Hanoi
Sono le 4 di notte e le strade del quartiere vecchio di Hanoi ristagnano in un silenzio appiccicoso di umidità. Devo ancora abituarmi al clima tropicale e al fuso orario (5 ore in tutta l'Indocina: qui non si adotta l'ora legale). Solo si sente, a tratti, lo sferragliare del treno, ed è subito novella di Pirandello ("Il treno ha fischiato", se non la conoscete, consiglio vivamente; si legge in dieci minuti). Ma qui non serve immaginare un altrove da sognare con la fantasia, come evasione dalla gabbia del quotidiano. Qui SONO altrove, evasa, libera.
Arrivare è stato un volo. Anzi due. Lunghissimi, soprattutto il primo: 11.20 diretto da Malpensa a Shangai, che, per essere sorvolata, richiede mezz'ora a bassa quota. E' sconfinata e brulica di attività anche all'alba. Per non parlare dell'aeroporto! Un dedalo in cui ho rischiato di perdermi, anche perchè le indicazioni in inglese sono parche, i moduli da compilare tanti, la massa di viaggiatori in transito immane e gli addetti che intendano la lingua della perfida Albione pochissimi. Insomma, le 2.40 ore di scalo sono bastate giusto per avere un timbro e un ottimo caffè freddo pagato come una giornata di lavoro di un operaio locale, Poi via, subito un altro imbarco per un volo di altre 3.25 ore su Hanoi, che mi ha vista pisolare con microsonni da 10-15 minuti, interrotti da turbolenze e quelli che mi son parsi 18 pasti (sempre più curiosi: uova marroni molli, panino dolce alla marmellata di fagioli con topping di cipolla sottaceto essudata, un budino nero al gusto di fieno e altre delicatezze).
Poi eccoci, in una Hanoi completamente avvolta dalle nuvole e fradicia di pioggia recente. Caldissima, umidissima, come deve essere qui d'estate. Il tempo di affrontare un rapido controllo dei passaporti, e i miei bagagli erano già lì ad aspettarmi accanto al nastro affollato di passeggeri. Tengo a specificare anche che qui, che è un paese civile, i carrelli per trasportare le valigie sono gratuiti e posizionati in abbondanza ovunque. Non come a Milano, o in tanti aeroporti a stelle e strisce, dove bisogna pagar l'obolo ed essere Caronti delle proprie povere cose.
Insomma, tutto è cominciato sotto ai migliori auspici.
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è stato un attimo passare da qui, a casa |
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con tutto il bagaglio che certo non è minimal e nemmeno bikepacking style |
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no, lei è poi rimasta a casa |
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alla leggerezza della partenza |
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passando per i caffè cinesi |
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all'arrivo |
E la logistica di è poi sbrigata di bene in meglio!
Appena raggiunto il salone di ingresso dell'aeroporto, ho potuto ritirare un po' di dong (non ricordavo che 1 dong equivalesse a 0,00003 euro, sicchè ne ho ritirati UN MILIONE, che mi pareva tanto, ma son 30 euro) e acquistare una Sim (ho optato per Viettel, che, stando alle recensioni, è quella con miglior copertura. Un piano dati da 7GB al giorno, per un mese, costa 12 euro, inclusa card, registrazione con passaporto e attivazione; il tutto dura 3 minuti). Allo stesso negozio, ho potuto prenotare un corsa in taxi grande (abbastanza per caricare la bici senza giocare e Tetris) fino in albergo, 15 euro per 35km. Non sarà necessario, ma la gentile signora che ha gestito tutte queste pratiche mi ha pure lasciato il suo contatto per il ritorno. "Sarà tra oltre 2 mesi però!" le ho risposto. "Saremo qui anche tra oltre due mesi, non preoccuparti!". Daje allora.
Le strade fino al centro mi hanno dato l'impressione di essere discretamente incasinate, ma non più di quanto già visto in Thailandia o Malesia, con quel misto di motorini stracarichi di cose e persone, per lo più senza casco, bici, risciò, furgoni e auto. Ma c'è una logica, c'è una sorta di ordinato fluire. In città invece no, vige la più pura anarchia. I marciapiedi sono completamente occupati da motorini parcheggiati, bancarelle e sedie e tavolini bassi di plastica dei locali. I pedoni sono quindi costretti a passare sulla careggiata, dove si affollano sciami di mezzi a due ruote, motorizzati e non, spesso nascosti da pile di cartoni, uova, fiori, frutta e verdura. Furgoni e auto si fanno largo nel casino. Non esistono sensi di marcia, semafori, precedenze, frecce. Esiste il clacson. Tutti strombazzano all'impazzata nella speranza di sopravvivere, tranne i pedoni, che si limitano ad attraversare facendo lo slalom tra ciò che fluisce, come accade in certi film surreali di arti marziali, quelli in cui si riescono a fermare le frecce prendendole al volo e a correre in verticale sui muri. Ecco, queste abilità sono richieste per passare da un marciapiede all'altro.
