più alta di quella estorta, ma poi tocca pulire e sistemare a chi non c'entra nulla, e non è giusto. Certo l'hotel è di altra categoria rispetto ai nostri standard, e la camera pare un appartamento e c'è pure la piscina in cortile.
Dopo la doccia, un po' di riposo e un po' di logistica per domani, Gigi ed io finiamo la discussione e ci chiariamo. E anche questo nodo si scioglie. Poi facciamo una passeggiata in paese, che è proprio la classica località turistica per gringos amanti delle onde e delle tavole, fino alla spiaggia. Il crepuscolo amalgama luci e colori e trasforma il paesaggio un acquarello che sfuma al miele, al lilla, all'azzurro cupo fuso al rosa. Anche qui c'è pochissima gente, solo un paio di coppie con bimbi piccoli e una ragazza che legge. Non ci sono rifiuti, la sabbia è finissima, bianca, mista a frammenti di conchiglie e pietruzze di tutti i colori. Sulla battigia corrono i paguri, portandosi appresso la loro casa a chiocciola. Alcune barche di pescatori sono ancorate a qualche decina di metri dalla riva e tutto l'universo è in pace, in equilibrio perfetto tra giorno e notte, tra terra e acqua.
Unica nota negativa: si può andare in spiaggia, proprio sulla sabbia, fino al bagnasciuga, con l'automobile. Ora non c'è nessuno e si vedono solo alcune auto distanti; passano un paio di dune buggy di quelli che sembrano policia della costa. Però dai, in auto in spiaggia anche no!
Per cena andiamo nell'unico locale che non sia fighetto o troppo tamarro: è un sushi, in teoria, ma in pratica serve piatti fusion tra cucina messicana e sino-giappo-asiatica. In poche parole: riso, pesce cotto, pollo, verdure e salse, molto fritto, molto saporito, molto buono e basta. Da bere ci portano una specie di enorme granita al mango, condita con il peperoncino a granella. E' DI-VI-NA!
Gigi sta per commettere di nuovo l'errore del peperone piccante inghiottito intero in traghetto, stavolta con delle pallette di wasabi che scambia per olive. Me ne accorgo per tempo ed evito il peggio, ma il rischio, qui in terra messicana, è sempre dietro l'angolo!
Domani lasceremo questa capitale del kite e del windsurf, per proseguire spediti a sud, al primo "cabo": San José del Cabo. Attraverseremo la linea del tropico e approderemo in questa città ricca di storia e storie, oggi turistica, un tempo porto per le navi che mercanteggiavano con la Cina.
24/8
Los Barriles-San José del Cabo
81km
La notte porta riposo e consiglio, e ci svegliamo freschi, carichi e pronti ad affrontare la giornata; Gigi, soprattutto, si è ripreso e pare proprio in gran forma! Bene così: temevo di dover pedalare sola, in questi ultimi giorni, e che lui si perdesse tutta la bellezza di questi luoghi in bilico tra deserto ed oceano.
Colazione in camera con le immancabili tortillas e marmellata di ananas, fuori le borracce dal freezer e siamo pronti per saltare in sella, in un'aria già spessa di umidità e salsedine, sabbia e calura. Ci lasciamo alle spalle Los Barriles e imbocchiamo di nuovo la highway 1, che ci condurrà fino alla fine del viaggio, a La Paz. Per i primi km si rimane vicini alla costa, e gli scorci del mare dall'alto, con i suoi riflessi argentei e le sfumature di blu, sono incredibili.
Poi la strada vira nettamente a sud, allontanandosi dalla costa per infilarsi a fondo tra le propaggini dei monti della Sierra la Laguna; non ci sono passi da scalare, oggi, ma una lunga serie di colline separate da canyon e letti aridi di fiumi in secca. Immaginate una fila di trapezi isosceli: su un lato obliquo si sale, poi si resta in cima, in piano, per un po', sul lato corto, per scendere dall'altro lato obliquo, nei sabbioni un tempo abitati dai pesci. E così via, ogni manciata di minuti, su, piano, giù, su, piano, giù. Per tutti e 80 i kilometri pedalati oggi. Inutile dire che, sulle salite, le temperature diventano un argomento drammatico e problematico. Non c'è crema solare, non acqua rovesciata in testa, non ombra che risparmino la pena.
