giovedì 25 luglio 2024

25-27. Pedalando tra Chiang Mai e Lampang: elefanti, muay thai, monaci color zafferano. Luci e ombre di un "porto di mare" in mezzo alla giungla
















23/7
Chiang Mai

Comincia il primo di due giorni di sosta di quasi metà viaggio qui a Chiang Mai. Abbiamo tantissime cose da vedere e fare, e, prima di tutto, una colazione non arraffazzonata come quando pedaliamo. Quindi ci portiamo in una delle molte caffetterie fighette che spuntano ad ogni angolo (è proprio tanto turistica questa città) e ci diamo la giusta carica o con un thai tea ghiacciato (cui seguirà un altrettanto ghiacciato caffettone), Gigi con succo di mango e toast con burro di arachidi e bananas grande come una tegola.



Ce ne torniamo poi in hotel nell'idea di prendere le bici e portarle, così come sono, luride e incrostate del fango del milione di risaie del regno di Lanna. C'è un negozio che tratta marchi noti, ed è ben recensito, proprio a 20m dalla guesthouse... Peccato che dovrebbe aprire alle 10, sono le 10, ed è chiuso. E tale resterà per tutta la mattina. Mentre attendiamodavanti alla saracinesca abbassata, ci si avvicina un tipo, un farang sulla quarantina che, appena ci sente parlare, ci chiede se siamo italiani, con forte accento bolognese. Ci spiega che lui ormai vive qui da 5 anni, dal Covid, da quando il governo ha concesso una sorta di amnistia per chi aveva visti turistici a lunga permanenza. Il fanciullo, dopo vent'anni di lavoro in ufficio, ha deciso che ne aveva abbastanza, e che qui poteva vivere da signore con la rendita di un appartamento che dà in affitto in Italia. Si è quindi dedicato alla sua passione, la fotografia, e qui si trova come nella sua Bologna: è una città storica, ci sono le mura che raccolgono un centro piccolo, ci sono i colli intorno, tanto movimento di studenti e turisti... L'unico problema è che alla fine dell'inverno qui danno fuoco ai campi e alle foreste (nonostante siano per lo più parchi naturali) per far crescere i funghi, venduti poi a cifre da capogiro soprattutto sul mercato cinese. E quindi qui in valle diventa un catino di fumo e non si respira. E che si fa? Si va tre mesi in Malesia, o sulle isole meridionali della Thailandia. Insomma, una bella vita, anche se, per come ne parla Lorenzo, forse un po'... Vuota. Diciamo, inconsistente. Non voglio giudicare. Semplicemente mi chiedo se, al posto suo, riuscirei a non annoiarmi e a darmi un senso pur non lavorando e costruendo amicizie che durano il tempo di una vacanza, di un viaggio da anno sabbatico tra marijuana e buddhismo; questo è un porto di mare, i farang vanno e vengono, tornano, se ne rivanno. Ti regalano una bici, come è successo a lui con una "amica" tedesca, ti danno appuntamento per pranzo, come succede oggi a lui un con un amico inglese. Son tutti amici. Ma di quel tipo qui di amicizie, che si fanno e si disfano in fretta. Ci racconta che lui si muove in città sempre pedalando, non ha auto e al massimo noleggia un motorino se proprio deve andar lontano. Vanta anche una scalata al Doi Suthep un tempio sacerrimo collocato su un monte fuori città, dove gli studenti universitari si recano a inizio anno, inerpicandosi per i 306 gradini-naga. Ora pure Lorenzo sta aspettando che apra il negozio di bici perchè ha una gomma buca... Ma ci dice che i proprietari sono anziani e magari oggi si riposano. Ok... Allora non perdiamo altro tempo, ci salutiamo e riportiamo le bici in albergo. Chè Chiang Mai ci chiama.

L'antica capitale del Regno di Lanna richiama tantissimi turisti ma mantiene comunque un'atmosfera tranquilla, anche perchè il dedalo di stradine secondarie della città vecchia e le numerose attività sportive e avventurose fuori città riducono la pressione e permettono di conservare alcuni angoli ancora autentici; certo, fuori dalle mura che fanno letteralmente quadrato alla città vecchia, prima che tornino monti e campi, foreste tropicali e riserve, son palazzoni e traffico, ma qui no. O non ancora.

Al re Phaya Mengrai è attribuito il merito di aver fondato, nel XIII secolo, a partire da Chiang Rai, il regno di Lanna, ma il suo primo tentativo di costruire la nuova capitale sulle rive del fiume Mae Ping a Wiang Khum Kham durò solo pochi anni, fino a quando la città fu abbandonata a causa di inondazioni. Nel 1296 il re spostò la capitale in un luogo più pittoresco, tra fiume e monte Doi Suthep, e la battezzò Nopburi Si Nakhon Ping Chiang Mai, cioè "nuova città murata". Nel corso dei secoli XIV e XV il regno di Lanna si estese verso sud fino a Kamphaeng Phet e verso nord fino al Laos, ma nel 1556 cadde in mano ai birmani che la tennero per duecento anni in loro controllo. Dopo la caduta di Ayutthaya sotto il dominio birmano, nel 1767 lo sconfitto esercito thailandese si riunì sotto la guida di Phraya Taksin nell'odierna Bangkok e diede inizio a una campagna militare per cacciare le forze di occupazione birmane. Chao Kavila, capotribù del principato di Lampang, contribuì a liberare la Thailandia settentrionale dal dominio birmano e fu nominato re degli Stati del nord, fatto che portò Chiang Mai sotto l'autorità del regno del Siam. Sotto al governo di Kavila, Chiang Mai divenne un importante centro di commerci, anche grazie alle abbondanti riserve di teak, e la città interna venne protetta da una imponente cinta muraria in mattoni ben visibile ancora oggi. In questo periodo ricchi mercanti di teak emigrati dalla Birmania fecero erigere molti templi in stile birmano. Dopo di loro arrivarono i missionari e i grossisti di legname inglesi, che costruirono ville coloniali intorno alla città vecchia. La fine dello Stato semi-autonomo di Lanna era però imminente. Nel 1892 durante l'espansione del dominio coloniale del Myanmar e del Laos, Bangkok designò Chiang Mai come unità amministrativa e la principessa Lanna del tempo divenne una delle consorti del re siamese Rama V, allo scopo di consolidare i legami tra le due famiglie reali. Nel 1922 il completamento dell'ultimo tratto della ferrovia consentì di collegare la capitale al nord e nel 1933 Chiang Mai divenne provincia del Siam. Nonostante questo, las città restò poco sfruttata fino al 2001, quando il primo ministro Thaksin Shinawatra, nativo di Chiang Mai, tentò di modernizzarla ampliando l'aeroporto e costruendo nuove super highway. Ora che Chiang Mai, la "nuova" antica e rinnovata capitale del nord è divenuta polo di attrazione turistica, è in cantiere anche un progetto di treno ad alta velocità da Bangkok.

