Hanoi-Haiphong
110km
Questa prima tappa pedalata è servita a rimettermi al mio posto, sempre che mai ne sia uscita, e a dar agio a questo Paese di farmi capire quali siano i rapporti di forza tra me e il mondo grande e terribile, anche qui, sempre che ce ne fosse bisogno. Ho poi avuto la fortuna di poter passare in rassegna un buon numero di possibili problemi, così che io possa imparare dai miei errori e crescere affrontando le difficoltà. Caro Vietnam, avrei magari dosato un po' meglio, eh. Una cosa oggi, una domani, pian pianino... Però son qui alla scrivania di un appartamento nel cuore di Haiphong, la meta di oggi, quindi significa che, alla fine, è andato tutto bene.
Durante la notte imperversa una pioggia sferzante, che non si degna di smettere nemmeno alle 5, quando mi alzo. Mi bevo un paio di caffè con calma, è già quasi tutto pronto. Alle 6 carico in ascensore le borse, e poi la bici, e infine me stessa, e trasferisco tutto in strada. Monto l'ambaradan, compreso il gigantesco cappello tradizionale, il non la, che ho comprato ieri per il meme, ovvero le foto a modo, e carico la traccia. Pioviggina, ma pazienza, fa già un caldo da sudar la cresima, meglio andare e approfittare dell'orario per evitare il traffico. Tra bagnarsi e sopravvivere alle strade di Hanoi, preferisco la seconda.
Come da tradizione vorrei fare una foto simbolica della partenza; mentre altre città hanno monumenti iconici, riconoscibili a colpo d'occhio, la capitale vietnamita, pur avendo tantissimi luoghi ricchi di storia e cultura, manca di simbolo univoco. Dopo averci pensato un po', nei giorni scorsi, ho deciso quindi di affidarmi al mio senso estetico di pancia: dove, più che altrove, ho pensato "Che meraviglia questo scorcio!"? Ebbene, al ponte rosso, di legno, il The Huc, che collega i parchi intorno al Lago della spada restituita, in centro, all'isolotto su cui sorge il tempio Ngoc Son, ribattezzato "Della tartaruga orripilante". E allora che sia questo il punto esatto in cui si segna sulla mappa la X della partenza, e anche quella dell'arrivo. Ci rivedremo tra due mesi, tartabrutta!
Nello scattare le foto, operazione permessa da un piccolo tripode che ho comprato prima di partire, mi rendo conto che il cappello non la è perfettamente impermeabile e ripara testa, spalle, schiena, petto... Insomma, è il copricapo definitivo, 4 stagioni, altro che Goretex: bambù e foglie di palma, perfetti per proteggere dal sole tropicale e dai monsoni.
Mentre accrocco il telefono per le foto, noto la fauna che popola il parco in queste prime ore del giorno, nonostante la pioggia: runner occidentali, gruppetti di signore che praticano tai chi e singoli, quasi tutti anziani, uomini e donne, che fanno esercizi più o meno riconoscibili come tali. Usa molto anche schiaffeggiarsi la pancia, immagino per attivare la circolazione o qualcosa di simile. Però da vedere è un curioso spettacolo, diciamo così.
Dopo un ampio momento foto (Gigi lo sa, era la sua croce: sono iconoclasta nei confronti di me stessa e su trecento scatti di solito ne trovo a malapena uno che sia decente e non mi faccia sembrare deforme), torno in sella. Adesso si va davvero. Decido di prenderla con estrema calma: il traffico della capitale è folle e va affrontato con attenzione e pazienza. A volte per attraversare una strada, dove non ci sono semafori, rotonde, attraversamenti o qualcosa che interrompa il flusso ininterrotto di auto e motorini, bisogna aspettare anche dieci minuti. E comunque fare lo slalom tra i mezzi. In ogni caso, la traccia mi fa passare per viuzze minuscole, dove transitano solo moto, tante, tantissime, in ogni direzione, ma lentamente. Anche perchè l'asfalto è un colabrodo e spesso sostituito da lastroni in cemento tutto dissestati e scivolosi. Inoltre lo spazio, già minimo, è ridotto ulteriormente da bancarelle improvvisate, mezzi parcheggiati a buffo, persone che fanno cose, cani, immondizia. Qui ho un'illuminazione e capisco la prima regola fondamentale del codice della strada vietnamita (non scritto): non ci si deve mai fermare. Se freni, ti vengono addosso. Se indugi, ti investono. Se dai una dovuta precedenza, ti travolgono. Se ti fermi al rosso sei finito. Bisogna sempre andare, andare e mai fermarsi. Usare moltissimo il clacson, per avvisare del proprio passaggio, come da noi sui tornanti, qui per ogni minima manovra, dalle curve ai sorpassi. Sclacsonano anche quando vedono che vorresti immetterti o attraversare, e attendi il tuo turno, per avvisarti che stanno passando loro (che hanno la precedenza). Insomma, andare, rallentare, suonare, mai frenare. Il traffico è futurista. Movimento, velocità. Il concetto stesso del divenire rapido. Peeeee peeeeeee peeeeeeeee zang tumb tumb peeeeeeeeee ninoninoninoninoooooo!!!
