sabato 2 agosto 2025

34-36. Il rocambolesco arrivo ad Angkor Wat, pedalando e navigando tra i villaggi galleggianti. La limpida meraviglia dell'alba al tempio


























31/7
Pursat-Battambang
108km

Che giornata, anche oggi! Davvero quando si è in viaggio è impossibile, e quindi inutile, fare previsioni concrete, pensare di possedere il futuro, di afferrarne l'immagine. Che poi è, in generale, segno di hybris e follia. La strada insegna a vivere l'attimo, ad accogliere il fluire delle cose, un giro di pedale dopo l'altro. Bisogna farsi piccoli piccoli per poter abbracciare il mondo.
Dunque, ieri ho passato la serata e parte della notte a leggere informazioni su Angkor Wat e la storia dell'Impero Khmer (sì, figlio di Pdor. Se qualcuno mi ripete ancora una volta la battuta del famoso sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo, mi faccio saltare in aria nella piana dei templi sulle mine non rintracciate dai ratti, cui, a Siem Reap, è dedicato un museo -e campo di addestramento). Cerco inoltre di contattare più volte l'azienda dei barchini su cui dovrei caricarmi all'alba di dopodomani, per sapere il luogo di imbarco, che non è specificato da nessuna parte (cosa sospetta). Siccome sulle recensioni Google leggo che a volte, diciamo, ci sono problemi a riguardo (tipo che si viene lasciati in mezzo alle paludi e si deve camminare per ore con i propri bagagli sulla testa) vorrei saperne di più. Ma non ricevo risposta, nonostante i molti solleciti. Il che mi fa crescere ulteriormente i dubbi. Anche perchè vorrei dormire il più vicino possibile al molo, e finchè non so dove si trovi, non posso neanche stabilire una meta vera e propria, o scegliere una struttura. Certo, la città di riferimento è Battambang. Ma non è un paesino, si sviluppa su entrambe le sponde del fiume e, a naso, comincio ad avere la sensazione che l'imbarco non sia vicino al centro città. Su Maps, infatti, non risulta alcun porticciolo. Tutti questi interrogativi mi disturbano, tanto più che al mattino, fino a un orario ben tardo, la chat di Whatsapp con l'agenzia tace. Non ho pagato nulla ancora, ma se si risolve in una truffa, mi tocca allungare il percorso e spingermi a ridosso dei confini Thai, dove si spara. Non è che sia un'idea particolarmente allettante... Perciò parto con l'idea di pedalare il più rapida possibile, e arrivare a quello che credo sia un ufficetto fisico della compagnia dei barchini, per gestire la cosa di persona. Inoltre, non so perchè, ho la sensazione mi abbiano rubato la bici, che pure era in un locale dell'hotel, legata. Scendo i cinque piani di scale senza ascensore con i millemila kili di borse, ed eccola lì la Signorina Felicita, bella pronta a macinare polvere. Monto su tutto e la signora anziana che bighellona intorno alla reception mi saluta con un laconico "good luck". Ok!

Prima dicevo: arrivare a Battambang il prima possibile... Ecco, io sui pedali spingo. Forte. Ma la bici non procede. C'è già vento, contrario, bastardo. E sono solo le 8.30! Nel corso della giornata solitamente si alza. E oggi mi attendono 108km piatti, dritti, filati così, con Eolo che mi prende a schiaffi in faccia. In più fa già un caldo potente, non oso immaginare quando arriverà mezzogiorno. Eh, vabe'. Pian piano. Di questo passo ci vorranno 8 o 10 ore di fatica ingrata, di schiena curva e muscoli contratti. Una alla volta. E si va.