In compenso, intorno, è tutto verde e non desertico, per quanto arido. Tra i cespugli pascolano cavalli, mucche e capre, tutti liberi e non sorvegliati. Delle auto non han timore, ma quando passiamo noi, anche distanti, queste placide bestione fuggono terrorizzate, soprattutto se le saluto (di norma non mancano mai un "Ciao muuuucche" o "Ciao cavallini!" - chiaro riferimento a Francesco Gozzelino).
Ogni ora al massimo dobbiamo fermarci a riempire le borracce, e ci concediamo il lusso non caricarci troppo di acqua, che poi diventa brodo, grazie alla presenza di minuscoli pueblos disseminati qua e là a distanza ragionevole.
Proseguiamo spediti, nonostante il continuo saliscendi, fino a raggiungere un passaggio interessante: la linea del tropico del Cancro! Pensare che questa linea corra attorno a tutto il mondo e colleghi qui alla Mauritania, a Taiwan, fa venire il capogiro e fa sentire minuscoli.
Dopo le foto di rito, ripartiamo ad affrontare i nostri trapezi isosceli di colline con canyon. La strada è stretta e qui pare che i più non siano particolarmente svegli alla guida. O fanno manovre pericolosissime, o ci si piazzano dietro e rimangono in attesa per decine di minuti, procedendo al nostro passo, cioè 15km/h quando sprintiamo. In ogni caso sono più i gesti e le parole di apprezzamento o incoraggiamento che le sclacsonate irritate. E qui non sente più parlare di "gringos", "extranjeros", "camarones".
pausa acqua presso una loncheria sulla strada, gestita da signora e anziana madre, che si beve un brodino caldo... Ci sono solo ottomila gradi! Signora, lei vuole ammazzare la abuelita! |
Dopo le ultime salite, altrettante discese e letti sabbiosi di fiumi, ecco che inizia a intravedersi la piana costiera; le alture digradano lentamente e davanti a noi torna visibile il mare, preceduto da una fitta serie di agglomerati urbani, qui sì concentrati e vicini.
Dal primo paese, Santa Anita, fino all'arrivo a San José del Cabo, la strada si fa trafficata, caotica e pericolosa per le manovre improvvise e imprevedibili dei guidatori, spesso a bordo di furgoni scassati o motorini arrugginiti. Inoltre le corsie sono spesso coperte di sabbia a mucchi. Pedalarci sopra senza sbandare è una fatica infernale. Per cui spesso preferiamo buttarci in mezzo alle auto e sperare che nessuno ci investa. Sudati e appiccicosi come siamo, ci paniamo di sabbia, che viene sollevata dai mezzi pesanti, e ci troviamo granelli ovunque, tra i denti, negli occhi, nelle orecchie e nelle abrasioni sulle gambe. Ma possibile che non si possano tenere pulite queste strade? Va bene a tutti così?
Anche questa volta riusciamo ad uscirne illesi, in qualche modo, e ad attraversare le cittadine e pure il centro storico di San José. Ho prenotato una camera presso la Posada Señor Mañana, che ha un nome fantastico e un prezzo ancor migliore. Il posto è spettacolare. Roncio il giusto, alternativo un tot, un covo di surfisti e hippie, a partire dal proprietario, che parla un curioso mix di inglese e spagnolo. Ci dice che spesso passano qui cicloturisti, ma sempre d'inverno, e di notte, con le luci, perchè ora è da pazzi, fa troppo caldo. Dice che di notte non è pericoloso, non ci sono i bandidos, sono leggende metropolitane. Bisogna però stare attenti agli animali, ai burros, ai caballos, che sentono l'asfalto fresco e si stendono a dormire in mezzo alla strada. Se li investi ti fai male tu! E' un fiume in piena, il Signor Mattina (o Signor Domani?). Ci dà la stanza ma non il resto (che, dopo 8 ore, sto ancora aspettando. Immagino torni mañana), e ci mostra gli ambienti comuni.
la camera sembra la cuccetta del capitano di una nave! |
Il progetto è quello di riposare un poco, girare il centro (a un minuto a piedi) e poi raggiungere la spiaggia, che dista un paio di kilometri. Purtroppo i piani saltano perchè crollo in un sonno comatoso che mi porta via fino quasi al tramonto. In effetti, inizio a essere un po' stanchina anch'io. Quindi lasciamo perdere il mare (ci rifaremo nei prossimi giorni) e optiamo per una visita del centro storico, dove, per altro, è in corso il cosiddetto tianguis (mercato all'aperto) cultural, anche detto art walk perchè i gringos fanno fatica a pronunciare le parole che vengono di là dal muro. E' una manifestazione che si tiene ogni giovedì sera nella piazza principale, e vede artisti, musicisti, pittori, scultori, produttori locali e artigiani esporre le proprie creazioni ad un pubblico composto per lo più da turisti statunitensi, pronti a spendere per qualsiasi cazzata venga loro venduta bene, figuriamoci quando i prodotti sono pure di qualità, come in questo caso.