In qualche modo, diventando parte di questo fluido motorizzato in corsa, imbocco il grande ponte che attraversa il Fiume Rosso, per uscire dalla città. Qui, come su tutte le arterie più grandi, c'è una corsia dedicata ai mezzi a due ruore (o tre), equiparati a prescindere dalla presenza di motore o meno. Bici, motorini, risciò, carretti, moto, tricicli, bancarelle su ruote... Sta tutto insieme, nella corsia lenta. Poi c'è quella per auto e camion, e infine quella di sorpasso. Detto questo, bisogna anche specificare che, in generale, regna l'anarchia e tutti vanno ovunque (strombazzando) e spesso la corsia lenta è usata dai mezzi, quali che siano, che devono fare "solo un pezzettino prima di svoltare" e quindi procedono contromano per non allungare la strada.
Appena fuori città il traffico, comunque, diminuisce sensibilmente. Resta caotico e imprevedibile, ma più gestibile. Tremende diventano invece le strade. Anche quelle asfaltate imbacano acqua e si creano pozze profonde 30-50cm in cui i motorini affondano e i camion creano tsunami. Io passo a lato, spesso spingendo la bici a mano: ho il timore che l'acqua celi buche fatali che mi inghiottano intera. I paesi che attraverso son piccoli e vivaci di mercati sulla strada, con carne, frutta, verdura e mercanzie varie appoggiate su banchi o direttamente a terra, e i venditori seduti accanto tra le pozze. In alcune zone l'asfalto cede il passo alla terra battuta, che, ora, è un paciugo di fango molle, voragini e tappetti o mattoni buttati qua e là per permettere di attraversare a piedi senza lordarsi irrimediabilmente. Già qui pedalare diventa difficile, ma i molti "Hello!" gridati dai residenti e dai negozianti tengono l'animo alto. Perchè non so cosa mi attende!
A un certo punto, alla fine dell'ultimo paese, la strada si svuota del tutto e appare una palude infera. Siccome in teoria dovrebbero essere poche centinaia di metri, decido di percorrerla ugualmente, spingendo e camminando la dove si renda necessario. Peccato che le pozze si rivelano profondissime, più di quel che sembra. E che il fango non sia fango, ma sabbia mollissima, in cui si affonda. Passo la prima, in qualche modo bagnandomi poco. Alla seconda infradicio le scarpe e le calze, mi insozzo, e anche la bici non fa fine migliore. Dalla terza in poi, diventa veramente il Vietnam. Capisco molte cose di quella guerra, ora. A un certo punto, passando su quello che sembra un monticchio asciutto di sabbia, affondo e mi ritrovo in una pozza fino quasi al bacino, e ogni movimento mi fa sprofondare ancora di più. Le scarpe mi si riempiono di sabbia fradicia e sembrano quelle delle vittime dei mafiosi, pesano tantissimo e fanno da zavorra. Dopo un istante di panico e numerosissime, ma issime, bestemmie cacciate, riesco a tirarmi fuori. Il problema è ripescare la bici, ora. Mi costa uno sforzo immane, e mi sento Atreiu quando le Paludi della Tristezza si portano via il suo cavallino Artax. Ma io non posso perdere la Signorina Felicita! E quindi, tra un moccolo e l'altro, ne usciamo entrambe. Volete sapere un fragrante dettaglio splatter che rende ancora più pittoresca la vicenda? L'acqua di cui stiamo parlando non è chiara, fresca e dolce. E non è nemmeno solo piovana. E' densa di liquami scuri e maleodoranti che colano da un'immensa discarica a cielo aperto che si trovo a bordo strada. E non vi dico la quantità di insetti, di larve, di mosche, di zanzare, che popolano questo luogo ameno. Se non ho preso nulla oggi, le mie difese immunitarie hanno ricevuto un booster da manuale.
In tutto ciò, ho percorso solo 20km. Quando esco finalmente dalla situazione di emme, ma letteralmente, mi riprometto, per oggi, di pedalare solo su asfalto. Lo farò davvero? Ovviamente, mio malgrado, no. Grazie Komoot, ti voglio un gran bene quando hai a cuore la mia incolumità e mi tieni lontana dal traffico.
Attraverso qualche paesino grondante di umidità e pioggerella, e noto templi e canali, case spesso nuove e molto curate, ma pochissime persone in giro.
Dopo un ulteriore passaggio su sentierini, questa volta però praticabili, in mezzo a bananeti, risaie e campi di mais, torno al mondo civilizzato, per quanto rurale. La specialità della casa, qui, è allevare le anatre nelle risaie. Queste poverette non scappano, restano lì, per loro spontanea volontà, e non sospettano che presto o tardi finiranno nel piatto. E' una bella metafora per tante forme di sfruttamento tra umani, pure. Ci danno un po' di benessere, un minimo di agio economico, e via che restiamo lì a farci spennare del tempo, l'unico bene prezioso che abbiamo (e quanto ne sprechiamo, come ben diceva Seneca!).