Il panorama del centro storico è dominato dai wat, con i monaci avvolti nelle tuniche color zafferano che si muovo tra turisti provenienti da tutto il mondo, pur in un'atmosfera per nulla frenetica e molto rilassata. L'aspetto residenziale della città vecchia sta mutando, leggo, perchè gli uffici governativi vengono trasferiti altrove e la gente del posto vende casa per far posto agli immobiliaristi. La città vecchia resta comunque dominata dall'infinità di templi che richiamano fedeli del posto e pellegrini, oltrechè turisti.

La nostra esplorazione inizia dal Wat Phan Tao. Si tratta di un grandioso tempio in teak; immerso in uno spazio che vibra di tantissime bandierine arancioni, si tratta di un monumento al commercio del legno, con la sua vastissima sala da preghiera sostenuta da 28 gigantesche colonne in teak e rivestita da pannelli dello stesso legno scuro. Al suo interno si trova un Buddha in oro particolarmente aggraziato. Il contrasto tra le vesti arancioni dei monaci e lo sfondo di legno scuro offre uno spettacolo cromatico davvero suggestivo. La parte superiore della facciata è decorata da un pavone che sovrasta un cane, simbol dell'anno astrologico di nascita dell'ex residente reale dell'edificio. Questo monastero rappresenta uno dei punti focali nelle celebrazioni del Visakha Bucha, suggestiva festa estiva durante la quale i monaci accendono centinaia di lampade di burro intorno al laghetto del tempio.   







i festoni delle offerte contengono file di banconote. Qui il denaro non è la merda del diavolo








Con una breve passeggiata (qui è tutto stravicino) ci portiamo al Wat Chedi Luang; entriamo dal lato che custodisce il pilastro fondativo della città, luogo sacerimmo vegliato da guardiani umani e yaksha di tutti i colori. Qui è scritto in tutte le lingue su grandi cartelli che le donne non sono ammesse. E nemmeno gli uomini vestiti in modo inappropriato. Ma soprattutto le donne. Perchè hanno le mestruazioni, quindi sono impure e "inquinano" la purezza e sacralità del locus. E se ciò accade, la leggenda dice che si verificheranno terribili disordini sociali e politici. Ah! Quindi è colpa delle mestruazioni! Ora è tutto chiaro.









Il wi-hahn principale è un florilegio di ricami in legno e oro, sulla facciata, e custodisce una statua di Buddha in posizione eretta affiancata da quelle di due discepoli. 





qui un modo per fare offerte è acquistare laminelle dorate e appiccicarle sulle statue




proprio tutti i tipi di statue


Il pezzo forte resta il chedi in stile Lanna del 1441, oggi in rovina; il famoso Buddha di Smeraldo, che oggi sta a Bangkok, fino al 1475 si trovava qui, nella nicchia orientale; oggi c'è una copia in giada. Con ogni probabilità questo tempio era la struttura più vasta di Chiang Mai ma la parte superiore del chedi fu distrutta da un terremoto nel XVI secolo. Secondo un'altra teoria a mandarla in pezzi furono le cannonante sparate nel 1775 contro i birmani durante la riconquista siamese della capitale. Come la maggior parte degli antichi monumenti di Chiang Mai questo wat era già in rovina quando ebbe inizio la moderna rinascita della città ma, per fortuna il restauro finanziato dall'Unesco e dal Governo giapponese negli anni '90, è riuscito a stabilizzarne la struttura, evitando ulteriore degrado. Passeggiando nel chedi si vedono gli interventi di restauro alle quattro scalinate di naga, in corrispondenza dei punti cardinali. Sul lato meridionale la base dello stupa è ornata dalle sculture di 5 elefanti: 4 sono riproduzioni, quello in mattoni e stucco è originale. Il restauro fu interrotto poco prima del completamento della guglia, in quanto nessuno era in grado di stabilire quale fosse l'aspetto originale dell'edificio.













per chi suona la campana?


Nella zona posteriore è possibile ammirare altre cappelle e statue custodite in padiglioni di teak, tra cui un imponente Buddha sdraiato, e uno panciuto di influenza cinese, i cui drappi a stento ne coprono le carni opime. Qui è possibile conversare con i monaci sotto agli alberi del giardino, come capita in molti wat cittadini. Soprattutto i più giovani novizi ne approfittano per far pratica di inglese e rispondere alle domande dei turisti curiosi.














Ci spostiamo dunque al Wat Phra Singh, il tempio più venerato di Chiang Mai. Il complesso è dominato da un imponente santuario decorato da mosaici. Per rendersi conto della sua prosperità, basta osservare i sontuosi edifici monastici e i giardini perfettamente curati costellati da chioschi dello street food e padiglioni di massaggi. I pellegrini vi venerano la famosa statua del Buddha Leone (Phra Singh), che sta nel wihan lai kham, piccola cappella situata a sud del chedi, sul retro del tempio. Si deve che questa effige provenga dallo Sri Lanka, e sia stata portata qui nel 1367. La cappella è altrettanto sontuosa, con timpani a naga e decorazioni dorate all'interno. Malgrado l'importanza attribuitagli, in realtà si sa poco del Buddha Leone, più affine alle raffigurazioni della Thailandia del nord che a quello dello Sri Lanka. Ancora più misterioso è il fatto che in Thailandia esistano due statue quasi identiche a questa, una a Bangkok e una a Nakhon Sithammarat. esta comunque una delle statue più venerate durante le celebrazioni religiose della festa di Songkran. All'interno del monastero si trova anche una biblioteca sopraelevata in un padiglione in teak e stucco, decorato con angeli in bassorilievo. Il chedi principale, che poggia su base a pianta ottagonale, in stile Lanna, fu fatto erigere nel 1345 da re Pa Yo e spesso i fedeli lo avvolgono in tessuti color arancione.