In ogni caso, giunta all'Hanoi old town hotel, ho subito attirato l'attenzione dei molti anziani seduti fuori dai loro negozi con i piedi appoggiati sulle ciavatte: infatti gli ultimi 100m sono di una viuzza troppo stretta perchè il taxi possa passarci, e me li son fatta a piedi con tutti gli scatoloni che mi porto dietro. Nella hall, sono collassata di sonno sul divano, visione sufficientemente pietosa da convincere il gentile receptionist a permettermi un check in anticipato di quasi due ore. Una volta in camera, la notte in bianco ha presentato il conto e ho dormito qualche ora.
Sono rinvenuta dal coma sudaticcio a metà pomeriggio, giusto in tempo per un'altra doccia e un primo tuffo nelle strade di questa città dai mille volti, una capitale da oltre 8 milioni di abitanti. Una brevissima digressione storica, altrimenti è difficile capire: dal 1010 al 1802 Hanoi è stata la città più importante del Paese, per essere eclissata da Hué sotto la dinastia imperiale Nguyen (mancano gli accenti, ma altrimenti non ne usciamo, perdonatemi). Dopo la conquista francese, nel 1873, tornò a essere centro amministrativo di primo piano. Fu occupata dai giapponesi durante la Seconda Guerra mondiale, per diventare capitale del Vietnam nel '46, e come lo è tornata ad essere nel '76, dopo la vittoria del Nord nella Guerra del Vietnam (1954-76). Insomma, Hanoi, la tigre del Tonchino, è al centro della storia di questo luogo e, nella sua molteplicità di anime, presenta i segni di tutto coloro che son passati di qui. Si vedono i mille anni di influenza cinese, come in tutto il Nord, tra templi confuciani, antica lingua e cucina. Si vedono gli edifici coloniali francesi. Passato e presente convivono e si rimescolano con uno sguardo al futuro, perchè questa città è in forte crescita e sembra intenzionata a ritagliarsi un posto di prim'ordine anche nel nostro mondo globalizzato.
Dopo la parentesi storica, due chicche di curiosità: la prima riguarda la scrittura. Il vietnamita, fino al XVII secolo, si scriveva in caratteri cinesi (con tanto di adattamenti); poi i missionari gesuiti europei decisero di introdurre i caratteri latini, con l'aggiunta di cinque toni; questo nuovo alfabeto rimase limitato alla comunità cattolica fino al 1910, quando l'amministrazione coloniale francese lo impose nel programma di istruzione obbligatoria, processo già avviato dagli imperatori Nguyen. Questo alfabeto, il Quoc Ngu, è stato quindi uno strumento usato dai missionari per il proselitismo e dagli europei per allontanare il Vietnam dalla Cina; qualcuno lo definisce una vera e propria arma di genocidio culturale: nel giro di poche generazioni dalla sua introduzione, i vietnamiti non erano più in grado di leggere i caratteri cinesi, e con essi secoli di documenti storici e letterari. Un rapido, ma non indolore, colpo di spugna.
Altra cosa che ho trovato interessante: il Vietnam, pur essendosi aperto ormai da 40 anni all'economia del libero mercato, resta una fiera Repubblica socialista e quindi le strade sono spesso addobbate con bandierine rosse con falce e martello, una statua di Lenin campeggia in centro e il leader Ho Chi Min riposa imbalsamato nel suo mausoleo, che visiterò domani.
Ciò premesso, mi avvio per una passeggiata nelle affollate viuzze del Quartiere vecchio, dove, da oltre 1000 anni, brulicano attività commerciali e traffici; essendo storicamente sede di artigiani e mercanti, qui si stabilirono nel XIII secolo le 36 corporazioni di Hanoi, e oggi sono solo moltiplicate esponenzialmente in numero e dimensione, ma l'anima del luogo resta la stessa.
Nel giro di poco, raggiungo le sponde del lago Hoan Kiem. Qui alcune vie sono chiuse al traffico e i venditori ambulanti di salsicce, dolci, frutta e giocattoli, con i colori delle loro mercanzie, sono protagonisti della scena. Mi colpisce come, accanto a grattacieli moderni e grandi palazzi in stile coloniale, molti di questi venditori usino ancora delle spartane portantine costituite da un bastone di bambù, da tenere in spalla, da cui pendono due vassoi carichi di mangostani, arachidi, longan, frittelle o salsicce. Mi stupisce davvero? Forse no. Come pure vedere galline in vendita lasciate libere di razzolare a bordo strada e i segnali forti e chiari del consumismo nei negozi di souvenir per turisti.