Altra specialità della casa è piazzare le sepolture, singole o in piccoli gruppi come mini-cimiteri, direttamente nelle risaie. Dall'acqua emergono questi tempietti in miniatura, alcuni datati, altri molto recenti. Perchè tumulare il nonno in mezzo al campo, vi chiederete. La domanda è: perchè no?
Ogni tanto incappo in discariche a bordo strada, dove la gente passa e getta la spazzatura direttamente dal motorino. Nemmeno a dirlo, gli addetti si premurano di bruciare tutto. Credo di aver respirato qualche demone a forma di dragone della monnezza, oggi, ma tant'è.
Da qui in poi, ovvero la restante metà tappa, tutto migliora sensibilmente. Intanto smette di piovere. Poi riesco a stare per lo più su tranquille stradine di campagna, ma asfaltate o comunque pedalabili. E il paesaggio diventa piacevole. Ci sono villaggi in mezzo alle risaie, palme, bufali e contadini chini nei campi con i loro cappelli (i)conici. A volte costeggio la ferrovia, e ho pure la fortuna di vedere passare un vecchio treno sferragliate che poi si perde nel verde.
Là dove non ci sono alternative, spesso in corrispondenza di giganteschi impianti id produzione di mangimi e farine alimentari, che impregnano l'aria di odore di croccantini dei gatti, tocca saltare su uno stradone dal traffico piuttosto violento. Ma anche qui vale la regola della catena alimentare, dal mezzo più lento al più veloce, da destra a sinistra.
Quando possibile, ricomincio a zigzagare tra villaggi e strade rurali, evitando però quelle che a occhio sanno di palude stigia. Incrocio ragazzini con maglie super patriottiche che fanno a gara con me in bici ed è una profusione di "Hello! Hello!". Decido, al primo negozietto che riconosco come tale, in un paese tutto addobbato di bandiere rosse, ritratti di Ho Chi Minh e falci e martelli, di fare una piccola sosta. Mancano meno di 30km all'arrivo. Faccio scorta di acqua e frutta e cerco un angolino dove fermarmi.
Opto per un tempietto che sorge su una minuscola isola in mezzo alle risaie allagate. E' collegato alla strada da un passaggio in cemento, ed è pure coperto da tettoia, e ha tanto di panchina con nome dei benefattori che hanno fatto questa donazione. Insomma, non manca nulla!
Il cielo si riannuvola e si alza un vento fresco sospetto. Riparto, per evitare che il monsone mi si rovesci sulla testa proprio mentre entro ad Haiphong, che comunque conta oltre due milioni di abitanti e sarà ben incasinata. Intanto mi godo gli ultimi scorci di campagna, che qui davvero rinfranca l'anima.
Come prevedevo, raggiungere il centro di Haiphong si rivela ben impegnativo per il traffico delirante di mezzi che sciamano in ogni direzione. Si tratta del porto commerciale più importante del Vietnam del Nord e del Mar Cinese Meridionale, ed è quindi un centro commerciale e logistico di grande rilievo. Il nome significa "difesa costiera" e, in effetti, sia i francesi sia gli statunitensi bombardarono questo snodo nevralgico nel tentativo di piegarne la resistenza. Senza riuscirci, per altro. Fun fact: Haiphong è gemellata con Livorno.
Raggiungo il centro, dove ho prenotato una camera in un albergo super economico per quel che offre: un appartamento a 10 euro di fronte alla piazza principale. Tutto è nuovissimo e pulitissimo, almeno prima del mio passaggio. La povera receptionist, che si offre pure di aiutarmi, mi vede transitare con scarpe, borse e bici luride, che lasciano una scia di fango come una gigantesca lumaca malata del demonio. Infatti, appena raggiunta la camera, metto in doccia le 4 borse chiuse, le scarpe smontate e le calze, e lavo tutto. La bici, purtroppo, non può ricevere lo stesso trattamento cosmetico, perchè è in un garage sotterraneo. Finalmente mi lavo anch'io, e scopro di essermi ustionata nonostante oggi il sole non sia comparso nemmeno un minuto. E poi sono piena di graffi, di ammaccature, di lividi e doloretti. E granelli di sabbia che sono entrati sottopelle nella pianta dei piedi! Orrore! QUELLA sabbia delle discariche! Passo gran tempo a ripulirmi, e quando esco dai lavacri sono così esausta che mi appisolo per un'oretta.