nel complesso sacro c'è pure una scuola, e i monaci adolescenti non sono esenti











le statue in cera iper-realistiche dei monaci piacciono assai








monaci a pranzo -questi han fatto voto di silenzio


Usciamo ed è in corso quella che credo sia una lezione di educazione fisica all'aperto. I ragazzi, che avranno sui 15 anni, in uniforme che ricorda quella degli scout, giocano chi a pallavolo, in cerchio, chi a basket... E ci sono persino delle fanciulle che si esercitano nello sbandieramento a ritmo di marcette militaresche. Dopo questa prima carrellata di templi, così venerati, antichi e sontuosi, mi chiedo quanto di questo buddhismo sia noto in Occidente. Mi spiego: c'è una forte corrente, in Europa e negli Usa, che ammicca a tutto quel che di spiritualeggiante viene da est. Che siano statuine di Buddha da tenere al cesso come decorazione, o la pratica di arti e discipline (dallo yoga alle arti marziali, dalla meditazione ai mantra intossicati dall'incenso), a molti occidentali questo orientalismo annacquato piace assai. Dà forse un senso di pace e di equilibrio in una società che si è completamente destrutturata e ha assunto tempi e forme dis-umani. A me ha sempre insospettito questa forma di "appropriazione culturale", non per sè (a me le contaminazioni piacciono molto, e la cultura non è una proprietà privata), ma per la superficialità e la poca serietà che, di solito, chi si accosta a queste discipline attua. Non parlo di tutti, sia chiaro. C'è anche chi lo fa seriamente, studiando e approfondendo per anni. Parlo di chi invece pensa di avere in mano le chiavi del Nirvana per aver praticato yoga 3 mesi nella palestra di quartiere. Parlo di chi fa di una cosa che per milioni di persone è serissima una sorta di vezzo, di gioco, di passatempo. Troppo comodo prendere la religione altrui, semplificarla, renderla banale, e leggera, e vaporosa, inconsistente, che non richiede sforzi mentali e fatica di studio, e sentirsi appagati così. Ne abbiamo una nostra di religione. Chi cerca lo spirito provi a dedicarsi seriamente a quella (che non vuol dire esser cristiani di facciata, ma pendere il consolatorio, ma pure l'ostico e lo scomodo). E se si vuole cercar la metafisica altrove, che lo si faccia come (non)dio comanda. E' difficile, impegnativo, richiede anni di approfondimenti e fatiche, di viaggi, di permanenza nell'altrove. Il resto è fuffa, paccottiglia.    



Mentre condivido con Gigi queste riflessioni (lui è uno di quelli che ha accarezzato l'idea di farsi e dirsi buddhista, ma alla maniera da farang stile Sessantotto) arriviamo al Wat Inthakhin Saduemuang. Questo tempio era la sede originaria del pilastro di fondazione, quello dove le donne non possono entrare. L'edificio principale, in teak dorato, è incredibilmente aggraziato. La mia attenzione però è irrimediabilmente attratta da un gatto che si sta lavando sul pilastro di una statua, e tra una leccata di zampa e l'altra, a tratti, arraffa con le unghie le stoffe sacre che decorano l'effige e le strappa e le fa a pezzi. I gatti son proprio uguali in tutto il mondo!










il naga-pride arcobalenato



A breve passo si trova il Monumento dei Tre re, eretto al centro del vecchio quartiere amministrativo. Le statue di bronzo raffigurano Phaya Ngam Meuang di Phayao, Phaya Mengrai di Chiang Mai e Phaya Khun Ramkhamhaeng di Sukhothai, i tre sovrani che si allearono per fondare Chiang Mai. Questo monumento è oggetto di devozione per la gente del posto, che dopo il lavoro si ferma per lasciare offerte votive.



Purtroppo il Museo dedicato alla cultura Lanna è chiuso; siccome è primo pomeriggio e siamo tornati, con questo tour dei templi e della storia locale, in zona albergo, decidiamo di tornare a vedere se, per caso, il negozio di bici nel frattempo ha aperto. Ebbene, sì! Quindi lasciamo in consegna i nostri velocipedi bisunti a tre sciure anzianotte ma molto sul pezzo, che ci dicono che entro domani sera le bici saranno lavate e sottoposte a check-up. Inizialmente chiedono più tempo, ma poi accettano di fare tutto in poco più di 24 ore. Vorrebbero che lasciassi un numero di telefono, ma non ho una sim thai se non per internet. Qui Whatsapp non si usa, e per i social siamo fuori target di età. Allora stiamo alla vecchia maniera, che si passa all'orario stabilito, nel giorno stabilito, e se c'è qualcosa da cambiare che facciano pure.


Dopo un rapido spuntino nel cortiletto della JJ guesthouse, dove nel frattempo prenoto un posto (solo per me, Gigi non viene, vuole riposare...) per una visita a una riserva-santuario degli elefanti per domani, ci buttiamo nella calura dell'ora panica fuori le mura, per una capatina al quartiere cinese. Fortificazione difensiva e fossato sono un'opera ingegneristica davvero notevole.




Passiamo dal Wat Mahawan, poco a nord della porta Thaphae, bianchissimo, con evidenti influenze dei commercianti di teak birmani, che lo avevano eletto come luogo di culto. Il chedi e le porte in stile birmano sono decorati da stucchi raffiguranti angeli e creature mitologiche.








Eccoci nel tradizionale quartiere commerciale, con estesi mercati e shophouse vecchio stile, che lambiscono le sponde del fiume. Il nostro focus, dovendo scegliere, ricade sul Talat Warorot, il mercato più antico di Chiang Mai. Qui si entra in contatto con l'anima più autentica della città. Accanto ai venditori di souvenir (pochi), ci sono infatti bancarelle di articoli di uso comune nelle case thai, tra cui wok, giocattoli, reti da pesca, tessuti, foglie di tè in salamoia, parrucche, vaporiere per il riso, salsicce e sanguinacci, ma pure pesce vivo, tartarughine d'acqua, cotenne di maiale fritte e statuette per le case degli spiriti. Qui ci si può perdere, e il tempo serpeggia tra odori forti e campanelli di ambulanti che richiamano l'attenzione, locals in piena contrattazione e venditori tagliati da secoli di mercatura. La posizione accanto al fiume non è casuale: anticamente la maggior parte dei prodotti agricoli veniva portata qui in barca. Finito questo mercato ne inizia subito un altro, quello dei fiori. E a sud ce ne sono altri di generi alimentari, stoffe, oreficerie cinesi e indumenti. Alcuni sono diurni, altri notturni, altri aperti 24 ore su 24. E' un labirinto di merci e banconote, e tutto questo turbinio di roba ci dà il colpo di grazia. Siamo sfiniti!

















Usciamo dal dedalo e, dopo una merenda a base di dolci tradizionali di mango e riso glutinoso, rientriamo nella città vecchia e ci godiamo un po' di fresco e riposo.