Anche oggi seguo principalmente la statale 5, ma è più abitata quest'area, ci sono più paesi, per quanto piccini e spersi tra ettari di risaie e marcite. C'è anche un pochino più di traffico, anche se sempre estremamente gestibile e non stressante. E ci sono le pagode bellissime che brillano nell'aria tersa, spazzata dal vento, e i monaci che sfilano per mercati e piazze per la questua del mattino.




questo zebù ha una collanina e pascola tra statue curiose: ratto, gorilla e pennuti... Mah


Nelle cittadine le case sono in muratura e spesso hanno la struttura di quelle occidentali, ma appena fuori, nelle aree di campagna, son tutte palafitte di legno e lamiera. Alcune sono umilissime e anche invase dall'immondizia, tra cui razzola il pollame e giocano i bambini scalzi, altre invece sono tenute con estrema cura.






Un colpo di pedale alla volta, con la schiena piegata e la classica postura del gamberetto, arrivo ai 50km; speravo di raggiungere una città a 57, ma sono senza acqua già da parecchio e sento la forma dei denti sotto alle gengive, e fatico a deglutire. Devo assolutamente fermarmi a bere. Sole e vento, polvere e sudore fanno sì che si sudi tantissimi e ci si disidrati in fretta. E' tutt'altro che uno scherzo, ma per fortuna qui non mancano i negozietti. Nella fattispecie, mi fermo nel primo che individuo. E', penso, un ristorante, dentro a un capannone di lamiera. Le signore inizialmente sono un po' intimorite, perrchè non parlano una parola di inglese e non capiscono cosa io stia chiedendo. Poi indico la montagna di bottigliette d'acqua nel capannone e si aprono in larghi sorrisi. Dicono cose che suonano come "Ah vuoi l'acqua! E dillo subito, no?". Mi fanno la gentilezza di cavarne fuori di fresca da quei contenitori termici che vedo ovunque. Sono cassoni di plastica con dentro un paio di blocchi di ghiaccio, decisamente sottodimensionati, che si sciolgono subito. In breve, sono scatoloni pieni di una guazza schifosa mista di ghiaccio sciolto, resti di cibarie, carne e verdure, bottiglie dal misterioso contenuto mezze aperte e mezze sversate e insetti. So che, mentre travaso l'acqua nelle borracce, quando do un sorso dalla bottiglia, sa di uovo o salsiccia andata a male. Le sciure però, che mi fanno pagare 2 litri 0,15 euro, sono gentilissime. Vanno avanti a sgranare i peperoncini e mi invitano a sedermi con loro. Non vogliono che riparta, mi fanno capire che temono che il vento mi porti via. Ma io devo andare! Devo capire la questione del traghetto!


Riparto e ricevo il messaggio tanto atteso, a proposito di traghetto... Mi viene mandato un link a Google maps con l'indirizzo dell'imbarco. E' un tempio sperduto nelle campagne a nord-est di Battambang, 10km dalla città, nel mezzo del nulla. Mi viene un leggero malore. Ma come possono pensare che io domattina, alle 5, mi metta in sella per raggiungere questa pagoda romita, che per altro si trova accanto a una crocodile farm, e nemmeno affaccia al fiume? Scrivo che vorrei delucidazioni. Mi rispondono che passano a prendermi in hotel. Con un tuktuk. Ma ho la bici! Tranquilla, i nostri autisti sono esperti nell'accroccare. E in effetti in questi giorni ho visto tuktuk portare motorini, legati sul retro, e persino altri tuktuk, fissati sul tetto. Un tuktuk al quadrato. Ok. Mi fido.
Quando arrivo alla città, mi fermo e prenoto un hotel in centro a Battambang, così da mandare l'indirizzo per farmi venire a prendere. Qualche dubbio mi resta, ma pace. Passerò comunque presso l'ufficio, nel pomeriggio, se ci arrivo. Il vento ora ulula, pesta forte, fa scricchiolare le lamiere del negozietto dove mi fermo. Faccio un video dove svelo un gran trucco da cicloviaggiatori navigati, per spiegare come capire dove tira il vento. La risposta è: nella direzione contraria a quella che devi seguire tu. Sempre e comunque. Lo dimostrano i rami delle piante, qui, che frustano l'aria, e le belle bandiere cambogiane tese tese verso sud. Io ovviamente sto andando a nord. Mi faccio una mappa mentale delle ulteriori stazioni di servizio tra qui e l'arrivo, in modo da spezzare i 50km che mancano in frazioni più gestibili, mentalmente, e per i rifornimenti di acqua. Ce n'è una tra 19km, una dopo altri 18, e poi mancheranno poco più di 10km e in periferia si trova tutto.