Riemergo dal coma giusto in tempo per una passeggiatina serale e recuperare qualcosa per cena. Gli edifici principali qui ad Haiphong, che di sera è molto più graziosa con le sue luci colorate, sono di epoca coloniale. Il museo, il teatro dell'opera e la cattedrale sono lasciti dei francesi. Le viuzze un po' inquietanti hanno il loro fascino, nella foschia da umidità, e il lungofiume offre una passeggiata particolarmente piacevole. Tengo a sottolineare che son luoghi dove non si ha mai l'impressione di essere in pericolo: sono in giro da sola, anche in vicoli isolati, con il buio, ma nessuno dà neanche la sensazione di avere cattive intenzioni. Non sguardi, non commenti, non avvicinamenti sospetti o studio dei miei movimenti. E' noto, ma lo ribadisco: sono paesi sicuri anche per viaggiatrici sole.
Tornata in piazza, incappo in uno spettacolo di bambine che cantano e ballano un mix di brani tradizionali e moderni. Hanno un che di k-pop. Sarà il viet-pop, dunque.
Tra le altre cose, stasera, per cena, non riesco a esimermi dal provare uno di questi ravioli giganteschi, un bao di carne e verdure grande come la mia faccia. Chebbuono!
Domani punto a Ninh Binh, o meglio, a Trang An, una sorta di Halong d'acqua dolce, altrettanto spettacolare e unica, più raccolta e con pure siti archeologici nascosti. Ho prenotato un ostello proprio immerso tra foresta e alture, affacciato al fiume. Per arrivarci mi attendono 125km, e una chiatta là dove non ci sono ponti. Ne ho esperienza da Thailandia e Malesia, lo scorso anno... Non vedo l'ora!
2/7
Haiphong-Trang An
128km
Iniziano ad accendersi le piccole luci che decorano gli alberi, qui sul lago, e le montagne intorno si fanno più scure, mentre I fiori di loto giganteschi si chiudono per la notte. Si sentono solo le cicale, frastornanti, e il grido di qualche uccello che non so. L'acqua è immobile e, coperta di foglie com'è, sembra un prato, un tappeto di linfa e petali e ninfee. Nel cielo ancora chiaro, lilla e blu, già la luna sorride a metà. Mi trovo a Trang An, un luogo magico e misterioso, selvaggio, che emana un'energia antica. Il fiume Ngo Dong per millenni ha scavato la roccia calcarea, modellano le colline con fantasia bizzosa, e la pioggia ha fatto il resto: pareti scoscese, grotte, archi naturali e cocuzzoli acuminati si susseguono a perdita d'occhio. Li ricopre una vegetazione grassa, che si prende ogni spazio, anche quello della stradina sterrata che corre sull'argine.
Arrivare qui è stato abbastanza faticoso, ma non difficile.
Questa mattina, dopo poche ore di sonno, due caffè e un gran sudare già solo per montare le borse sulla bici, ho scambiato quattro chiacchiere con il ragazzo alla reception, curioso del mio viaggio. Mi ha fatto i complimenti per aver scelto di visitare Haiphong, elogiandone la bellezza e la bontà dello street food a buon mercato. Ha poi detto che lui si informa su TikTok (e non sei l'unico, caro mio) e che non devo credere alle voci che girano su questa città. “Quali voci?” chiedo. Eh dei gangster, della criminalità organizzata, della violenza, della mafia cinese. Oh buon Dio. Proprio ieri dicevo di come mi sentissi sicura anche nei vicoletti bui. In ogni caso, poi, mi dice che in giornate fresche come questa anche a lui piacerebbe farsi un giro, magari più in moto che in bici… Ma deve lavorare. La “giornata fresca” si rivela, di lì a 10 minuti, un inferno monsonico tropicale violentissimo. Per un paio d'ore si rovesciano secchiate d'acqua devastanti, che allagano completamente le strade. Un po' mi riparo sotto alle tettoie, dove trovo la solidarietà di tanti local zuppi che vogliono farmi sedere o mi chiudono bene le borse e i sacchetti con i ditini premurosi. Un po’ pedalo, perché la tappa di oggi è lunga e non voglio certo arrivare con il buio. Tanto fa comunque caldo, è solo questione di essere asciutti o fradici, e poi ri-asciugare. A volte entro in pozzanghere così profonde che l'acqua mi arriva a metà polpaccio e sembra di fare aquaspinning o come si chiami. Nelle soste, ne approfitto anche per comprare una brugola (e tentare di acquistare una vite). Il fermo del canotto sella si è spanato e viaggio seduta su una mina che può esplodere ovvero abbassarsi e lasciarmi col culo a terra, letteralmente, voglio risolvere al più presto. I commercianti non parlano inglese, e di solito o sorridono e dicono “No no no” o chiamano i figli, bambini o adolescenti, per intendersi, ma loro non hanno voglia proprio per nulla. Tanto più che non ho un bell'aspetto e, dove mi fermo, si crea una pozza come se mi fossi pisciata addosso. Esco da Haiphong che ormai sono allo stato liquido.
