giovedì 25 agosto 2016

Ventiquattresima tappa: Russia! Da Orsha a Smolensk. Il massacro della foresta di Katyn





Ciao mamma vado a fare un giro in bici.
E ti ritrovi in  Russia.



Crederci o meno (io faccio ancora fatica) oggi ho davvero passato il confine. E’ l’ultimo dei sette attraversati in questo viaggio, che già è agli sgoccioli e mi riempie di una nostalgia al contrario che non si può capire. “Forza che sei quasi arrivata” mi dicono. Ma non è una notizia così entusiasmante… Certo, la fatica comincia a farsi sentire e le tappe si fanno ogni giorno più pesanti. Ma se Mosca si spostasse di qualche centinaio di kilometri più ad est io sarei solo contenta. Di ciò che mi mancherà parleremo poi, a tempo debito. Il viaggio non è ancora finito.
Dicevamo che oggi ho passato il confine.
La Bielorussia non voleva che me ne andassi, e ha tentato con forza di trattenermi e respingermi indietro con un vento che solo dio sa come ho fatto ad affrontare, io che lo odio, il vento.
Probabilmente è merito del salsicciotto che mi han rifilato a colazione. Formaggio, burro, pane, the e una piattata di riso e latte DOLCE con, in mezzo, un wurstelone (leggi: vusterone) grosso così. Bon. Ci ho cacciato giù pure i pomodori di Iannina, che non ho avuto cuore di buttare. Per un momento ho pensato di mettermi in società con i venditori di funghi e mele che si vedono a bordo strada. Però poi no, dai.



Ho salutato gli alberi di Orsha che già cantavano il vento con voce d’argento e verde, per imboccare la strada che mi avrebbe riportata sulla M1, l’enorme highway che collega Minsk a Mosca. 



Vento, vento, vento e salite. E salite. E vento. Ho tirato dritto così fino al confine, a testa bassa come un torello determinato. Volevo arrivarci il prima possibile per evitare ritardi eccessivi sull’arrivo, stasera. Temevo di dover spostare l’orologio ancora avanti di un’ora. Invece no, perché la Russia è sì due ore avanti a noi, ma non usa l’ora legale. Meglio così. Detesto farmi mangiare il tempo dallo spazio.
Mi sono fermata soltanto un paio di volte ai baracchini le cui insegne millantavano di cambiare euro, bielorubli e rubli. Conclusione: i bielorubli non li ha voluti nessuno, e li ho ancora in saccoccia. Non so perché, ma ho il vago sospetto che, se non li volevano i bielorussi stessi, figuriamoci gli altri.
Un giro di pedale dopo l’altro sono arrivata all’agognato confine. Mi aspettavo gran traffico, colonne di auto e camion in attesa dei controlli, umanità varia accampata alla frontiera… Invece nulla. Niente di niente.
Un cartello.



Un monumento che indica l’ammmore che lega Bielo e Russia.



Un modellino da venti metri, in cemento, della M1, con le città che si trovano affacciate ad essa e i servizi che offrono (cessi, ospedali, ristoranti, hotel. Perché siamo animali semplici, tutto sommato).