Decido di visitare, innanzitutto, il tempio di Ngoc Son, che sorge su un'isolotto sul lago. Narra la leggenda che, nel XV secolo, il cielo inviò all'imperatori Le Loi una spada magica che servì a scacciare l'ennesimo tentativo cinese di invadere il Vietnam. Al termine della guerra, una gigantesca tartaruga dorata afferrò la spada e scomparve per sempre nel lago, in modo da restituirla ai suoi divini proprietari. Infatti questo specchio d'acqua si chiama letteralmente "Lago della spada restituita" e al centro si erge la Torre della tartaruga, uno dei simboli cittadini. Il tempio, invece, è dedicato ad alcune figure leggendarie, storiche e mitologiche, che han scritto la storia del Vietnam, come ad esempio il generale che sconfisse i Mongoli nel XIII secolo, il patrono dei medici, una divinità taoista che porta fortuna e benessere economico, poeti, guerrieri e, ovviamente, la tartaruga. Lo stile architettonico è un mix tra vietnamita e cinese, e restano iconici il ponte rosso per raggiungere l'isolotto, circondato da uccelli acquatici, l'enorme braciere di incenso e gli altari opulenti con montagne di offerte (bibite, frutta, fiori e oro).
Dopo aver visitato il tempio, ammirato i rituali di preghiera e deposizione delle offerte e soprattutto la bruttezza della tartaruga sacra, decido di percorrere il perimetro del lago, affollato di passanti e venditori. La cosa che più salta all'occhio è la quantità di macchinine elettriche, biciclettine e altri mezzi giocattolo, tutti muniti di sirena o clacson (non sia mai!) che si possono noleggiare per la gioia dei bambini. E come sfrecciano! Ce ne sono davanti al serioso Ministero dell'Interno, nei parchi, ovunque.
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il monumento ai martiri caduti per l'indipendenza del Vietnam |
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un casco gattoso |
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ciao ciao belle zampine |
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la Torre della Tartaruga |
Nelle aree verdi intorno al lago, intanto, si sono radunati numerosi gruppi, per lo più composti da signore abbastanza in là con gli anni, che ballano i più disparati tipi di musica, tra cui dei mischioni italo-vietnamiti di dubbio gusto. Ci sono anche gruppi che fanno attività fisica dolce, insieme, e, sicuramente, mi imbatterò in praticanti di tai chi. Qui usa molto trovarsi a fare un po' di movimento, e, perchè no, divertirsi insieme senza lo stupido pudore di esser visti magari goffi, magari impacciati nel non ricordarsi qualche passo. Brave sciure, così si fa!
Proprio mentre sono seduta ad ammirare queste coreografie, vengono raggiunta da una bambina assai loquace, di circa 8 anni. Mi si siede addosso, quasi in braccio, e comincia a farmi domande in ottimo inglese: "Come ti chiami? Da dove vieni? Mi fai vedere i tuoi braccialetti? Sei una turista? Che lavoro fai?". Mentre cerco di parare tutti i colpi, e chiedo a mia volta, dico la parola magica: "In Italia sono un'INSEGNANTE". La bimba grida di gioia e chiama a raccolta quelli che scopro essere il fratello dodicenne e la mamma. Inizia una lunga chiacchierata con i due bimbi (la mamma non parla inglese, e le traducono tutto). Insomma, i due sono in vacanza, e vogliono approfittare dell'estate e della presenza di stranieri per far pratica di inglese. Il ragazzino, pur dimostrando molti anni in meno rispetto a quelli che ha (non ha fretta di sembrar grande, a differenza dei nostri preadolescenti), parla con la maturità di un uomo. Dice che vuole imparare bene tante lingue, perchè è l'unico modo di poter trovare un lavoro, e magari viaggiare, andare all'estero e svoltare le sorti di una famiglia che, di certo, non naviga nell'oro. Ho letto che i vietnamiti, popolo istruitissimo, tengono incredibilmente all'educazione, perchè è vista ancora come strumento di riscatto sociale ed economico. Ed eccomi qui, a chiacchierare con due giovanissimi local, mentre la madre mi fa un milione di video, la ragazzina vuole vedere tutte le foto nella galleria e chiede se ho giochi sul telefono, e suo fratello mi dice che non va bene giocare troppo, come fanno i suoi compagni, e che lui sta studiando per conto suo anche il cinese. Non manca di interrogarmi, ma so dire solo "Ni hao" e mi sento molto ignorante. Loro però sono entusiasti di questa chiacchierata, e la bimba insiste nel regalarmi il suo braccialetto preso in un tempio vicino. "Ne ho già due a casa!". Cerco di sdebitarmi offrendo un gelato o una cena, ma i tre si dileguano nella folla tra mille ringraziamenti. Ma tu guarda che meraviglia!
Inizia a far buio, e la stanchezza bussa alla porta. Mi sposto alla Cattedrale di San Giuseppe, del 1886, in stile neogotico, con i suoi campanili gemelli. A colpirmi, però, è soprattutto un cicloviaggiatore che sta appoggiando la sua bici carica proprio davanti alla chiesa. E' MOLTO indiano. Per i tratti, per le molte bandiere, per il modo che ha di muovere la testa quando parla. Mi offro di fargli una foto, e questo spalanca un varco spazio-temporale di parole turbinanti che travolgono anche una vietnamita con parenti in India e una sua ignara amica giapponese.