Per fortuna a tratti la violenza del temporale lascia un minimo di respiro, e si limita a tuoni poderosi e una pioggerella più affrontabile, che mi permette di capire dove io stia andando. Fuori città, entro in paesi dove è in corso il mercato, e farsi largo tra motorini, caschi di banane e ambulanti, diventa complicato. Per altro, posso confermare senza, purtroppo, ombra di dubbio che qui davvero si mangia la carne di cane. Non ho fotografato nulla perché, per ora, è forte anche per me. Ma sui banchetti dei macellai, sotto alla ventola con nastrino che tiene lontane le mosche, ho chiaramente visto cani scuoiati, e tagliati a tranci, con la testa ancora attaccata. E ne ho visti anche in gabbie che non sono trasportini. Sono come quelle dei polli e delle anatre, dei conigli e dei cuy in Perù. Sono animali da carne. Mi chiedo come ciò non entri in conflitto con la profonda fede buddista tradizionale, ma la risposta poi è facile. La fame. La povertà. D'altronde qui sono abituati a mangiare anche i ratti e han vinto una guerra spiluccando insettini nei cunicoli. In ogni caso, mi auguro che, come accaduto in Corea del Sud di recente, con l'avvento di un benessere più diffuso certi costumi vengano abbandonati. Anche da noi, eh, che la linea che distingue le bestie mangiabili da quelle coccolabili è tutta una bella farsa, una pezza etica.
Da qui in poi, inizia la tappissima vera e propria. Pedalo praticamente senza soste per 120km. Alterno paesini molto curati ad aree rurali dove il cielo si fa a quadretti e la pioggia sembra tornare nelle nuvole riflesse a terra. Ci sono passaggi, più che strade, in cemento, rialzati, che collegano i villaggi ai campi. Nel mezzo, cimiteri. Tantissimi. Ma da dove vengono tutti questi morti? In effetti sono incappata già in una decina di funerali, da quando sono qui. Viene allestito un grande gazebo per gli ospiti fuori dalla casa, ci sono sculture e corone di fiori elaboratissime, musica, a volte portantine addobbate, e gli invitati indossano una fascia bianca sulla fronte.
Pedala e pedala, tra contadini curvi nelle risaie che raccolgono il riso a mano, e sguazzano a piedi nudi nel fango, supero la città di Tinh Binh e corro sull'alzaia fino al traghetto. Alla chiatta. Alla lamiera galleggiante che funge da collegamento, qui dove i ponti son pochi e molto distanti tra loro. Il passaggio per me e la Signorina Felicita costa 5000 dong. 15 centesimi di euro. Il capitano sembra un tagliagole in pensione, ma se la ride quando divento l'attrazione per i due ragazzini in motorino che si imbarcano. Il primo si accende una pallina di quel che sembra oppio, ma è tabacco puro, sulla grossa pipa comune (che è a disposizione dei passeggeri. Ne ho viste di simili fuori dai locali. Sono bastoni di bambù lunghi 50cm, 10cm di diametro e un forellino a tre quarti per appoggiare il tabacco, tipo bong. La chiamano “la sigaretta di Ho Chi Minh” ed è elemento aggregante e di socializzazione).
I ragazzi si sfidano a chi trova il coraggio di venire a salutarmi per prima, e quando vedono che non mordo, è una profusione di selfie, strette di mano e pollicioni in su di approvazione. Di certo non vedono spesso turisti, qui. Turiste, in bici, men che mai!
Una volta sbarcata, proseguo tra alzaie e paesini deliziosi, tranquillissimi, dove ho modo di vedere alcuni scorci di vita dei contadini. Vita semplice, dura, onesta. Tutti mi salutano con una nota di curiosità nella voce, ma bonaria. Ogni tanto appaiono sagome di chiese, lascito coloniale francese, e alcune sono meravigliosamente in rovina, mangiate dalla vegetazione. Sembrano quadri romantici. Ci sono anche numerosi templi confuciani e buddhisti, e le case e le vie sono pulite e dignitosissime, addobbate con lanterne e aquiloni di carta. La gente di qui è educata al rispetto della cosa comune, che è minima e preziosa, è l'unica che hanno.
Anche oggi Komoot mi gioca qualche scherzetto: oltre a farmi passare in strade così dissestate da costringermi a camminare con l'acqua fino a metà polpaccio (chissà quali nuove forma di vita si stanno sviluppando nelle mie scarpe), mi legge come allo stesso livello una strada e il ponte che le passa sopra, e poi mi fa attraversare tre file di binari in un punto nel quale non si potrebbe. Certo i local, a piedi, lo fanno. Ma non hanno una bici da otto quintali che si incastra ovunque, e, nei momenti di emergenza, diventa ancora più inamovibile. Per un attimo penso "Ora passa il treno e succede la classica scena da film dove non si sa se il protagonista è morto, e infatti dopo l'attimo di tensione si scopre che è vivo. Ma qui, passato l'ultimo vagone, si vede un ragù di volpe misto a pezzi di bicicletta". In ogni caso, in quel momento, il treno non passa.