Tutto attorno non mancano gli ambulantes dello street food, che qui gonfiano i prezzi e accettano i dollari, come la gran parte delle strutture e dei negozi. Anzi, chi paga in dollari riceve un discreto sconto. Tutti contro i gringos, ma quando i camarones aprono il portafogli allora son sorrisi e ossequi, eh?
A differenza delle altre cittadine finora viste qui in Baja, San José ha una storia antica e complessa che ha lasciato traccia nell'architettura e nelle pietre delle vie e delle piazze.
In queste zone, com3 già detto, vivevano tribù native, ma la città assunse importanza nel XVI secolo grazie alle spedizioni di Vizcaino, e come approdo sicuro per i galeoni che da Manila attraversavano il Pacifico verso i porti della Nuova Spagna, Acapulco in primis. Qui equipaggi e merci erano al sicuro dai pirati, che spesso attaccavano le navi mercantili, e, per di più, c'era una fonte di acqua dolce, bene tanto raro e prezioso per chi viveva mesi e mesi circondato dall'oceano sterile e salato. Nel 1730, poi, il gesuita Tamaral ebbe l'ideona di fondare qui una missione, proprio nell'attuale centro storico di San José. I pericùes, tribù locale poi scomparsa nel giro di qualche decennio, non la presero benissimo: organizzarono una ribellione armata, e, nel 1734, a distanza di pochi giorni, ammazzarono ben due gesuiti fondatori di missioni. Il martirio, perchè tale fu considerato, consistette nell'essere legati e trascinati come sacchi di patate, infilzati con frecce e poi fatti a pezzi con un coltellaccio. Oggi, dove sorgeva la missione, c'è una chiesa in stile coloniale, che affaccia proprio sulla piazza centrale. Sulla facciata è rappresentata con dovizia la brutta fine di Tamaral, mentre i turisti 'merricani ignari si fanno selfie in posa davanti al luogo del supplizio.
Noi proseguiamo la passeggiata tra stand, bancarelle e lucine che si accendono nel crepuscolo violetto. L'atmosfera è molto piacevole, per quanto turistica e vagamente artefatta. Questo è il Messico plasmato a misura di gamberone, patinato, costruito a immagine e somiglianza dei depliant delle agenzie di viaggio. Ci sono tutti gli stereotipi, tutto ciò che uno straniero si aspetta di trovare, dalla calavera de azucar ai mariachi che cantano Cielito lindo, dai festoni colorati alle maracas. Il Messico è altrove e ne abbiamo visto tanto, in questo viaggio. Ma, onestamente, non è spiacevole mescolarsi ai vacanzieri di bassa stagione e seguire quest'onda, senza più pensare, per un attimo, ai drammi antichi e recenti, al colonialismo proteiforme, a questo mondo che abbiamo reso marcescente e tossico, inquinato nell'ambiente e nella società. Solo per un attimo. Non pensare.
Certo i negoziacci di souvenir che vendono tequila, viagra, cioccolato e cianfrusaglie a prezzi folli, stracolmi di decerebrati che non distinguono il ca*zo dall'equinozio, per citare un grande professore, non aiuta. Gigi cerca una boul a neige, per la sua ricca collezione, ma qui proprio gliele lasciamo senza rimpianti.
Dopo aver passeggiato ancora un poco, rientriamo verso la nostra casa di oggi. Facciamo la spesa, e per cena son previsti spaghetti al tonno e verdure, giusto per rendere meno netta la transizione, che avverrà purtroppo a breve, tra la farina di mais e quella di grano, tra il carboidrato tortilla e il carboidrato pasta.