Longa brevis, il nostro è partito da casa sua, e ha pedalato fino in Myanmar. Qui, per evitare i casini in corso, ha preferito prendere un aereo e raggiungere Hanoi, da dove ripartirà facendo esattamente il mio stesso percorso, ma solo fino a Vientiane. Da lì scenderà in Thailandia e pedalerà dove io ho pedalato lo scorso anno, fino a Singapore. Tra richieste di foto e video (è attivo su tutti i social e su Youtube) ai passanti e a me, abbracci sudissimi e offerte di: cenare insieme, stare nello stesso ostello, viaggiare insieme, si manifesta in tutta la sua attiva branciconeria, aggravata dal fatto che abbiamo un tatuaggio molto simile, di una bici, entrambi sull'avambraccio sinistro. Per lui è un segno del destino, un fato già scritto! Io preferisco prendere tempo. Ci scambiamo i contatti, ma a pelle ho la sensazione che, almeno per ora, preferisco viaggiare sola e condividere la strada sì, ma non l'interezza delle mie giornate qui. E il nostro non sembra avere le stesse intenzioni. In ogni caso, resteremo in contatto, e poi si vedrà!
Ritorno verso l'hotel, tra i ristoranti a bordo strada che si sono nel frattempo riempiti e le vie animate e sicure a un tempo.
Dopo l'ennesima doccia, ormai sull'orlo del sonno, ricalibro i programmi dei prossimi giorni: domani visiterò altri quartieri di Hanoi, mentre dopodomani farò una capatina alla famosissima Baia di Halong. Poi sarà tempo di mettesi in sella e cominciare ad esplorare questo Paese come si deve!
29/6
Hanoi
Senza soluzione di continuità rispetto al momento in cui mi sono messa a sistemare le foto, leggere e scrivere, operazione che mi ha impegnata dalle 4 alle 6.30 circa, decido di uscire: ha smesso di piovere, il sole già illumina le vie ancora tranquille e la giornata è lunga e densa di meraviglie da scoprire.
La prima tappa del mio itinerario è la cosiddetta train street, che è esattamente ciò che il nome suggerisce, ovvero una via dove passa il treno. Quello che si sente di notte dalla mia camera, per intenderci, quello pirandelliano. E che ci sarà mai di speciale intorno a questi binari? Fino al 2019, nulla: solo un vecchio convoglio sferragliante che passa a filo degli edifici storici, come un modellino costruito da un principiante. Ma questo pericolo per l'incolumità dei passanti piace ai turisti, e molto. Quindi, sulla scia dell'interesse crescente alimentato dai social, sempre più visitatori si sono recati qui, e quindi hanno aperto locali e caffè che permettono di sorseggiare una bibita con gli alluci che sfiorano le carrozze in movimento. A causa dell'effettivo pericolo che questa attrazione comporta, le autorità hanno a più riprese imposto restrizioni, sempre osteggiate dai residenti che, spesso, avendo aperto caffè e negozi in casa propria, ne han fatto fonte di reddito principale. Al mattino presto, prima del passaggio dei primi treni, tutto tace e regna la tranquillità. Tutt'altra situazione si riscontra invece all'ora di pranzo, quando il passaggio del treno (effettivamente d'impatto) non solo attira i turisti, ma blocca il flusso del traffico. Il vero casino si dà proprio quando le sbarre del passaggio a livello si aprono, e gli addetti alla sicurezza del transito, muniti di bastoni e fischietti, tentano di farsi valere sulle orde di motorini. Metto qui di seguito le foto di entrambi i momenti, anche se vado a disallineare fabula e intreccio, per mostrare la differenza.
Prima:
Dopo:
Una cosa non manca mai, comunque: la presenza di bici stracariche di merce. Il che mi consola: non sarò io a manovrare il velocipede più ingombrante e lento del Vietnam! Ah, per chiudere il capitolo ferroviario, sapete come si dice stazione in vietnamita? Ga. Vi ricorda qualcosa? Esatto, gare, in francese, la lingua dei colonizzatori che han portato le cose e i loro nomi.
Proseguo verso nord, fino a imbattermi in qualcosa di già visto, ma non qui, bensì in tutte le ex repubbliche sovietiche, dalla Bielorussia al Kirghizistan: una statuona del vecchio zio Lenin, nell'omonimo parco. Risale al 1985. Qui in origine c'era un lago dove i soldati portavano gli elefanti impiegati dall'esercito a lavarsi. La cosa straniante è che, sotto allo sguardo un po' preoccupato del vecchio Vladimir, succedono le cose più disparate, al punto che pare di essere in un mondo virtuale abitato da NPC. In un angolo, un gruppo di anziani danza lentamente sulle note di musica neomelodica napoletana, che, a quanto pare, è arrivata fino a qui. Un uomo che avrà 170 anni tira calci a un pallone facendolo rimbalzare su un muretto, senza sosta. Un bambino che a malapena cammina gioca insieme al suo papà, pilotando un carrarmato rosso radiocomandato. Diverse persone di ogni età e sesso fanno esercizi strani, ognuna per conto proprio, con piegamenti e rimbalzelli. Da ultimo, un ragazzo fa evoluzioni con la BMX saltando sopra alle panchine su cui riposano, sdraiati, i giardinieri. Vladimir, che dici?