ciuffi al vento

Quando riparto, la situazione è meno tragica del previsto: il vento ha girato di qualche grado, la strada anche, e quindi non è più dritto contro, ma leggermente laterale. Sembra una sciocchezza, ma sulle lunghe fa una gran differenza! Anche perchè ho fatto un errore madornale, nella sosta: ho bevuto, senza rendermene del tutto conto, un energy drink local, che contiene la quantità di caffeina sufficiente per far correre una maratona a un ippopotamo, e poi farlo collassare con il cuore esploso. Se si aggiunge che, rispetto a casa, sto assumendo da un mese pochissima caffeina, e che quindi mi sono quasi "disintossicata", immaginatevi l'effetto. Ora che ci penso, forse il vento è rimasto contrario, mi sono solo drogata io.

Intorno si apre una placida campagna tutta stagni, canali e campi coltivati, o pratoni dove pascolano zebu e bufali d'acqua. All'altezza dei paesi, templi, e scuole da cui sciamano orde di bambini e ragazzini in divisa, tutti sorridenti e salutanti. Confermo l'impressione dei giorni scorsi: spesso scuola e tempio sorgono nello stesso spazio, sono un'unica entità concettuale. Si prega e si studia. Si nutre lo spirito. Mi piace vedere la vita quotidiana anche dei monacelli, che stendono le loro tuniche al sole, dopo averle lavate, ramazzano a terra per pulire i cortili da foglie secche e terra. Chissà com'è, qui, fare quella vita lì.









Vista la buona lena con cui sto pedalando, salto la prima sosta dei 19km e mi porto a quella a 10 dall'arrivo. Mi fermo principalmente perchè, proprio mentre passo accanto alla stazione di servizio, inizia a gocciolare, e davanti a me si staglia un muro nero di temporale. Che goduria di tempismo! Mi fermo senza essermi bagnata, compro una bella boccia di aloe e miele, me la gusto sotto all'ampia tettoia, mentre diluvia, e mezz'ora dopo riparto con il pieno sole, che ha fatto già quasi evaporare tutte le pozzanghere. 



Così entro a Battambang, che significa luogo in cui si è persa la mazza. Aspettate. Non quella mazza. Quella del re khmer Dambang Krenhung, che avrebbe scagliato la sua arma da Angkor a qui, per non trovarla più. E vedrai, son 170km! A ricordare la leggenda del toponimo, all'ingresso della città si trova una statua del re che desta stupore persino nei monaci.


Questa regione estremamente fertile, chiamata "la ciotola di riso della Cambogia" grazie al fiume Sangker, è una delle prime del Paese ad essere state abitate. Ci sono evidenze di villaggi del 6000 a.C. Poi fu centro di poter Chenla, conquistato inevitabilmente dagli khmer. Con il loro declino, l'area diventa zona cuscinetto tra i regni siamese e vietnamita, gestita da nobiltà locale, fino a quando Rama I, re fondatore dell'attuale dinastia thailandese, chiese formalmente e ottenne l'annessione di Battambang e Siem Reap in cambio della liberazione del re khmer Oudong. Dal 1794 al 1907 il territorio resta parte del Siam. Nel frattempo il re senza corona cambogiano si rifugia qui e cede ai francesi il suo Paese in cambio del titolo. Durante la Seconda Guerra mondiale viene occupata di nuovo dai Thai, alleati dei giapponesi in funzione anti-inglese e anti-francese, poi liberata, colonia francese, e dal '53 annessa al regno di Cambogia. Un casino! Per non parlare degli scontro durante le Guerre di Indocina, e delle spietate purghe attuate dagli Khmer rossi, con tanto di campo di sterminio, deportazioni e vaste zone imbottite di mine. Questa era proprio un loro caposaldo. Per fortuna un plenipotenziario locale ignorò gli ordini e non distrusse i templi, che infatti qui sono intatti e antichi, anche in centro.