Per cena ci concediamo una vera e propria abbuffata al Punjabi grill, ristorante indiano quotatissimo che ci permette una deviazione dalla classica cucina thai. Prendiamo un'insalata tiepida di patate e verdure miste speziate, da condividere. Gigi un classico chicken biriyani, che lo mette alla prova per la piccantezza (che a me non pare così pazzesca, ma lui è davvero provato). Io un vassoio composito tutto vegetariano, con riso e diverse preparazioni a base di verdure in salse più o meno speziate, più o meno piccanti, con latte di cocco, con yoghurt e zafferano. Il tutto accompagnato da nan caldo. Oh, indiani, quanto siete avanti, voi siete cultura di incontro del pane e del riso! Vi si ama!




Per me la serata è tutt'altro che finita, a questo punto. Ho deciso di andare a vedere davvero alcuni incontri di Muay Thai presso una palestra che la sera fa pure da stadio qui vicino. Per 600 baht si ha la possibilità di assistere a 7 incontri. Non so cosa aspettarmi, e all'inizio temo che la gente che troverò non sia delle più raccomandabili. Ma poi scopro che ci sono anche famiglie, altri turisti, persino bambini, oltre a tanti thailandesi, molti dei quali impegnati a contrattare per le scommesse a suon di banconote.
Mentre aspetto che inizi lo spettacolo devo sorbirmi la parlantina ininterrotta di una signora cinese che parla un ottimo inglese e mi attacca un bottone lungo da qui a Pechino. Quando scopre che sono italiana mi mostra duemila foto scattate il mese scorso a Roma e a Matera (ma anche in diverse città francesi). Mi presenta i figli, con i quali sta passando due mesi qui in Thailandia. Mi fa parlare in videochiamata con il marito, rimasto in Cina, professore anche lui. Ci seguiamo su IG, social di cui lei è entusiasta: lo ha appena scoperto, nella Repubblica popolare è bloccato dalla censura, ma come le piace! E poi mi dice che quando andrò in Cina sarò sua ospite. Al che mi racconta i pro e i contro del vivere nel suo paese, e qui il discorso si fa interessante. Ma sta per cominciare la serata, e il frastuono e la musica diventano troppo alti per poter continuare la conversazione.

gli sfidanti di stasera, tutti thai




Racconterò l'esperienza da assoluta profana. Nel senso: a casa spesso guardo video e seguo atleti di MMA, e il Muay Thai è abbastanza onnipresente. Mi sono informata su Wikipedia, e ora sono qui, mentre le luci strobo fanno il loro effetto e la musica a palla, super adrenalinica, e poi epica alla Stallone in Rocky, crea l'atmosfera giusta. Diciamo che lo spettacolo è perfettamente studiato per essere un mix tra scena e vera lotta, gusto contemporaneo e tradizione. Infatti si tratta di un'arte marziale antichissima, le cui origini affondano nel mistero, in periodi di guerre e razzie. L'invasione birmana nel Cinquecento ha fatto sparire tutti i documenti e gli archivi storici, quindi è difficile anche ricostruire una cronologia attendibile di questa "arte delle otto armi" (calci, pugni, gomitate e ginocchiate, destri e sinistri). Il primo a salire sul ring è un suonatore di uno strumento a fiato simile a un clarinetto, dal suono stridulo, che si accompagna ai tamburi dà un ritmo incalzante al momento.


Poi vengono annunciati dallo speaker, con enfasi di musiche e luci, i nomi degli atleti che salgono sul ring. Gli uomini scavalcano le tre corde, tenute ferme dal loro staff, le donne passano sotto. Guai il contrario! I lottatori si posizionano al loro angolo, blu e rosso, e iniziano una sorta di rituale che prevede che percorrano tutto il perimetro del ring, si fermino agli angoli a pregare, si chinino a terra sempre in segno di devozione e facciano, chi più chi meno, coreografie e "balletti" che sono a metà strada tra lo sprezzo dell'avversario e il riscaldamento, il puro intrattenimento a favore di pubblico e la concentrazione pre-match. Tutto questo accade mentre indossano orpelli rituali, tra cui una corda intrecciata a mo' di corona, il mongkon, nastri, coccarde e altri amuleti protettivi. Poi vanno agli angoli, vengono spogliati di tutti questi gingilli, viene messo loro il paradenti, vengono aspersi e caricati dallo staff e suona la campana del primo round.

lady boxer


l'uomo che gestisce le scommesse e va in giro tra il pubblico con carta, pezza e mazzi di banconote


Gli atleti, divisi per categorie di peso, si affrontano all'inizio in modo cauto, per poi aumentare la forza dei colpi e la violenza con il passare del tempo. I giudici, uno sul ring e altri intorno, spesso interrompono l'azione quando si creano situazioni di stallo. Certi incontri sembrano un po' posticci e teatrali, altri decisamente meno, come si evince dagli ematomi che compaiono sul costato e in volto ad ogni colpo che va a segno. Gli sfidanti sono tutti molto giovani: i più piccoli avranno a stento 15 anni, i più grandi poco oltre i 20. Di rado si va oltre il secondo round (durano pochi minuti ciascuno; tra uno e l'altro, gli atleti vengono lavati, massaggiati, rinfrescati e ricaricati agli angoli). Il primo colpo serio che va a segno, di solito sul viso o sul collo, manda k.o. A metà della serata c'è un momento leggero in cui quattro boxer, di cui due evidentemente in sovrappeso, si affrontano bendati sul ring, tirando colpi nel vuoto, cadendo su loro stessi e creando una scenetta abbastanza vergognosa. I local ridono di gusto, mentre l'uomo delle scommesse raccoglie soldi ad ogni angolo.




Nell'insieme, si trascorre una serata interessante. Non si può certo dire che questa sia la lotta vera, dura e pura, cruda e sanguinolenta che si vede in certi incontri di alto livello. Ma gli atleti, per quanto giovanissimi, sanno il fatto loro, e sono in grado di offrire uno spettacolo che è un mix di sport e intrattenimento. Sono contenta di essermi regalata questa esperienza, andava vista, una volta nella vita, qui dove questo sport incredibilmente duro è nato. Me ne torno pian pianino verso la guesthouse, con ancora addosso il furor dell'atmosfera strana che dà il divertimento nel vedere esseri umani consenzienti che si fanno reciprocamente del male, con tanto di regole su come farsene. Siamo una razza strana davvero, e davvero, per citare Gramsci, "è un mondo grande e terribile" e anche molto confuso, per citare un amico che sa dire cose intelligenti.