Dopo una lunga camminata su strade sempre più trafficate, raggiungo uno dei luoghi storici forse più affascinanti di questa città: il Tempio della Letteratura (che ho visto sulla banconota da 100.000 dong). Già il nome mi attira, è inevitabile. Sta aprendo (sono le 8) e mi rendo conto del fatto che i biglietti, anche delle attrazioni più gettonate dai turisti, costano pochissimo (1-3 euro, come avrò modo di constatare anche in seguito). Si tratta di un tempio confuciano costruito nel 1070 per volere dell'imperatore Ly Thanh Tong, che lo costruì per rendere omaggio a eruditi, letterati e insegnanti; per secoli fu sede dell'accademia imperiale vietnamita, ospitando le severe sessioni d'esame per accedere al mandarinato. Nel 1076 nacque qui la prima università vietnamita, trasferita a Hué solo nel XIX secolo, quando la capitale fu spostata. In Vietnam ci sono diversi templi dedicati agli uomini di lettere e cultura. Questo racconta quanto profondamente radicato sia, in questo paese, il senso di importanza e valore della conoscenza. Studiare è importante, e non solo per far carriera. Qui lo sanno da quasi mille anni.
Il complesso è costituto da una serie di 5 cortili porticati, con portali e padiglioni su cui sono incise frasi che magnificano la bellezza della letteratura e della poesia. Si accede poi a una vasta collezione di tavole di pietra che incitano allo studio e alla ricerca della conoscenza, sorrette da tartarughe; queste sono simbolo di longevità e saggezza, e sono uno dei 4 animali sacri (gli altri, se ve lo steste chiedendo, sono il drago, la fenice e l'unicorno). Queste incisioni risalgono ad un periodo che va dal 1400 al 1700 e riportano anche i nomi degli studenti che riuscirono a passare l'esame.
Gli ultimi due cortili costituiscono il cuore cerimoniale del complesso. Ci sono un tempio dedicato a Confucio, i suoi discepoli e alcuni filosofi e docenti di chiara fama, un museo dedicato alla scrittura e alla scuola, e un altro luogo di culto dove si venerano i sovrani che più contribuirono alla realizzazione dell'università e ai loro selezionati dotti di corte. Seguono poi gli edifici (ora in ristrutturazione) dove gli studenti vivevano.
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gli studenti svolgevano l'esame in queste "gabbiette" per non copiare. Dovevano svolgere un tema su argomento scelto al momento dall'imperatore |
Ancora oggi gli studenti vengono a pregare e portare offerte per ottenere buoni voti e la promozione, o il buon esito degli esami, nonchè a scattare le foto di laurea. La cosa interessante, comunque, è che questa scuola, inizialmente riservata ai nobili, già dal XV secolo aprì le porte ai giovani più dotati, a prescindere dal rango.
Dopo aver respirato a fondo la pace e la sacralità di questo luogo, dove l'aria è intrisa di incenso e cultura, viene il momento di proseguire; prossima tappa: il mausoleo di Ho Chi Minh. Come da tradizione per i leader comunisti, il nostro riposa imbalsamato in un monumentale edificio in marmo, collocato al centro di un'altrettanto monumentala spianata. Lo statista non voleva far questa fine, ma si sa, la volontà del singolo individuo deve soccombere di fronte a quella del popolo. Per accedere alla piazza è necessario passare da alcuni controlli di sicurezza con metal detector e ispezioni varie. Nei cestini dove depositare gli oggetti proibiti ho visto di tutto, da semplici accendini a coltelli grandi come spade, da draghi di plastica a falci da tristo mietitore. Nel grandioso parco, presidiato da militari in ogni angolo, ci sono il Museo di Ho Chi Minh, in stile brutalista sovietico cementizio, un piccolo tempio,
murales che spiegano come agisca il karma nella vita di tutti i giorni, soprattutto in quella di operai e contadini e proletariato generico, bancarelle che vendono cimeli più o meno pacchiani, con grandi falci e martelli, stelle rosse, ritratti di leader comunisti e uniformi per bambini, nonchè la semplice casa su palafitta di Ho Chi Minh e una pagoda su una (sola) colonna, circondata dai fiori di loto. Fu fatta costruire nel 1049 da un imperatore che, non riuscendo ad avere eredi, sognò di dover sposare una contadina per avere un figlio maschio, grazie al volere della dea della misericordia; così accadde e lui, in segno di gratitudine, finanziò questo tempietto.
Ciò che più mi colpisce del mausoleo è la quantità di famiglie che, da tutto il Vietnam, si reca qui in pellegrinaggio, portando anche i bambini, tutti vestiti con la bandiera nazionale o in uniformi in miniatura, con gadget che richiamano alle vittorie belliche e al partito. Il sentimento di identità è forte e chiaro, e tutto sommato perchè no. Idolatrare statisti o ideologie non è mai, per me, un buon segno, ma così, per ricordare che Davide può sconfiggere Golia, ci sta. Come ogni religione, andrà affievolendosi con il tempo.