Pedala pedala tra risaie e mucchine, serpi che attraversano la strada e ratti spiaccicati, mi imbatto in un omino che si è impantanato nella sabbia mentre spinge un carretto stracarico di legni di bambù. Gli chiedo se abbia bisogno e lui, minuscolo, con un filo di voce, da dietro alla catasta esala un “help”. Allora tira e spingi, riusciamo nell'opera. Vedi che non sono l'unica a cadere vittima della fangazza assassina! Qui si coltivano anche le arachidi, e se ne trovano a mucchi ad essiccare su teli a bordo strada. Ogni tanto vengono girate e rimescolate, e i contadini sono contentoni di constatare il mio interesse. Anche i bambini dei paesi sono tutti sorrisoni e grandi hello, tra caprette che mangiano i fiori di loto (dimentiche del ritorno, per citare Omero) e canetti estremamente beneducati (sarà che intuiscono la misera fine che rischiano di fare!). A Ninh Binh, ultima città prima dell'arrivo, faccio una sosta per riposare la schiena e mangiare qualcosa. Inizio ad accusare la tappaccia monsonica!
Un gelato cocco e arachidi mi rinfranca al punto che decido di iniziare a godermi alcuni scorci splendidi già ora. Ho previsto una visita pedalata domani, ma è tutto troppo affascinante per non rubare lo sguardo. La sterrata fradicia che porta all'ostello (una casa privata con due camerate da 6, e un ristorante tradizionale a gestione familiare) è davvero spettacolare.
Lungo la stradina mi imbatto in numerose indicazioni di strutture ricettive e "homestay", cioè alloggi in famiglia. L'afflusso sempre più consistente di turisti ha di certo modificato l'economia del luogo, portando mutamenti che, per fortuna, non segnano (per ora) la meraviglia del paesaggio e gli habitat che ospitano un'infinità di uccelli acquatici, anfibi e pesci, per non parlare degli insetti (ci sono proprio zanzaricotteri che attaccano e hanno per colonna sonora la Cavalcata delle Valchirie, come in Apocalypse now).
L'ostello supera di gran lunga le aspettative. Di tutto il personale, solo una signora, probabilmente la proprietaria, parla inglese. Gli altri sanno dire solo "Hello" ma sono di una gentilezza tale da sopperire a qualsiasi incomprensione linguistica. Quando arrivo, usando Google translate, capiscono che dormirò da loro e subito mi prendono la bici per appoggiarla a un muro, mi mettono una sedia sotto al culo e un bicchiere di acqua fresca in mano. Poi arriva la signora e mi dà il letto in camerata, pulitissima e ordinatissima, con tutto l'essenziale, compresi gli armadi di sicurezza utili solo per stipare le cose: "My home is safe" dice-scrive il proprietario, un uomo piccolo piccolo, magro magro, tutto sorriso. Poi mi portano l'Autan e mi invitano a usarlo, cosa che accadrà a più riprese, come fossero genitori premurosi. Ogni volta che mi siedo da qualche parte, compare qualcuno con dei cuscini per farmi stare più comoda. E non vi dico a cena! Mi concedo un piatto di spaghetti di riso con verdure e tofu, in brodo di salsa di soia (eccellentissimo) e una macedonia mista. Qui la frutta tropicale ha il sapore che dovrebbe, e di cui noi non abbiamo idea. Sembrano caramelle. E con quanta cura è preparato tutto?
Dopo la doccia e un minimo di relax e contatti con casa, cenato e scritto, mi butto su un'amaca e penso che qui, a Gigi, piacerebbe tantissimo. Gli scrivo, anche lui è sull'amaca, nel suo cortile, ma lì fa più caldo (incredibile) e non ci sono le lucine sugli alberi, e nemmeno i fiori di loto. Qui intanto il ristorante si popola di turisti (tutti europei, francesi, spagnoli e inglesi) e qualche viaggiatore. Si distinguono subito a occhio le due categorie. Due ragazzi londinesi raccontano di essere stati qui due settimane l'anno scorso e due quest'anno, sempre in questo medesimo luogo, e infatti i bambini, figli e nipoti della proprietaria, si rapportano a loro come fossero cugini grandi: giocano, vogliono stare in braccio, si fanno inseguire e buttare in piscina. Una tedesca ventenne dice di essere in viaggio da 4 mesi nel Sud Est asiatico, e tra un mese andrà in Australia a lavorare; chiede del mio viaggio e con entusiasmo commenta: "I love people travelling in a different way, doing random stuff around the world!". Amore caro, la mia stuff è tutt'altro che random, ma grazie per le good vibes. Una coppietta di giovani francesi vestiti di lino bianco tutti in ghingheri si apparta tra i loti a spaccarsi di canne. Un omino europeo dal buon inglese, di provenienza incerta, spelacchiato e mal tinto, cerca di farsi notare giocando a biliardo e tenta goffi approcci, puntando soprattutto la povera tedesca che viene asciugata per tutta sera. Che animali strani sono gli esseri umani. Com'è vario il mondo. Comunque c'è una bellissima atmosfera. Sono contenta di essere qui, ora.