24/7
Chiang Mai

Oggi è giorno di efelanti. Passeranno a prendermi qui in guesthouse alle 8.30 per portarmi un santuario a 70km da qui, in mezzo alle montagne, dove vive un piccolo gruppo di pachidermi "in pensione". In Thailandia gli elefanti sono stati usati per secoli come bestie da soma, per trasportare legname e carrozze reali, per la guerra e il traino di carichi pesanti. Ancora oggi non c'è una legge che tuteli questi animali, ancora equiparati a mezzi di trasporto inanimati. Ma nel 1989 è stata approvata una legge che proibiva il taglio indiscriminato del legname, cosa che ha portato migliaia di elefanti addomesticati e mahout (addestratori) a trovarsi disoccupati da un giorno all'altro. Per troppo tempo l'alternativa è stata quella di impiegare questi animali, così intelligenti e sensibili, in miserandi spettacolini per turisti, e ancora oggi, purtroppo, ci sono agenzie che propongono attrazioni simil-circensi e passeggiate a dorso di elefante, come abbiamo visto ad Ayutthaya. Chiaramente nulla di tutto questo è etico, non lo sfruttamento, non le catene, non gli anku, i ganci usati per trattenere e ammansire gli elefanti. Però ci sono delle alternative, nate quando un'attenzione e una sensibilità al problema hanno iniziato a far fallire i teatrini di pachidermi ammaestrati. Sono nati santuari e riserve dove questi animali vivono liberi, seppur non al puro stato naturale (perchè nati in cattività, cosa che rende il totale reinserimento in natura con elefanti selvatici problematico). Sono tutti elefanti che hanno più di 40 anni, e per un primo periodo della loro vita han fatto le bestie da soma. Ed ora invece sono "in pensione". E' permesso a piccoli gruppi di visitatori di vederli e interagire parzialmente con loro, dopo esser stati puntualmente istruiti sui do&don't.
Insieme a una coppia di spagnoli e una signora londinese che più di così non potrebbe, nonna, e mamma di una prof che ora è a Pai per un ritiro buddhista, veniamo portati al centro di recupero. E' un luogo isolato, a nord di Chiang Mai, dove non c'è un villaggio vero e proprio, ma solo qualche struttura legata alla riserva. La natura intorno è viva e vibra di linfa e frullare d'ali.
Arrivati, ci vengono spiegate le regole di comportamento da tenere e ci vengono dati dei vestiti da indossare in modo da poterci "sporcare le mani" con cibo, fango e acqua, nell'interazione con gli elefanti. Che, spoiler, non puzzano affatto, come mi era stato detto: almeno, non questi che vivono liberi e non sono costretti a stare in una gabbia angusta nelle loro stesse feci.





A questo punto ci carichiamo nel cassone di un pick up, stando in piedi, che ci porta proprio nel cuore della riserva, su sentieri fangosi.





Ed è qui che, poco dopo il nostro arrivo, fanno la comparsa due elefantesse. Sanno che le voci umane significano cibo, e quindi si avvicinano da sole, in un punto dove un gradino impedisce loro di salire e servirsi da sole delle decine di kili di zucca cruda che stanno per papparsi. Ci viene spiegato come dar loro il cibo, offrendoglielo in modo che lo prendano con la proboscide (che è super prensile e precisa, pare una mano!) o portandoglielo direttamente alla bocca (anche se sconsigliato). Questo momento è magico. Le elefantesse sono tenerissime, in un misto di frenesia nel voler mangiare e pazienza nell'aver a che fare con queste scimmie glabre che offrono loro un po' di cibo. Si fanno anche accarezzare: hanno una pellaccia durissima e irta di peli radi! Ma quegli occhi sono di una tale dolcezza... Chissà quante ne hanno viste, prima di trovare qui un po' di pace.






La guida ci spiega in cosa consista l'alimentazione di questi animali, che arrivano a pesare anche 5 tonnellate; ci mostra come vengano preparati anche degli "integratori" a base di tamarindo, farina di riso e banane, amalgamati in polpette che le due signore proboscidate gradiscono molto.


Dopo aver mangiato veramente tante decine di kili di zucca, le ragazze decidono che è ora di scendere al fiume, e noi con loro. Camminiamo nella foresta a breve passo da questi maestosi, ma silenziosissimi animali, che si muovono con una grazia insospettabile tra sentieri scoscesi e rocce, fino all'acqua, dove si immergono, si levano il fango di dosso, per poi cospargerselo di nuovo a manciate, a proboscidate, appena fuori dal fiume.







Viene il momento di salutarle. Loro ora se ne vanno nel folto della giungla, mentre noi attraversiamo il fiume con un gommoncino e torniamo al campo base. Che esperienza magica vedere così da vicino questi giganti gentili... Davvero il loro sguardo parla.





Prima di tornare in città è possibile pranzare con pad thai delizioso, anguria e involtini fritti, contribuendo all'economia della piccola comunità che si occupa della riserva. Stesso scopo hanno anche le foto in vendita e gli oggetti di artigianato. Non mi faccio mancare nè l'uno nè l'altra, anche perchè un ricordo così davvero è prezioso. Il tutto è arricchito da una gattina microscopica e coccolosissima, che fa fusa così potenti per il suo corpicino da essere un terremoto vagante. Fa ridere assai la scenetta nella quale la sciura akha a momenti si ammazza inciampando nella gattina stessa, che le si struscia intorno alle gambe. Nessuna delle due si fa male, per fortuna. E' scritto che, ovunque nello spazio, ovunque nel tempo, un gatto che si struscia sulle gambe di una anziana la farà cadere.






Sazia di meraviglia, oltrechè di cibo strepitoso, me ne torno a Chiang Mai; qui trovo Gigi dispiaciuto di essersi perso un'esperienza così incredibile (se ne è accorto dalle storie che ho pubblicato sui social, pentendosi presto di non esser venuto). La sciura dell'hotel mi caccia in mano un mazzo di longan raccolti dal suo giardino. Indovinate un po'? Non arrivano a sera! Hanno il sapore e la consistenza dei lychees, ma si presentano a grappoli come in foto e hanno una buccia dura ma sottile che si apre facilmente con le mani e non costringe a lavarli.


Visto che siamo in tema "prodotti tipicamente thai", ecco anche un inalatore al mentolo. Qui tutti lo usano alla grande, pippando forte. E chi sono io per privarmene? Sa di Vix prepotente, e si infila nelle narici, aspirando. Stura anche il cervello. Una droga! Sotto, invece, l'acqua di cocco con pezzetti di polpa, una delizia da bere ghiacciata, super dissetante. Si trova nelle noci, direttamente, oppure in bottiglia.