Per chi se lo stesse chiedendo: non è possibile scattare foto all'interno degli edifici. Così come è vietato immortalare il Palazzo Presidenziale, che sorge lì accanto. Immaginatevi uno sfarzoso palazzo Beaux Arts del 1906, costruito dai francesi per accogliere il governatore dell'Indocina. Però immaginatevelo GIALLO. Qui Ho Chi Mingh, nel 1945, dichiarò l'indipendenza davanti a mezzo milione di persone. Intorno ci sono le sedi di alcuni Ministeri e quella dell'Assemblea Nazionale.
Proseguo ancora un poco verso nord, fino a scorgere i due laghi gemelli, Lago Ovest e Truc Bach. Sulle loro sponde si trovano numerosi templi, tra cui quello millenario di Quan Thanh, eretto per proteggere Hanoi dalle forze maligne del nord. Il Lago Ovest, infatti, secondo la leggenda nacque quando il vitello d'oro del nord fu attratto a sud dai rintocchi della campana di un monaco; questa però smise di suonare, e il vitello, disorientato, girò su se stesso così tante volte da scavare il bacino, poi riempito dalle acque del Fiume Rosso. Povero vitello dai piedi di piombo, annegato qua sotto!
Dopo essermi goduta un bubble milk tea con gelatina di cocco, riparto per tornare a sud, verso la Cittadella Imperiale. Percorro lunghi vialoni costruiti dai francesi, sui quali si affacciano edifici coloniali ora fatiscenti. Vengo spesso affiancata da motociclisti di Grab (tipo Uber, ma anche per il delivery) che vogliono darmi un passaggio. Però non sono insistenti, e, a parte il caldo umido, è un piacere passeggiare.
Nel giro di poco eccomi alla Cittadella Imperiale Thang Long, dichiarata patrimonio Unesco nel 2010. Costruita con uno sguardo alla Città Proibita di Pechino, con antichi palazzi, dimore delle concubine, padiglioni, cortili e templi, fu sede del potere per quasi mille anni. Gli scavvi archeologici sono ancora in corso, e continuano a portare alla luce preziosi tesori. I francesi aggiunsero alcuni edifici, mentre altri, fortificati e scavati con bunker sotterranei, ospitarono i membri del politburo e i comandanti dell'esercito durante la Guerra del Vietnam. Lo sfarzo delle architetture imperiali stride con l'austera semplicità degli uffici dei generali, e, all'interno dei bunker, oltre ai cimeli originali, sono presenti filmati e audio che rendono immersiva l'esperienza di bombardamenti e attacchi.
Ancora, mi colpiscono tre cose: le ragazze vestite con abiti tradizionali affittati in loco, per scattarsi foto in costume. Le piante da frutto coltivate nei giardini imperiali, che non sono ornamentali nemmeno ora. La dimensione degli scoiattoli e dei ratti che scorrazzano tra rami e cespugli.
Per il momento sono sazia di bellezza e cultura e, con una lunga passeggiata, torno verso il Quartiere vecchio; mi procuro un po' di frutta e un passaggio per domani ad Halong, sia via terra sia, soprattutto, via mare. Ma di questo parleremo poi, a tempo debito. In stanza mi attende un lavoro importante: rimontare la Signorina Felicita e prepararla alla grande avventura. Sento che freme, che scalpita nella scatola, ed è tutta contenta di essere rimessa in ordine, con le sue viti serrate e la catena oliata. Notare il dettaglio fino: quest'anno ho un doppio specchietto a manubrio, oltre a Pina la Volpina con campanelli che vengono da Chiang Mai. Preparo anche le borse, prenoto una struttura per dopodomani (domani sera sarò ancora ad Hanoi, dopo la visita alla Baia) e traccio un itinerario per la prima tappa pedalata: 109km dalla capitale ad Haiphong, cittadina storica con canali e qualche chicca architettonica.
Dopo un paio d'ore di collasso da fuso orario non smaltito, mi rimetto in sesto. Ho un'incombenza. Devo tagliare i capelli. Di solito lo faccio prima di partire, è un rito apotropaico ormai consolidato, ma da due anni a questa parte mi trovo talmente piena di impegni a ridosso della partenza da non fare in tempo. E allora eccoci qua, a spiegare a un parrucchiere che parla poco inglese che taglio voglio. "Falli corti come ti viene!" gli dico, e lui, preso dall'estro, mi rasa con la macchinetta tutto intorno e dietro, per lasciarmi dei lunghi ciuffi tirati in avanti sopra, verso la fronte. Mi manca il baffetto, e sono Hitler. Su richiesta, aggiusta un po' qui e un po' là e finalmente sembro solo un membro della Hitler-Jugend. Per 3,5 euro ci sta.
