domenica 31 luglio 2016

Seconda tappa: Chiavenna-Zernez. Passo.Maloja e l'Engadina

Scrivo da un baretto di legno, pieno di sguizzeri alticci. Ho mangiato un(a) rösti che mannaggia férmate. Meno male ho pedalato!
Piove. Tanto per cambiare. Oggi Giove pluvio e la Trimurti limortacci mi hanno seguita con precisione. Un tempo popo demmerda, per usare un francesismo.
Ho lasciato l'ostello di Chiavenna-lupolandia con calma, stamattina. Sapevo che avrei sofferto, le montagne avevano la barba, i baffi e pure i peli pubici di nuvolacce. Le montagne. Queste bellissime stronze. Ora capisco cosa prova un uomo innamorato di una donna impossibile. Ho raggiunto le cascate di Acquafraggia, dove avrei dovuto dormire ieri. Belle sì, meritavano.



Poi ho imboccato la strada che porta al passo Maloja. La prima parte, quella italiana, ha pendenze decenti. Si risale in questa valle stretta, tra montagne alte e scure di boschi, sempre costeggiando il fiume che scorre qualche decina di metri più in basso. Dopo Villa di Chiavenna, dolce di pietra e muschio, si giunge al confine svizzero.







E cominciano i dolori. Le pendenze si fanno subito più dure. Tocca mordere la strada, addentandola con la stessa violenza cui lei ti sottopone. Ma no, la strada fa di peggio: nemmeno ti considera, non ti sente, non ti ascolta. Però ti guarda, con i suoi occhi grigi. Ai lati le Alpi si elevano in tutta la loro maestosa grandezza. Si vedono i ghiacciai, le rocce nude là dove nemmeno i pini riescono a crescere. Si passa in gole mozzafiato, quel poco di fiato che resta. Poi cominciano i tornanti. Ci sono due muri prima di arrivare al passo. Due muri infiniti, disegnati da un folle sadico. Non sono tornanti, quelli, ma gironi, semicerchi d'inferno. Nel frattempo mi sono ritrovata in una nebbia spessa e fredda, le nuvole. Tutto si è fatto spettrale e grandioso, come un'apocalisse privata. Poi la pioggia, torrenziale. Mi sono trasformata in salmone e ho tirato dritto, su su per quel fiume asfaltato che a tratti diventava cascata.













Perché? Perché infliggersi questa sofferenza? Ogni ora passava puntuale un pullmino che trasporta anche le bici. Non ho voluto prenderlo. Volevo farcela da sola. E ce l'ho fatta. Pensavo che in cima ci fosse Godot. Quel senso. Il significato delle azioni fini a loro stesse, teoretiche come la filosofia e l'arte. Inutili, forse. Ma Godot sta sempre un passo in là. Non si fa afferrare, ti costringe a seguirlo, viaggiando, viaggiando ancora. Come l'orizzonte. Fa sentire il suo profumo e poi sparisce quando stai per raggiungerlo. Mi sento un po' come James Joyce. Lui ha inventato il flusso di coscienza per esprimere il turbinare dei significanti, le parole caotiche, che rimandano di continuo il significato. I miei viaggi sono flussi di coscienza. Sono la caccia all'imprendibile Godot.
Pensavo questo, nel raggiungere il passo.



Ho fatto due foto a me e alla Signora, per poi rifugiarmi sotto a una tettoia. C'era una famiglia di ebrei ortodossi. Godot sempre più lontano. Mi sono cambiata e ho aspettato che spiovesse. Poi è cominciata la parte estetica della tappa (quella etica era ovviamente la salita, e sticazzi!). Una discesa morbida nell'enorme cartolina che è l'Engadina. Pareti verdissime e pinete a strapiombo sull'acqua più azzurra e limpida che abbia mai visto. La natura nella sua forma più perfetta. Godot per un attimo è stato vicinissimo. Lì ho incontrato l'ombra curva di Nietzsche. Passeggiava con i suoi baffoni, le mani giunte dietro la schiena, sulla sponda del Silsersee, come era solito fare. Povero grande folle! Poco oltre, un'altra visione. Silvaplana. Una tonacona rossa. Petrarca. Innamorato di quel luogo, e si capisce! La pace e la grandezza silenziosa erano un balsamo per la sua anima dilaniata.



 


Poi St. Moritz.
Sopravvalutato covo di dementi pieni soldi, con macchinoni e puttanoni tanto al kilo. Anche la Signora, nel fare la foto, ha avuto un mancamento per la delusione.



Via in fretta, per l'ultima volata.
Al campeggio (Cul si chiama!) sono arrivata per una strada in lieve discesa, dolce, chiusa tra i monti boscosi. Luoghi di pace dei sensi, di sorrisi casuali alla bellezza gratuita.