Viene il momento di dedicarsi alla logistica. Passando in una zona di palestre di tai chi e qi gong (del primo ho fatto una breve esperienza di tre mesetti, prima di capire che non è il mio), andiamo a lavare i nostri puteolenti stracci a una laundromat, e, nell'attesa che tutti lavi e asciughi, facciamo una passeggiata in centro e ci concediamo una pausa. Gigi non si fa mancare un frappè alto all'incirca come me. 





Viene anche il momento di recuperare le bici. Alle 17 in punto siamo al negozio e... Le bici non ci sono! Il paron, omino anziano che la sa lunga, ci dice che per lavarle le ha fatte portare all'altro suo negozio, a 2km da qui. Ci accompagna in tuk tuk e poi torniamo pedalando, se per noi va bene. E vuoi dirgli di no? Il tuk tuk in questione è uno scassone che continua a spegnersi bloccando il già congestionato traffico. Comincio a temere che le nostre bici siano state vendute in uno dei molti mercati, smembrate e riassemblate per crearne 3 con qualche pezzo in meno. E invece no! Eccole lì, scintillanti come mai prima d'ora, splendide, oliate, rifinite, sembrano nuove! 



A questo punto non resta che riacchittare le borse e procacciarci la cena. Optiamo per un quotatissimo ristorantino a gestione familiare a pochi passi dalla guesthouse, dove ci accolgono camerieri molto queer, in abiti tradizionali ma con unghie pittate e modi gentilissimi. Prendiamo io un mix veg sweet and sour, con verdure e frutta in salsa agrodolce, Gigi con pollo e anacardi. Il riso bollito, che costa 10 baht a porzione, arriva in forma di stella su foglia di banano. Ma che cuore! E, da condividere, ci prendiamo un misto di stuzzichini fritti con salsa miele e peperoncino che nemmeno sto a dirvi... Spaziale e oltre!




Si conclude così una giornata incredibilmente densa e piena di emozioni e bellezza. Tutti e due questi giorni di sosta sono stati così, e son proprio contenta che Chiang Mai non abbia deluso le alte aspettative che la sua fama porta. Certo, è un luogo ormai un po' faranghizzato, da giramondo globetrotters wanderlusters; una millennial come me, della generazione delle incertezze e delle "experiences", qui trova pane per i suoi denti. Puoi conoscere viaggiatori da tutto il mondo, aggregarti, chiacchierare, cenare insieme, insieme fare l'esperienza farlocca della vita monastica a Pai, o noleggiare un motorino e stare a zonzo tutto il giorno, tutto un anno, puoi farti un tatuaggio di coppia, fare amicizia e fare l'amore tutto in una sera, e poi via di nuovo ciascuno per la sua strada. E' un posto così, di gente che arriva e va, e il mare, che qui non è acqua salata ma tempo, cancella ogni traccia leggera dalla battigia, il foglio torna bianco, e si ricomincia la danza dell'umano ad ogni giro del sole, mentre i monaci intonano il loro canto profondissimo e un Buddha, da qualche parte, sorride.


25/7
Chiang Mai-Lampang
108km

Oggi si torna in sella, e ci si resta per una decina abbondante di giorni senza ulteriori indugi. La prossima sosta, se tutto va secondo i piani, sarà per visitare le isole paradisiache di Ko Tao e Ko Samui, con tre traghetti in mezzo (Chumphon-Ko Tao-Ko Samui-Suratthani), oviamente portandoci appresso le bici e girando da spiaggia a spiaggia a pedali. Che pare sia la cosa migliore, tra l'altro. Mi sono già informata sui traghetti, e pare tutto piuttosto facile. Non che in questi giorni di rotolamenti a sud non ci saranno cose da vedere, eh, anzi! Ogni giorno passeremo per luoghi emblematici della storia e della cultura thai, oltre ad una infinità di parchi naturali. Si comincia da oggi: la meta è Lampang, città elegante e ancora fuori dal turismo di massa, rifugio ed oasi di pace per i locals che fuggono dai grandi agglomerati del centro del paese. Insomma, già mi piace così, solo a leggerla sulla guida!
La partenza, invero, è ritardata per un contrattempo: a un kilometro e mezzo dalla guesthouse mi accorgo che manca il mio ciclocomputer (robetta Decathlon da nemmeno 100 euro, ma mentalmente così utile per vedere come procede la tappa di giorno in giorno, quanto manca alla sosta, alla fine della salita, alla meta...); era fissato sul manubrio con il suo elastico, ma ora non c'è più nulla. Il magnete sulla ruota invece è ancora lì. Sulle prime penso che sia rimasto dal ciclista, ieri, quando ci ha lavato le bici. Ma poi mi sovviene di averlo visto e notato, di ritorno in albergo. Quindi il fattaccio è accaduto in guesthouse... Siccome siamo vicini, decido di tornare a controllare, senza speranze di ritrovarlo, ma per levarmi il dubbio. Purtroppo quasi in ogni viaggio mi viene rubato lo schermetto. Quando la bici è molto in vista lo tolgo, ma qui era in uno stanzino usato solo per il deposito bagagli... Sarà stato qualche turista di merda, non ceto le sciure che gestiscono la baracca. Torno, spiego, controllo ed eccolo lì, il povero computerino, buttato sotto ad un mobile vecchio, tutto smontato, con l'elastico tagliato accanto. Chissà chi è il genio che pensava di aver vinto un Garmin o un cazzillo Apple. Vabe', poco male: l'importante è che ci sia e funzioni. Ora possiamo (ri)partire, stavolta davvero! 

Uscire da Chiang Mai impone attenzione al traffico nervosetto (mai -Chiang Mai! Giammai!- come da noi, ma più che nella media di qui). Prima le viuzze contorte del centro, poi i vialoni a sei corsie della periferia, ingolfati di tuk tuk, pullmini arrugginiti, motoscoreggette e baracchini su ruote, oltrechè camion e auto, ci portano finalmente fuori dall'area urbana. Qui si torna a respirare, e lo sguardo corre tra campi verdissimi e risaie allagate fino al profilo dei monti scuri di foresta. Anche oggi qualcuno ci attende, ma son colline, nulla di spaventoso. Persino il cielo è sereno e steso di un azzurro chiarissimo, quasi bianco, e i monaci giganteschi ci benedicono dall'alto.