Conclusa questa pratica, torno al lago Hoan Kiem, per ammirare lo spettacolo delle luci e soprattutto quello d'arte varia dell'umanità che affolla le vie chiuse (in teoria) al traffico. Ci sono ambulanti, bancarelle, mercatini, mercatoni, ristoranti con sedie e tavolini sui marciapiedi e un generale "caos vitale", per dirla alla Pavese, o bordello delirante, per dirla in prosa. Ma quanto è bello perdersi in questo dedalo senza Minotauri (solo, alla peggio, spiedini di bestie varie)?
30/6
Hanoi-Halong-Hanoi
Sono su un autobus e fuori dal finestrino scorrono spiagge ancora affollate nonostante il buio stia rubando gli ultimi guizzi di sole che saltano tra le onde. Tra le palme, baretti e baracchini dello street food brillano di luci coloratissime, che nemmeno il fumo delle griglie offusca. È stata una giornata intensa, meravigliosa, densa di scoperte e incontri. Ho deciso di visitare la celeberrima Baia di Ha Long con i mezzi, modificando il mio progetto originale che prevedeva di arrivarci in bici. Un po' perché avevo ancora un giorno ad Hanoi, ma senza più molto di urgente da visitare, anche perché in questa città tornerò a fine viaggio. Un po’, pure, per ottimizzare i tempi ed evitare mezze giornate di attesa al porto. Infatti la Baia, con le sue 1969 isole calcarea coperte di giungla e cariate di grotte, si visita unicamente dal mare. Così mi sono organizzata per dedicare la giornata di oggi a questo luogo incantevole, lasciandomi per un giorno alle spalle la confusione della capitale. Dopo qualche scambio di messaggi, alle 8 in punto sono seduta dietro a uno sconosciuto su un motorino tutto scassato. Lui sfreccia nel traffico e ondeggia pericolosamente a ogni curva. Nessuno dei due indossa il casco. Ma uno dei due telefona e messaggia. Tengo a specificare che è la seconda volta in vita mia che salgo su un mezzo a due ruote motorizzato, e la prima volta è stata in Thailandia per una situazione simile, del tutto improvvisata. Grande cagotto allora e grandissimo cagotto oggi. Per fortuna la corsa è breve: il pilota mi fa scendere di corsa a bordo strada e contestualmente ferma uno scuolabus giallo tutto agghindato di lucine, come un albero di Natale. Mi dice: sali qui, va ad Ha Long! Ottimo. Salgo, e mi trovo tra altri turisti assonnati di ogni etnia: indiani con i piedi in mano e i gesti ampi, europei (spagnoli e francesi) ustionati e sudati, cinesi che sorbiscono noodles piccanti con le bacchette belle portate da casa e il cucchiaio grande da brodo. E si va. La strada è lunga, più che altro perché il traffico di Hanoi non perdona. Appena fuori città, però, le strade si svuotano, e intorno si spalancano distese di risaie, bananeti e acquitrini. Si vedono i bufali corna lunghe, aironi bianchi e i contadini curvi. Qua e là agglomerati di palazzoni nuovi nuovi, probabilmente per ospitare chi fugge dal caos di Hanoi, o chi cerca di avvicinarvisi. Non mancano, a tratti, discariche fumanti dove stanno bruciando i rifiuti. In ogni caso questo paesaggio mi dà ottime sensazioni e non vedo l'ora di esplorarlo pedalando, da domani. Approfitto del tempo in bus per studiare alcuni passaggi critici di questo viaggio, e così il tempo scorre veloce. Siamo arrivati. Prima di imbarcarci, visitiamo un'azienda che coltiva perle. Ci viene spiegato ogni passaggio, con tanto di dimostrazione pratica, e poi veniamo resi edotti dei tipi, della qualità, della raccolta e lavorazione di questo gioiello naturale. Sono i giapponesi a primeggiare in questo ambito, e infatti è stata loro l'intuizione di coltivare le perle. Ad essere onesta, mi fa schifo tutto. Mi fan schifo i molluschi e la misera fine che fanno, il paciugamento per inserire la sabbia e per estrarre la perla, l'acqua lercia, i gusci mucillaginosi. Ma soprattutto mi fa schifo il concetto di usare un animale, per quanto non dei più belli, per una cosa così futile, così frivola. Poi le perle son gioielli da sciura anziana, dai.
In ogni caso, la visita dura poco. Ci spostiamo al porto e qui ci imbarchiamo su una nave a due ponti, di cui uno aperto. Ci fanno accomodare a dei tavoli già imbanditi per il pranzo con cibo tipico della costa del Vietnam del Nord, e continuano ad arrivarne: pesce in varie salse, verdure salte, involtini, pollo piccante, zuppe piccantissime, riso e frutta. Per fortuna siamo in tanti a condividere questo bendiddio. Al mio tavolo conosco quelle che saranno compagne di merende per l’intera giornata: tre amiche indonesiane, una ragazza sudcoreana e una russa, dai tratti però orientali. È buriata. Tutta orgogliosa, nelle presentazioni, mi dice: “Bongiorno italiana!”. E allora calo l’asso, e le dico quattro frasine che mi ricordo pa russki. Lei è stupitissima. Ma il capolavoro avviene quando le dico che io in Buriazia ci sono stata. In bici. Non vi dico quando, più tardi, ha scoperto 1. Che siamo colleghe perché lei insegna lingua e letteratura russa alle superiori 2. Che sono stata anche in Kirghizistan, dove lei vive e lavora da 4 anni. Ce la contiamo su lungamente, parliamo della guerra, di Putin, di Trump, di viaggi e lavoro, ma pure di fratture (lei si è spaccata il bacino cadendo da cavallo, incidente classico per chi vive nelle steppe) e famiglia . La cosa più sconvolgente di tutte non è che non torna a casa da anni ma adesso andrà a salutare i suoi, e nemmeno che ha solo 27 anni e si sente vecchissima ormai per i suoi desideri di maternità. La cosa sconvolgente davvero è che i docenti in Kirghizistan hanno tre, e dico TRE mesi di vacanza!