San José del cabo - Cabo San Lucas
34km
Oggi si prospetta giornata di quasi pausa, di semiriposo. E' una mezza tappa, pensata sia per visitare bene la zona de Los Cabos, che è la più iconica e caratteristica di quest'area, sia perchè così le ultime due tappe risultano perfettamente bilanciate in km e dislivello, e ci portano la sera sempre in una bella cittadina costiera. Manca ormai poco alla fine del viaggio, cosa che mi procura sensazioni miste e fortemente contrastanti, dolceamare come la belva d'amore descritta da Saffo. Da un lato la stanchezza inizia a farsi sentire, anche se molto meno che in altri viaggi; non è tanto una cottura fisica, quanto più mentale. Ho sbrigato il lavoro di tre persone che stanno a tempo pieno davanti a una scrivania e al telefono, in agenzia, ma mentre pedalavo, mi ammalavo, scrivevo, mi godevo i momenti. E la full immersion nella complicatissima, stratificata e multiforme cultura messicana è stata un'esperienza grandiosa e meravigliosa, ma anche faticosa. La sensazione è quella di un secchiello che viene riempito con tutte le acque dell'oceano e le sue correnti. Mi sento strabordare. So di aver bisogno di un tempo di calma e raccoglimento per rielaborare tutte le esperienze vissute, le novità con cui sono venuta in contatto, i mondi distanti cui mi sono esposta, disarmata, senza nemmeno la pelle addosso, per sentirli meglio. Viaggiare in bici è anche questo. Sentire. Tutto, forte, vicino, senza filtri. Quindi tornare è un bel pensiero, da questo punto di vista. Ma lavorare un po' meno! No, via, si scherza. Anche rivedere colleghi, amici, alunni, sarà bello. Mi spaventa però la routine tritacarne che si sperimenta nei mesi sedentari. So che non mi fa bene e che la mia dimensione ideale è sempre ambivalente e scissa. Muoversi, stare. Viaggiare, metter radici. Planare sulla superficie del tempo, scavarne il fondo. Insomma, mai in pace! Ma la lezione di Ulisse si impara una volta e non si scorda più.
Ovvìa, quante pippe! Dicevo che mancano poche tappe, e distanze brevi. Oggi puntiamo a Cabo San Lucas, e son 34km. Domani saremo a Todos Santos, con altri 78km, e domenica 27 sera raggiungeremo La Paz, con gli ultimi 83km che segneranno la fine del viaggio. A La Paz staremo due giorni, necessari per recuperare scatoloni, scatole e nastro adesivo, per imballare bici e bagagli (ovviamente non abbiamo valigie o zaini, e l'Home Depot, oltre ai negozi di ciclisti contattati da Gigi, ci forniranno tutto il necessario per sembrare i soliti loschi spacciatori di cose in aeroporto). Stamattina, visto che partiamo con calma per non arrivare troppo presto, prenoto sia l'ostello a Todos Santos, un posto da fricchettoni sulla spiaggia, sia l'appartamento a La Paz, una casa storica che dalle foto pare meravigliosa. Inoltre prendo contatti con il tatuatore che ho selezionato per i miei souvenir indelebili, ormai un classico intramontabile da anni a questa parte.
Dopo colazione, chiacchiere con il Signor Domani, che mentre rassetta il cortile si fuma un cannone grande così, e le varie brighe logistiche, siamo pronti per pedalare. Uscire da San José è facile, grazie alle piste ciclabili che costeggiano le strade principali. Inoltre c'è ancora poco traffico, perchè i turisti, a quanto pare, non sono molto mattinieri e il sole fa doler la testa a chi si è ubriacato male la sera prima.
La situazione si fa meno rosea appena usciti dalla città. La strada è spesso stretta, senza bordo, e funestata da snodi e incroci pericolosissimi. Auto e furgoni si moltiplicano, e corrono, senza darsi cura di allargare un poco quando ci sfrecciano a pochi millimetri, quasi trascinandoci via. Nemmeno a dirlo, non c'è un metro in piano, e son tutti saliscendi spesso ripidi. Questo è il cosiddetto corridor turistico, che si sta mangiando il deserto in favore di mega resort, campi da golf grandi come città e brutte multiproprietà spesso ancora in costruzione, o mai finite, o finite e rimaste invendute. Il mare si vede solo a tratti, e comunque abbiamo poca attenzione da dedicargli: dobbiamo per lo più stare attenti a non essere investiti.
Nel giro di poco, comunque, siamo a destinazione, a Cabo San Lucas. E' ancora molto presto, troppo per chiedere in ostello la cortesia di farci fare check in anticipato, quindi ci fermiamo a bere qualcosa di fresco. Noto subito i manifesti che pubblicizzano un torneo di pesca: ho letto che qui sono numerosi e prestigiosi a livello internazionale, soprattutto quelli dedicati ai marlin, e spesso in palio ci sono premi molto allettanti.