Ricompaiono, a bordo strada, le bancarelle della frutta. Vendono pezzi d'artiglieria pazzeschi: dragon fruits grandi come bambini e durian grossi come maschi adulti, longan a mazzi e noci di cocco fresche da bersi al volo. Hanno anche frutta finta, cioè palline coperte di stoffa rossa o arancione, disposte nelle cassette per attirare lo sguardo. Che volponi del marketing! Noi abbiamo modo di vedere tutto e bene, perchè un vento teso e contrario rallenta la marcia e la rende ben faticosa, una via crucis da gli ananas e i mangostani; terza stazione: la volpe cade sui cachi, detti anche DIOspiri, che suona bestemmia e rende l'idea. 



Rimanendo nell'ottima corsietta al bordo dedicata a bici e moto (ribadisco, qui son in tutto e per tutto equiparati), affrontiamo alcune tranquille collinette immerse nel verde. Dalle foto non si evince, ma fa molto, molto caldo. Quando non piove, e il vento, come fa si tace, l'aria diventa quella di un forno. Ma ormai siamo acclimatati, e pian piano portiamo le nostre chiappe secche e quelle larghe delle bici su per ogni rampa.







Prima dell'ultima scalatina facciamo una sosta. Oggi assaggio questa trinità, anzi trimurti incredibile: pesce secco piccante, pesce secco agrodolce e gelatina blu. Il pesce ha poche calorie e tutte di proteine, è uno snackino formidabile! E placa il desiderio di salato che tutto il nostro sudare comporta.


Ripartiamo, con gli ultimi 4km di salita. Non è mai ripida, ma nemmeno in falsopiano. Gigi va in crisi e resta un po' indietro. Io lo aspetto dove la strada scollina, affascinata dal paccottame religioso che si trova qui ai passi. Non croci di vetta, non cappelle e madonnine, ma statue di Buddha vestite, statue di monaci tatuati con i sigilli sacri (di cui ora so quasi tutto-tutto), statue di tigri, di galli grossi come dinosauri, di zebre, di vacche... Insomma, cose. Molte, colorate ac divorse. E quando qualcuno scollina, suona di prepotenza il clacson, per salutare tutta questa sclatta zoo-antropomorfa di ceramica e plastica. E' un concerto, un casino, un pandemonio. E' bellissimo!



Meno bello è che Gigi, che arriva qualche minuto dopo di me, non vede la bici in mezzo alla strada, non vede me, e non mi sente, pur chiamandolo a gran voce. Passa, e va, senza accorgersi di avermi così superata... E imbocca una discesa di oltre 15km, pensando che io sia davanti (e che io non lo aspetti... Cosa che non è mai successa in sei anni e mezzo di viaggi e pedalate quasi quotidiane insieme).


Pensando (e sbaglio) che a breve si accorgerà della situazione, finisco di fare le mie foto e torno in sella, lanciandomi all'inseguimento. Ma lui, che teme di essere stato abbandonato, sta frullando sui pedali come un demonio, e quindi non lo raggiungo mai. Ciò non mi impedisce comunque di godermi lo spettacolo di queste alture coperte di densissima foresta monsonica verde cupa di liane e foglie fitte fitte da non far nemmeno trapelare a goccioline la luce. Siamo nel cuore del parco nazionale Doi Khun Tan, che va dalla pianura, con le sue intricate foreste di bambù, alla cima dell'omonimo monte, poco sotto ai 1400m, coperta di pini; l'area è nota per i suoi fiori selvatici (orchidee, zenzero, gigli) e per le cascate. Qui si trova la più lunga galleria ferroviaria thailandese, aperta nel 1923 dopo sei anni di lavori che video impegnati migliaia di operai laotiani, molti dei quali morti, si dice, sbranati dalle tigri. Qui, inoltre, si trova uno dei più grandi centri di conservazione degli elefanti asiatici della Thailandia.




Gigi, a una certa, si accorge che forse forse, o son caduta in un crepaccio senza lasciar traccia, o son stata sbranata anch'io dalle tigri, che poi sono scappate in bici, oppure è meglio che mi chiami e capisca cosa stia succedendo. E' agitatissimo. Davvero pensa che io lo abbia abbandonato in mezzo ai grandi felini della giungla. Ci sentiamo, gli spiego, si calma, mi aspetta, lo raggiungo. Vuole avere una ragione che non ha, mi tira fuori dai gangheri, ci rientro con il loto in grembo e lo sguardo di Siddharta, ripartiamo. Ora il vento è a favore e ci spinge verso la meta, Lampang. Fortunatamente la città ha una planimetria squadrata e semplice, con il fiume come punto di riferimento, ed io ricordo dove si trovi l'hotel prenotato ieri, in centro. Perchè anche oggi il telefono con la Sim tha, che ci dà internet, muore male prima del tempo e non si ricarica con il powerbank. Oh, quanti fiori di loto, quanti sorrisi di Buddha mi cava dal profondo tutto ciò!

Rondò della torre dell'orologio, seconda stella a destra e poi dritti fino al mattino, e poi la strada per il Pin Hotel la trovi da te, per nel bordello generale dell'orario di uscita di scuola. Qui ci sono tanti bambini, tanti adolescenti, tanti istituti, e quando suona l'ultima campanella sembra una mobilitazione generale, se non una guerra, a suon di nonni vigili, fischietti, bimbi con bandiere rosse che presidiano gli attraversamenti pedonali un cancro di motorini e mezzi vari usati sia dagli studenti, se in età (sette anni) o dai loro genitori (se minori di quattro anni).





Il Pin hotel, che si trova invece in una tranquillissima via centrale, di fronte a un monastero, è una sorpresa. E' un posto di lusso, ma parecchio. Su Agoda l'ho pagato 320 baht (8 euro) ma i prezzi al desk della reception sono più alti. Il parcheggio interno è presidiato 24 ore da ben due guardie in divisa. Faccio check in e la receptionist mi dice di portare le bici nella hall, anch'essa presidiata da due lacchè in divisa. A me pare anche troppo, e un po' mi vergogno. Scarichiamo le borse polverose e uno dei due si avvicina con il carrellino portabagagli, e ci fa trovare le nostre cose in stanza. Mancia e mi pare pure il minimo. La camera è enorme e più ammobiliata di casa mia. Ma dove siamo finiti? C'è pure un grande balcone che affaccia sul cortile, dove un giardiniere sta piantando fiori uno ad uno nei vasi. Ellamadonna! Ho paura persin di sporcare, tanto è lindo e pettinato e fighetto questo hotel. Chissà se anche qui, come a Uttaradit, domani ci inseguiranno sdegnati e con i conati, accusandoci, in quanto farang, e quindi zozzoni, di aver lasciato un uovo di Pasqua di merda incartato negli asciugamani.