Tra una parola e l’altra, raggiungiamo l’isola di Titov, in vietnamita Ti Top, astronauta sovietico la cui statua in cemento campeggia sul molo. Prima di un tuffo dalla spiaggia di sabbia, ci arrampichiamo per i 400 gradini quasi verticali che portano alla sommità dell’isola. Mi ricorda un po’ la scala Inca che mena a Machu Picchu, dove nelle angustie speri che chi hai davanti non svenga e rotoli indietro, altrimenti l’effetto domino sarebbe inevitabile. Il caldo umido è devastante e molti abbandonano l’ascesa, grondanti, sbanfanti e con i ditini dei piedi pestati sulla roccia perché giustamente i più salgono in ciabatte. I veri eroi in infradito. Dal punto panoramico, posso finalmente ammirare per bene i primi scorci della Baia, patrimonio UNESCO che spicca di bellezza nel Golfo del Tonchino. Ha long significa “Dove il drago scende in mare”. La leggenda narra infatti che, molti anni fa, i vietnamiti stavano combattendo gli invasori cinesi (per l'ennesima volta); gli dei allora, mandarono una famiglia di dragoni per aiutarli. Questi iniziarono a sputare gioielli che si trasformarono nelle isole che punteggiano la baia, unendoli poi per formare una muraglia di protezione (chi di muraglia ferisce…). Le persone salvarono la propria terra e la trasformarono in quello che poi sarebbe diventato il Vietnam. Il luogo in cui atterrò la madre dragonessa venne chiamato, appunto to, Ha Long. Leggende a parte, qui si è combattuto davvero, e più volte. L'esercito vietnamita bloccò tre volte la flotta cinese, grazie al dedalo di canali e grotte; nel 1288 le navi mongole di Dubhai Khan furono affondate con pali in legno dalla punta di acciaio nascosti dall’alta maerea. E ancora ci sono zone minate per l’opera capillare della marina statunitense durante la Guerra del Vietnam. E dire che qui, fin dal 5000 a.C., han sempre vissuto placidi pescatori, che, negli ultimi anni, si sono dedicati all’accoglienza turistica (che porta con sè soldi, sì, ma anche inquinamento; infatti è vietato portare nella baia bottiglie, cannucce, buste e oggetti di plastica monouso).
Il panorama è davvero incredibile da ogni angolazione: dall’alto, dalla spiaggia, dalla piccola “Speed boat” che prendiamo per poterci avvicinare di più alle formazioni rocciose, con le loro grotte e le pareti scoscese, erose dall’acqua e dal vento, ma comunque fitte di foresta rigogliosa. Non manco di visitare anche una grotta in kayak, portando Alina, la collega russa, che non era mai stata su una canoa e ha imparato a pagaiare sul momento.
Da ultimo, visitiamo la cosiddetta “Grotta delle meraviglie”, la più grandiosa e imponente, scoperta 100 anni dai francesi, che vedevano le scimmie vivere soprattutto su quel versante della montagna. E certo: nella grotta c’è una frescura spettacolare! Comunque mi fa ridere pensare ai francesi che spiano le scimmie e decidono di pedinarle, perché sì.
Per visitare la grotta impieghiamo circa un’ora, perché davvero è immensa e su più livelli. Siamo tutti felici, quindi, di tornare sulla barca che ci riporterà al molo di Ha Long; tanto più che troviamo tè (e per chi vuole, vino vietnamita) e frutta ad attenderci. Il ritorno è un volo leggero di brezza e musica, mentre il sole cala. Arriviamo al porto, ed eccoci qui, ora, di ritorno ad Hanoi. Ha iniziato a piovere. A diluviare. “Riconosco l’antica fiamma”, sono i monsoni. Pare che però qui si esauriscano di notte, almeno quelli violenti. Speriamo! Ora mi attendono doccia e preparazione per gli ultimi dettagli. Un grande raggiungimento è stato anche riuscire a lasciare gli scatoloni qui in albergo, prenotando le due ultime notti (e rischiando di non riuscirci, perchè il 1 settembre è festa nazionale e ci sarà il delirio di gente che si raduna nella capitale). Insomma. Domani è il gran giorno. Inizia il viaggio in bici, si aprono le danze pedalanze!