Ho piantato la tenda, dove nel frattempo mi sono trasferita. Sono sulla sponda dell'Inn, che da domani seguirò. Si fa buio. I boschi altissimi sembrano minacciosi, ma dormono un sonno pesante. Il fiume canta il suo canto barbaro, accompagnato dalla pioggia. Godot è qui, vicino, appena fuori dal campo visivo.


Partiti! Prima tappa: Cornaredo-Chiavenna

Suona la sveglia.
La spengo, ero già pronta e reattiva da qualche minuto. È il gran giorno. No, non la laurea (s'è già dato), non il matrimonio (non di dà).
Oggi si parte.
Verranno alcuni amici a salutarmi, il sindaco, le persone che ho conosciuto lavorando (come prof e come giornalista), i simpatici curiosi che mi seguono sui social, i miei zii, le mie cugine... Insomma. Tanta gente che mi vuole bene. Qualcuno si è commosso. La signora Soldera, mai vista prima, mi ha regalato una bandierina dell'Italia da appendere alle borse. Il grande Ezio una coccinella portafortuna. Tanti abbracci e strette di mano. Una video-intervista del Garretta, le foto di Damiano. Domande da genitori in ansia. 




E poi via.
Con il vento a favore di tutto questo affetto che io continuo a credere immeritato.
La prima parte della tappa si riassume in: stradacce, campi di mais già altissimo, nostalgia precoce per quel paesaggio che è brutto, ma mio, da sempre, dove ho le radici del mio cuore nomade. Poi, dopo un discreto saliscendi che ha messo a dura prova me e la Signora, ho raggiunto l'allucione del lago di Como. Nel giro breve di una discesa il paesaggio è mutato. Azzurro, cupo e verdastro, a perdita d'occhio, tra quelle montagne che lo custodiscono, silenziose e dritte come sentinelle. 












Pian piano ho percorso il lago in tutta la sua lunghezza, bevendo il vento fresco e godendo della bellezza di quel maestoso raccogliersi, in poco spazio, di tanta meraviglia. Anche i numerosi paesini, stretti tra la roccia e l'acqua, non han deluso le aspettative: la pietra antica delle chiese romaniche, i porticcioli dove attraccano i cigni, i bar con gli anziani come da noi non ce n'è più.







Una nota di merito agli assessori o chi per loro: tutto il lungolago è una meraviglia da pedalare. Non solo per i paesaggi, ma anche per le numerose piste ciclabili, ben tenute e furbe. Un esempio su tutti: per quasi ogni galleria c'è una stradina esterna, che passa a strapiombo sul lago, dedicata ai ciclisti.




I primi 90km li ho fatti d'un fiato. Mi ero prefissata di non fermarmi prima di Dongo. Meta simbolica, il luogo di cattura e detenzione di Mussolini e Petacci, presi per le orecchie dai partigiani mentre tentavano di fuggire in Svizzera. Luogo di liberazione (e di mistero: l'oro di Dongo, i valori che Mussolini e i gerarchi al suo seguito portavano con sé, è sparito nelle pieghe più vergognose della nostra storia recente). Insomma volevo arrivare a Dongo. E lì, per celebrare, mi son concessa cocacola e gelato.
Il caldo era tremendo, abbacinante, caino.
Dopo poco sono ripartita: non vedevo l'ora di piantare la tenda sotto le cascate, all'Acquafraggia. Ma quel campeggio non l'ho poi visto.
Appena raggiunto il limite settentrionale del lago mi sono trovata davanti le Alpi.






Enormi, isteriche come cattedrali gotiche, spaventose per una volpe di pianura. Tanto più che in un attimo, appena raccolte le scaglie di luce sul lago di Mezzola, il cielo si è imbronciato di enormi nuvoloni neri. Un tuono, un altro, qualche goccia.
Il diluvio universale.
L'ultima ora è stata un giro gratuito al parco acquatico.
Mi ha tolto di dosso il caldo appiccicoso che mi si era attaccato alla pelle. Ma mi ha anche costretta ad abbandonare l'idea del campeggio.
Sotto ad un balcone, giunta a Chiavenna, ho cercato un ostello. Ce n'era uno, "Il deserto", a poco più di un km. Bene. Chiamo, c'è posto. Via. Peccato scoprire all'ultimo che si trova in cima ad uno stradino ripidissimo e tutto di ciottoli, trasformato dalla pioggia in un torrente infido.
La Signora non voleva salire; l'ho dovuta trascinare su a mano, scivolando a causa degli attacchi sulle scarpe. Bestemmiando tantissimo e forte, per superare i tuoni. Che mi sentisse. Poi ho scoperto che l'ostello è mezzo gestito da una comunità religiosa. E va be'.
Ora sono in stanza, dopo una cena tipica in un fu crotto.
Domani mi aspettano le Alpi. La salita più impegnativa. Sarà bellissimo e faticoso. Maloja, a noi due!