Doccia ed è ancora presto abbastanza da poterci godere una passeggiata in città prima del tramonto e prima di cena. Un tempo questa regione era nota per il teak, mentre oggi l'economia è trainata da industrie legate all'estrazione mineraria e alla ceramica (in effetti, arrivando, abbiamo notate numerose fabbriche con spaccio-mercatone sulla strada di vasellame vario, dipinto, decorato, grande e piccolo).

Lampang conta 60.000 abitanti, ma è una cittadina tranquillissima, per quanto anche qui, piano piano, il turismo dei grandi numeri stia arrivando. Per ora è soprattutto interno, cosa che non ha snaturato lo spirito del luogo, ma si notano caffè e localini instagrammabili, ristoranti di gusto occidentale, hotel attenti al design... Ma tutta questa coolness rimane ancora inesplorata per i più, e si coniuga con una storia antica, mercati tradizionali e templi di meditazione.

Tutta la zona risulta abitata fin dal VII secolo (periodo Dvaravati), ma la leggenda narra che Lampang sia stata fondata dal figlio della regina Chama Thewi di Lamphun, città vicina. Come Chiang Mai, Phrae e altri nuclei del nord, anche qui ci troviamo sulle rive di un fiume, in questo caso il Mae Wang, con pianta quadrata e cinta muraria. Come Phrae, anche qui esplose il commercio del teak tra fine XIX e inizio XX secolo; un'importante compagnia britannica fece arrivare esperti birmani per formare i boscaioli della regione. Questi supervisori, insieme ai loro connazionali autonomi, fecero costruire templi sontuosi e ricche dimore, che ancora oggi segnano il profilo elegante delle vie centrali della città. Ed è proprio qui che non ci immergiamo nella serenità vespertina di Lampang, nella via Talad Gao. I mercati si tengono solo nel weekend, e questo forse nemmeno, essendo festivo. Questa strada lungo il fiume è un susseguirsi di case storiche, templi e antiche shophouse in stili diversi: thai, inglese, cinese e birmano, a testimonianza dell'importanza internazionale e del passato multiculturale dovuto al commercio del teak. Molto piacevoli anche i murales, mai stonati rispetto al contesto. 


















Ci portiamo così ad uno dei numerosi ponti sul fiume, da cui si apprezza un bel colpo d'occhio su questa cittadina dal fascino placido e vagamente decadente. Camminiamo fin oltre il tramonto, all'ora in cui si accedono le luci dei lampioni, dai locali inizia a risuonare musica dal vivo e sui tetti si aggirano gatti guardinghi. L'aria ora è fresca e una leggera brezza rende gradevolissima la passeggiata. Sembra di essere in vacanza sul lago all'inizio del secolo scorso. A parte i templi, s'intende.





c'è anche "the first church of Lampang"; quando arrivavano i mercanti, spuntavano subito anche le croci. In teak ovviamente



Per cena ci fermiamo in uno dei molti localini sul fiume. Ci sono tre ragazze che, con una una bottiglia di birra a testa, annacquata con ghiaccio, già si comportano da galline ubriache, e marcano stretto Gigi. Ogni volta che cambiamo tavolo (cosa che accade spesso, perchè a me dà un fastidio in finito l'aria condizionata gelida mentre mangio) ci seguono. Poi ci sono due statunitensi grossi e anziani, uno dei quali con accompagnatrice thai giovane e smaliziata. Compare pure un bimbo che vende sacchetti di arachidi in guscio e collanine di fiori. Gli lascio qualche soldino anche perchè mi fa una tenerezza infinita quando si imbambola davanti al megaschermo, dentro al locale, dove stanno trasmettendo una gara di Formula 1... Si incanta proprio, e si porta pure le mani alla bocca e sgrana gli occhi... La scena è dolcissima e tristissima allo stesso tempo.


Il bimbo se ne va, e arriva la cena. Riso fritto con pollo e verdure per Gigi, e riso con curry, zafferano e gamberi per me. Sarà che mangiamo seriamente una sola volta al giorno, e abbiamo la fame dei cicloviaggiatori, ma è sempre tutto pazzesco! E ciascuna portata costa meno di due euro!



Rientriamo in hotel mentre inizia a piovere forte, con goccioloni grossi che ben conosciamo. Passiamo accanto a un tempio che richiama il White temple di Chiang Rai e ci imbattiamo anche in tre carrozze trainate da cavalli, con turisti a bordo. Ho letto che Lampang è l'unica località della Thailandia dove questi mezzi, seppure ad esclusivo uso dei turisti, esistono ancora, con i loro addobbi di fiori finti e coccarde, i loro colori sgargianti e i cocchieri in livrea con cappelli Stetson. Mi sale come un rutto di maldigerito una riflessione dai toni polemici e animalisteggianti. Perchè il turista medio è così attento alle condizioni di vita del cane randagio o dell'elefante domestico, e così poco interessato, invece, a quelle del cavallo da tiro? Che differenza c'è? Quanto è ipocrita lo specismo? Ma i farang al cavallo aggiogato sono abituati, ci abbiamo costruito la storia a forza di battaglie e lavori nei campi. Non fa pena. Anzi. Tira il mordo e calcia il costato! E chiamalo sport, e chiamalo amore per gli animali.






Si chiude così la giornata, giusto in tempo per un dolcino in camera (pudding di latte e mais, ambrosia divina) mentre studio le prossime tappe. Tra qui e Sukhothai, che voglio visitare assolutamente, ci sono 200km. Li divideremo nel modo più equo possibile, facendone 90 domani e 110 dopodomani. Domani faremo sosta in un paese che non è tale, ma un agglomerato di motel e stazioni di servizio ad un grosso incrocio di arterie stradali. Molto in stile US o Russia: si arriva, si prende la camera, si scende al benzinaio e intorno si affacciano minimarket e qualche locale per mangiare. Fine. Il giorno successivo, invece, ho in animo di fermarmi non nella città moderna di Sukhothai, ma proprio alle rovine, che sono una decina di kilometri fuori dal centro. Intorno al sito archeologico ci sono strutture e servizi di ogni tipo, e questo ci agevola di molto la visita. Intanto si torna a sud. Vi dirò: dopo quasi un mese di monti, colline, foreste e campagne, comincio ad aver voglia di mare a spiagge. E, guarda caso, siamo in Thailandia, che mi pare il posto giusto!