Domani mi sono ritagliata una tappa di poco superiore ai 100km, in modo da poter sfruttare qualche ora, al mattino, per visitare questo luogo meraviglioso e seguire le anse larghe del fiume che ne è la spina dorsale liquida. Ho cinque giorni di trasferimento verso Hué, antica capitale, e quasi 600km da pedalare prima di fare lì un giorno di sosta e turismo. Rotolo rapida verso sud. Da domani sarò sulla costa, praticamente fino alla fine della mia permanenza qui in Vietnam. Infatti tornerò nell'entroterra per risalire il Mekong, dalla sua foce, ed entrare in Cambogia. Ma c'è tempo, per tutto questo. Ed è un tempo che si prospetta ricchissimo di pura bellezza da conquistare pedalata dopo pedalata.
E dal mio bunker, passo e chiudo.
3/7
Trang An-Nghi Son
120km
Mi sveglio per il rumore scrosciante della pioggia, sono quasi le 8. E' la prima mattina che mi sveglio così tardi. Forse sto metabolizzando il fuso orario, finalmente! Esco e scopro con orrore che i vestiti da bici lasciati fuori per non appestare la camera, pur riparati da una tettoia, sono fradici. Caldissimi, ma zuppi. La bella sorpresa è invece che è prevista una colazione inclusa; me lo dice il proprietario, il dolcissimo signor "Hello", che, da quando ieri sera mi ha vista trafficare con un laptop e due smartphone, pensa che io sia chissà chi, una milionaria pazza che viaggia come i poveri cristi, o che so io. Da ieri infatti la cortesia è diventata proprio deferenza, e mi cerca per continuare a usarmi piccole cortesie e dirmi-scrivermi, tra un hello e l'altro, quanto sia onorato della mia presenza e quanto sia fortunato ad avermi come ospite. Dopo la colazione (lascio il pho, le zuppe, la carne e le uova e opto per frutta con yoghurt e caffè con latte condensato, una specialità tipica vietnamita. Il caffè è amatissimo qui, per quanto introdotto solo dai francesi, e ne esistono tante varietà; come da noi, è fattore di aggregazione sociale) mi ringrazia ancora mille volte, mi chiede di tornare presto e mi abbraccia. Poi vuole accompagnarmi a tutti i costi per i primi metri di strada, insieme alla moglie e ai bambini, e guarda partire come si fa con i familiari. Detto tra noi, ho lasciato una mancia. Cospicua per loro, il 30% in più del conto totale di pasti e stanza, ma ridicola per noi. Avrei dovuto pagare l'equivalente di 9 euro e gliene ho lasciati 12 (perchè avevo quel taglio di banconota). Ci ho pensato parecchio, stanotte. Da un lato voglio riconoscere concretamente la loro cortesia e capacità di far sentire a casa, dall'altro, siccome mi è chiaro che non si comportino così in cerca della mancia, non vorrei "mercificare" un comportamento per sè puro e disinteressato. Però, nel dubbio, tra sbagliare per difetto o per eccesso, meglio la seconda, meglio esser generosi.
Per i primi 20km bighellono lungo il corso del fiume, tra Trang An e Tam Coc. Non ho acquistato tour in barca (ne vedo partire molti e la cosa incredibile è che barchine sono a remi, e i remi mossi con i piedi da signore che intanto si fanno aria con ventagli colorati). Quindi mi godo i panorami dagli argini e incappo ora in piccole pagode, ora in villaggetti di contadini con case in legno su palafitta, ora in grotte abitate da capre e stature del Buddha. Percorro anche l'Heritage Path, una stradella impedalabile per il fango che corre in una gola stretta stretta tra le rocce a picco. Qui i residenti portano avanti le loro attività tradizionali, soprattutto pesca allevamento di bufali e anatre, integrandole con l'accoglienza turistica a basso impatto. Bravi!
Dopo essermi saziata di tutta questa meraviglia (e averla viste e rivista, perchè Komoot mi faceva passare in una zona militare interdetta al transito, quindi ho fatto avanti e indietro la traccia), imbocco una strada di medie dimensioni che mi porta dritta dritta alla meta di oggi, attraversando numerose cittadine. Oggi mi incuriosisce vedere un po' di zone urbanizzate, considerando che i due giorni scorsi ho infilato risaie su risaie e grandi aree rurali.
Questo mi permette di muovermi più rapida, anche perchè oggi non piove e quindi non ci sono pozze grandi come laghi e guadi tra le corsie. Inoltre, ho modo di vedere le cittadine, con i loro ritmi, le loro piazze grandi, le loro bandiere rosse con la stella gialla, da un lato, e falce e martello dall'altro. Mi imbatto in mercati di prodotti alimentari, e ancora mi fa male, ma davvero, vedere come son tenuti gli animali, tutti, compresi i cani destinati al macello, ma pure le oche e le galline, i conigli... Gabbie minuscole, tanta tanta tanta sofferenza. Quando capiremo che esser nati umani e non di altre specie è pura ventura, e, fuori dalla mera necessità di sopravvivenza, procurare dolore ad altri esseri viventi è un peccato mortale nei confronti dell'esistenza?