Gigi è un po' provato, quindi ci spostiamo in ostello e riusciamo a farci dare la camera nonostante non sia ancora mezzogiorno. Il ragazzo alla reception è gentilissimo e ci spiega tutto della struttura e di quanto il quartiere ha da offrire. Siamo in centro, a due passi dal porto e dall'iconico promontorio Land's end, il punto più a sud della penisola. Ci concediamo una doccia e un po' di riposo al fresco in questo hostal che pare una casetta e fa sentire in famiglia: tutti salutano, chiacchierano e sorridono come se ci si conoscesse da anni.
Nel primo pomeriggio viene il momento di uscire ad esplorare le bellezze che questa "sorella scatenata" di San José ha da offrire. Lasciamo a chi sa apprezzarli i locali dove si balla la conga in fila, mentre i camerieri versano tequila direttamente in gola, e pure i catamarani allestiti a discoteca, con open bar, struscio e vomitini inclusi. Passiamo dal centro, che a quest'ora è deserto. La luce è accecante, chiarissima, verticale. I negozi sono tutti di souvenir e si alternano alle decine di farmacie, ai bar che scimmiottano Starbucks e ai ristoranti, molti dei quali etnici (ma la cucina messicana fa così orrore ai turisti?).
Ci dirigiamo verso il porto. Dopo aver frugato internet, ho capito che il modo migliore per vedere il promontorio di Land's end nel tempo e con il budget che abbiamo è prendere un taxi acquatico, un barchino che ti porta a circumnavigare la penisola e ti lascia sulle spiagge e nelle calette, per poi venirti a recuperare all'ora stabilita. Al porto si susseguono senza soluzione di continuità i baracchini dei procacciatori di clienti che vendono tour di ogni genere. I più gettonati sono quelli nel deserto, a cavallo, in quad e in cammello (sic, questa cosa ha preso piede in modo inquietante); a pari merito quelli in barca, con o senza snorkelling, con o senza degustazione di pesce pescato in loco. I prezzi sono tutti in dollari americani. I bancomat erogano quasi solo dollari americani. Tutti parlicchiano almeno qualche parola in inglese. Dopo aver parlamentato un po' con un venditore, ci accordiamo per il servizio taxi a 15 dollari, e ci carichiamo su un'imbarcazione con il fondo di vetro guidata da un ragazzino che avrà 16 anni al massimo. Quando saliamo si sta gustando un chupachups mentre smandrocchia al telefono: potrebbe essere un mio alunno. Con noi salgono anche due circa trentenni, palesemente entrambi messicani. Lei parla solo spagnolo ed è vestita con un abitino rosa succinto che scopre più che coprire. Lui da gringo fatto e finito, ma con complessione e accento da chingon hecho en México. Chiacchieriamo tutto il tempo e lui sostiene di essere di San Diego puro statunitense. Maddai.
Gigi ormai si imbarca senza tema, per quanto poi le onde forte vicino alle scogliere lo faranno ricredere sulle sue scelte avventate, nel seguirmi. In porto passiamo accanto ad alcuni gruppi di leoni marini, puzzoni, pigri e spaparanzati come da manuale. Li abbiamo visti anche in California, nel Big Sur, e in Perù. Sono sempre un grande (e grosso) spettacolo!
Lasciamo poi la marina, per costeggiare il promontorio, che è un gioiello di formazioni rocciose alternate a calette di sabbia d'oro fino. Questa lingua di terra separa il Mare di Cortés dall'oceano Pacifico e ospita colonie di otarie, pellicani e una varietà di pesci e specie marine che si ammirano anche solo guardando la superficie dell'acqua.
i pelliquelli! |
El capitan, il ragazzino, è in vena di chiacchiere, e ci racconta un po' di aneddoti e curiosità sui luoghi che stiamo ammirando. Ad esempio, ci dà dei cracker da gettare in acqua per far avvicinare i pesci, coloratissimi, gialli, rossi, striati. Mi fa ridere perchè commenta che quei pesci sono grassi perchè tutti i giorni i turisti li alimentano a biscotti, merendine e pan Bimbo (che è una marca di prodotti commerciali da forno molto messicana). I pesci del pan Bimbo fa riderissimo!