E basta.
Poco avanti c’è un posto di blocco per i tir, che vengono pesati (?).
Il militare in servizio, una panza alcolica in divisa, mi ha fermata per chiedermi, curiosità sua, da dove venissi e dove stessi andando. Mi ha sottilmente presa per il culo, ma in modo buono, sfiorandomi con la paletta da vigile urbano i cosciotti e dicendo che ero molto forte.
Poco oltre due ragazzini in mimetica si son limitati a sorridere e fare il gesto del “circolare!” con la mano. E questo è stato l’ingresso in Russia.
Non ho nemmeno dovuto tirar fuori il passaporto. Nessuno ha controllato il visto e l’assicurazione medica, che è obbligatoria (tanto che, lungo la strada, si incrociano numerosi furgoncini e gabbiotti che offrono tutti gli incartamenti necessari).
Mi aspettavo controlli spasmodici come alla frontiera bielorussa, invece nulla. Per qualche kilometro ho pensato che la dogana vera e propria fosse poco più in là, ancora oltre. Invece no. Sembra quasi di esser tornati in un paese libero. Così libero che al check-in in ostello non compilano nulla, a differenza delle millemila bielo-scartoffie, e nemmeno ti rilasciano scontrino fiscale. Banconota in tasca, due sorrisi e via.
Che sia Russia si fa chiaro subito, però, perchè tutto è più grande. Terribilmente più grande. Più vasto, grosso, alto, largo. Più smisurato.
Le persone sono il doppio in altezza e circonferenza, per la dieta sana, il molto sport e il poco alcol.
Le strade diventano ancora più ampie, sei corsie più due. Gli alberi sono più alti e più fitti. Il cielo è più spalancato, l’orizzonte ancor meno afferrabile con uno sguardo. Anche le salite sono più lunghe, ma meno ripide, quasi dovessero stendersi per coprire distanze maggiori. Il vento è più forte. I cartelli che indicano le aree di sosta e i benzinai portano numeri a tre cifre. Come a dire: sei in riserva? Devi fare pipì? Hai fame? Fottiti yankee borghese, questa è la Russia. E le cose sono lontane e grandi. E tu sei piccolo e insignificante.
Così, io e la Signora, piccolissime in quelle immensità, ci siamo incamminate verso la meta di oggi, Smolensk.
Ma di questa città parleremo domani, e vi spiegherò anche perché.






Dopo 50km di M1 e una sosta-barrette, ho lasciato l’autostrada (pedalabilissima) per una secondaria. Direzione Katyn, cimitero di guerra.
Un nome lugubre, intriso di sangue.
Katyn.



Un rintocco di campana a morto.
Dobbiamo tornare indietro a questi alberi neri. Dobbiamo tornare al 13 aprile 1943.





Radio Berlino diffonde la notizia che sono state trovate delle fosse comuni piene zeppe di cadaveri di polacchi. Parliamo di quasi 22.000 anime. Sono stati trovati, ormai mezzi marci o mummificati, con le loro divise, le mani legate e un foro nel cranio. Sono stati trovati nella foresta di Katyn.
Ad ammazzarli sono stati i russi, si dice.
Stalin nega tutto. Attribuisce la colpa ai nazisti.
I proiettili sono tedeschi, sono stati loro. Sono stati i nazisti.
Si dice.




I rapporti tra governo polacco, in esilio a Londra, e sovietici si incrinano per l’ennesima volta.
Goebbels, ministro della propaganda del Reich, cavalca la notizia per screditare Stalin agli occhi di tutto il mondo. Intanto si affretta a far dissotterrare i cadaveri degli ebrei di Treblinka, e a bruciali, farli sparire, per evitare il medesimo inconveniente “mediatico”.
Sono stati i russi, quando, in virtù del Patto Molotov-Ribbentropp, hanno invaso la Polonia insieme ai tedeschi e se la sono spartita. Tutti lo sanno. Ma la verità verrà ammessa solo nel 1990 da Gorbacev e provata nel 2005 dai documenti ormai non più top-secret.



A partire dal ’39 Germania e Russia invadono la Polonia. Entrambi gli aggressori fanno prigionieri; i sovietici chiudono 22.000 ufficiali, poliziotti, secondini, gendarmi e guide in diversi campi di detenzione, tra cui Ostaškov, Kozel'sk e Starobel'sk. Gli ufficiali sono tutti laureati, perché così prevedeva il sistema di coscrizione polacco. E per piegare una nazione asservita, per costringerla al giogo, non c’è come eliminare la sua inteligencija. Nazisti e sovietici, su questo, per quasi due anni, van d’amore e d’accordo. Il 5 marzo 1940 il capo della polizia segreta russa, Berija, Stalin, Molotov e altri membri del politburo dei Soviet, firmano l’ordine di esecuzione di questi prigionieri, definiti “nazionalisti e controrivoluzionari”. I campi di detenzione vengono svuotati con fredda precisione dai membri del NKVD, i polacchi finiscono tutti ad ingrassare la terra dei boschi. In molti casi, mogli e figli vengono spediti nei gulag siberiani. La Polonia deve essere abbattuta, e lo si fa succhiandole via la vita. Dal 3 aprile al 19 maggio, ogni giorno e ogni notte, vengono riempite nuove fosse. I russi usano proiettili e armi degli alleati tedeschi, per poter attribuire loro la colpa, nel caso emerga la verità.