Tra un pensiero e l'altro, mi capita spesso di essere salutata da chi è fermo a bordo strada, parcheggiato, a vendere, comprare o semplicemente tirar sera sull'amaca, e di essere affiancata da curiosi e curiose in motorino, che danno fondo a tutte le loro reminiscenze di inglese: "Hello! How are you? Whats your name?". Se sono anziani, direttamente in vietnamita. Nessuno manifesta mai comportamenti violenti o intimidatori, anzi, sono di sincero stupore! Alle volte mi imbatto in bici e motorini così carichi da farmi dubitare delle leggi della fisica.
Non mancano poi memoriali dedicati alle guerre, ai caduti e al Partito. In generale, la narrazione è prepotentemente propagandistica. Ma dove non lo è? Da noi? Sicuri?
Siccome la sella mi si sta abbassando sotto alle chiappe e la vite che la regge è troppo spanata per essere stretta, decido di fare un tentativo: mi fermo presso una piccola officina meccanica dove padre e figlio preadolescente stanno trafficando nel motore di un'auto. Con Google traduttore e a gesti, indicando l'oggetto del desiderio, faccio capire il problema. Scopro che in questa lingua difficilissima, che mi sta creando grandiosi problemi anche usando Lens e tutta la tecnologia e la fantasia di cui dispongo, lingua nella quale ci sono pare simillime, che però hanno significati diversissimi in base all'accento, proprio in questo idioma così ostico e inafferabile, vite si dice vìt. Mavaff... Comunque i due si danno subito da fare, e prendendo la mia, che riesco a svitare in qualche maniera, si mettono a frugare in un secchio di plastica pieno di vìt, e, comparandole, pescano fuori quella giusta. Me la avvita il brav'uomo mentre io cerco di ringraziare il ragazzo. Mi accorgo solo dopo che la vìt nuova non ha la testa per la brugola, ma per un cacciavite di dimensione diversa dal mio. Toccherà comprare anche un cacciavìt a stèl. Non vogliono nulla, e a gesti mi fanno capire che son contenti di aver aiutato. Che dir... Grazie!
Pedalando con poche soste per rifornirmi di acqua, dopo aver attraversato innumerevoli fiumi e persino affrontato dei microdislivelli, arrivo a destinazione. O meglio, dopo aver girato intorno al quartiere e chiesto a destra e a manca, trovo l'ingresso al curioso complesso dove alloggerò stanotte.
Premessa: il nome del paese lo ho appena cercato su Google, perchè fino a qualche momento fa non ne avevo idea. Si chiama Nghi Son, al centro dell'omonimo distretto rurale. E' una cittadotta che si sviluppa intorno alla strada, polverosa e umida. A me serviva per spezzare i 230km tra Trang An e Vinh, dove arriverò domani, città di ribelli e rivoluzionari, oltrechè ricca di monumenti storici. Qui Nghi Son c'è un hotel. Un parallelepipedo enorme, di puro cemento, brutalista, sovieticissimo. L'albergo si trova in una corte chiusa da cancello e con guardia 24/7. Ha anche un ristorante molto grande, usato per cerimonie e spettacoli, un bar, e alcuni palazzi di residenti. La cosa incredibile è che è tutto completamente deserto. Quando arrivo non c'è neanche il receptionist. Nel cortile solo alcuni anziani che fanno ginnastica in modo strano, con esercizi di stretching mai visti, e ragazzo con disabilità assistito da un uomo che lo porta in giro sulla carrozzina. Dopo qualche momento, comunque, compare al bancone un giovane premuroso che informa che sono l'unica ospite, e fruga tra i mazzi di chiavi come se stesse pescando alla lotteria. Ne cava una, e me la consegna.
La stanza è grandissima e ha alcuni dettagli gustosissimi. In primis una teiera a caso, senza tè nè altro, degna del Cappellaio Matto, e una cassaforte poderosa, da banca, degna della Banda Bassotti, che forse contiene i segreti di Ho Chi Minh.Unica nota negativa: scopro scendendo a cena che il ristorante è chiuso. Chissà come mai... Se son qui da sola. Quindi mi tocca scarpinare lungo lo stradone in cerca di cibo, e tutti i ristoranti son già chiusi. Sicchè va benone il supermercato, che è anche negozio di giocattoli, vestiti e casalinghi. Desto grande curiosità nei clienti che stanno facendo la spesa, che, dopo una prima occhiata distratta, riguardano per sincerarsi di aver visto bene. Anche i ragazzini che fanno caciara nel parcheggio fuori si interessano del mio transito, in una profusione di "Hello hello!".
La cena consiste di: spaghetti di riso al pollo, piccanti, istantanei. Alghe in fogli essiccate. Pesce essiccato agrodolce. Guava, mela. Pepsi. Una sciura!