Purtroppo non possiamo approdare alla famosissima Playa del Amor, che affaccia sia sul Pacifico sia sul mare di Cortés, perchè l'alta marea l'ha sommersa quasi del tutto. Accanto alla Playa de l'Amor c'è una grotta detta di San Andrés, perchè si entra in dos e si esce in tres. Più avanti, esposta alle onde violente dell'oceano, c'è l'inevitabile Playa del Divorcio.
uno scoglio a forma di Baja California al contrario |
la finestra sul Pacifico |
Il punto più noto di Land's End è El Arco, una particolare formazione che mi ricorda tanto le scogliere di Vik, in Islanda. Con un clima più piacevole e adatto alla vita da mare, però, e una luce meno da oltretomba.
la Playa del Divorcio |
Tra meraviglie di roccia, giochi di luce sul pelo dell'acqua e una fauna ricchissima, il tempo vola, tanto più che il nostro nocchiero ama fare manovre sconsiderate e abbastanza spaventose tra le onde e gli scogli aguzzi. Assistiamo alla partenza di una nave da crociera (qui fanno sosta un giorno), annunciato dalle sirene, e torniamo in porto.
Siccome è ancora presto, dopo aver superato i locali con musica a palla e i ristoranti dove cucinano il pesce che i turisti pescano, andiamo in spiaggia a goderci un po' di onde, io, e relax, Gigi. Molte spiagge hanno degli ombrelloni pubblici, a disposizione di tutti. Non mancano comunque gli ambulanti che affittano ombrelloni e sdraio, vendono collanine, bevande fresche, cibarie miste e cocchi affettati al momento con il machete.
La sabbia è meravigliosa, pulita come l'acqua, cristallina, tiepida, perfetta. Le onde sono basse e si può nuotare, cosa che non manco di fare, per esplorare le calette. Ci sono diversi bagnanti, ma non c'è confusione e lo spazio non manca. Insomma, si sta bene!
Domani è la penultima tappa. E' tutto pronto e organizzato, in modo che ci si possa godere appieno queste ultime manciate di kilometri in terra messicana, che tanto ci ha regalato.
Dopo che Rita ripete 2 volte,che si sta bene in quei luoghi,si comprende che la yiurta immaginata in pensione, potrebbe essere sostituita da 4 giunchi che spiovono i loro rami ,col profumo di Oceano
RispondiEliminaIl mostro ha paura
RispondiEliminaEcco spuntare da un mondo lontano
L'ultimo mostro peloso e gigante
L'unico esempio rimasto di mostro a sei zampe
Quanto mi piace vederlo passare
Cosa farei per poterlo toccare, io cosa farei
Dicono che sia capace di uccidere un uomo
Non per difendersi, solo perché non è buono
Dicono loro che sono scienziati affermati
Classe di uomini scelti e di gente sicura
Ma l'unica cosa evidente, l'unica cosa evidente
È che il mostro ha paura, il mostro ha paura
È alla ricerca di un posto lontano dal male
Certo una grotta in un bosco sarebbe ideale
Ma l'unico posto tranquillo è quel vecchio cortile
L'unico spazio che c'è per un grande animale
Dicono: Siamo in diretta, lo scoop è servito
Questa è la tana del mostro, l'abbiamo seguito
Dicono loro che sono cronisti d'assalto
Classe di uomini scelti e di gente sicura
Ma l'unica cosa evidente, l'unica cosa evidente
È che il mostro ha paura, il mostro ha paura
Basta passare la voce che il mostro è cattivo
Poi aspettare un minuto e un esercito arriva
Bombe e fucili, ci siamo, l'attacco è totale
Gruppi speciali circondano il vecchio cortile
Dicono che sono pronti a sparare sul mostro
Lo prenderemo, sia vivo che morto sul posto
Dicono loro che sono soldati d'azione
Classe di uomini scelti e di gente sicura
Ma l'unica cosa evidente, l'unica cosa evidente
È che il mostro ha paura, il mostro ha paura
Vorrebbe farsi un letargo e prova a chiudere gli occhi
Ma lui sa che il letargo viene solo d'inverno
Riapre gli occhi sul mondo, questo mondo di mostri
Che hanno solo due zampe ma sono molto più mostri
Gli resta solo una cosa, chiamare il suo mondo lontano
Lo fa con tutto il suo fiato, ma sempre più piano
Vorrei poterlo salvare, portarlo via con un treno
Lasciarlo dopo la pioggia, là sotto l'arcobaleno
Fonte: Musixmatch
Compositori: Samuele Bersani