Giugno 1941. La Germania invade la Russia. I russi si riavvicinano al governo polacco (in esilio a Londra) per un’alleanza anti-tedesca. Si organizza un’armata polacca in Russia. I generali chiedono notizie dei loro ufficiali, ne mancano oltre 15.000 all’appello. Stalin resta sul vago, dice che forse son scappati in Manciuria. Invece sono lì, sotto ai loro piedi, tra le radici della foresta di Katyn.
Nel ’43 i nazisti scoprono le fosse e diffondono la notizia: “È stata trovata una grande fossa, lunga 28 metri e ampia 16, riempita con dodici strati di ufficiali polacchi, circa 3.000. Essi indossavano l'uniforme militare completa, e mentre molti di loro avevano le mani legate, tutti avevano ferite sulla parte posteriore del collo, causate da colpi di pistola. L'identificazione dei corpi non comporterà grandi difficoltà, grazie alle proprietà mummificanti del terreno e al fatto che i bolscevichi hanno lasciato sulle vittime i documenti di identità. È già stato accertato che tra gli uccisi c'è il generale Smorawinski, di Lublino”.
Gli Alleati già sapevano, ma fingono di credere alle scuse di Stalin, che accusa i nazisti.
Per volontà del Reich, a fine aprile ’43 si istituisce una commissione internazionale d’indagine, guidata dalla Croce Rossa. Il verdetto è uno ed uno solo: sono stati i sovietici.
Alcuni membri della commissione spariscono misteriosamente. Altri, come il prof. Palmieri, vivono nel biasimo e nella derisione per anni, anche dopo la guerra, tacciati di esser stati fascisti per aver detto la verità su Katyn. Churchill e Roosvelt partecipano all’insabbiamento della spinosa questione: ormai sono tutti alleati.
Nel ’46 i russi tentano di accusare i nazisti anche del massacro di Katyn al processo di Norimberga, ma la faccenda viene lasciata cadere. Nei primi anni ‘50, un'indagine del Congresso statunitense riporta la vicenda all’attenzione, dimostrando che la colpa è dei russi. Ma l’Urss ormai gode dell'amnistia concessa alle potenze vincitrici del conflitto. Durante la Guerra fredda gli stessi comunisti polacchi insabbiano la questione Katyn, per non parlare del Cremlino, che espunge il dettaglio da tutti i libri di storia, puntando il dito sui massacri (veri anche quelli compiuti dai tedeschi).
Si fa a gara nelle accuse a chi l’ha fatta più grossa. A chi ha ammazzato di più e più brutalmente.
La verità emerge solo ventisei anni fa.



“Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza,
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni”.








Dopo la visita al memoriale delle vittime del massacro di Katyn, posso dire di essere entrata davvero in Russia. Con le sue tette grandi da mamma e puttana, con i suoi orrori nascosti sotto al fango e alle foglie. Con i suoi sacrifici per liberare l’Europa.
Di lì sono arrivata nella vicina Smolensk, la cui periferia è caotica, polverosa, sporca e malata di ingorghi d’auto. 



Ero stanca nella testa e nelle gambe, ho rimandato la visita del centro storico a domattina. Ora sono in una camera in affitto sopra ad un meccanico d’auto. Si vede lo Dnepr dalla finestra e tutto finalmente tace.
Anche i boschi. Anche i morti.



Una chicca per allegerire un pochino: ma questo pater famialas che mi guarda dal docciaschiuma-sapone per i piatti-tutto in uno-pure il budello di tu' ma' vestito da pirata? Quanto è russo dentro (e fuori)?








4 commenti:

  1. Un memoriale alle vittime...dei russi in Russia??!! Ha dell'incredibile.
    Vuoi dire che il carnefice si e' redento?

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  2. complimenti per le gambe e...per la rivisitazione storica! una volpe in gamba!

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