Per il resto la città ha un fascino un po' trasandato e polveroso, con mercatini lungo il fiume, antichi edifici coloniali, la sede del (a quanto pare famosissimo) circo cambogiano  Phare Ponleu, che testimonia l'anima tradizionalmente artistica e creativa di Battambang.





Dopo una breve visita del centro e del mercato coperto, mi reco finalmente alla fantomatica sede dell'agenzia. Qui una ragazza gentilissima mi rassicura su tutto, e mi fa mille domande: ma sai ripararti da sola la bici? Ma quel tatuaggio sak yant da dove arriva? Ti ha fatto male? Che lavoro fai per poter viaggiare così a lungo? E via discorrendo, in un crescere di ammirazione e curiosità. Che cuora! Molto rasserenata dalle risposte che ho ricevuto, percorro l'ultimo kilometro e raggiungo l'albergo, una vecchia struttura, un tempo di gran lusso, sopravvissuta agli khmer rossi e persino alla tragedia per il turismo che è stata il Covid (qui in Cambogia, per l'economia, è stato un disastro con la D maiuscola). Entro, faccio per prendere la camera e... Mi intercetta lui. Il nome non saprei ripeterlo, purtroppo: lungo e molto khmer.


Mi parla in un ottimo inglese e mi dice che suo papà, quando lui era piccolo, gli lasciava lo smartphone e lui guardava solo video in inglese, quindi lo ha imparato. Ergo, i suoi, vedendo che se la cavava, lo hanno iscritto anche alla scuola inglese. Al mattino, dalle 7 alle 12, va alla scuola cambogiana, poi fa un'ora extra di compiti, poi, al pomeriggio, english school. Gli dico che sicuramente è dura e si deve impegnare molto, ma per il suo futuro è importante e, quando sarà grande, sarà soddisfatto del suo percorso. "Eh ma devo fare un sacco di compiti!". Gli racconto che sono una prof, e lui lo dice a sua mamma, che scopro essere la signora seduta sulla panchetta di legno con la divisa dello staff dell'hotel. Fa le pulizie lì, e lui passa molte ore nella hall perchè lei non ha tempo di portarlo a casa. La madre è curiosa di sapere quanti anni io abbia, se abbia figli, e il ragazzino traduce quesiti e risposte. Devo sembrare proprio strana ai loro occhi, ma non danno mai l'idea di esser giudicanti, anzi, sono proprio genuinamente interessati. Chiedo al giovanotto cosa voglia fare da grande, e lui mi risponde: l'artista, in particolare il pittore. Mi dice anche che suo papà vorrebbe che studiasse pure il cinese, e quindi forse gli toccherà pure quello. "Ma a me piace disegnare!". Che cuore, spero davvero possa realizzare la vita che desidera. Si fa scrivere il mio nome su un foglio perchè la madre vuole chiedermi l'amicizia su Facebook, e perchè no! Però, chiedo scusa a entrambi, ora devo proprio andarmi a fare una doccia. Ci salutiamo, e finalmente salgo in camera.


Prima di cena faccio una cosa importantissima: il pass per il complesso archeologico di Angkor: ne esistono da 1, 3 e 7 giorni, anche non continuativi. Per me va benone il secondo, così che io possa sfruttare appieno i due giorni e mezzo di sosta a Siem Reap, la città moderna sorta a 10km dal sito. Il pass è costoso, ma è giusto che la Cambogia guadagni qualcosa dal turismo che il suo patrimonio storico richiama, tanto più che ora è sotto l'egida dell'Unesco. Inoltre ho letto che una parte dell'introito va direttamente a un ospedale pediatrico e per donne incinte, dove si prestano cure gratuite ai meno abbienti. A propos, mi è capitato, in questi giorni, di vedere in giro in moto, come passeggere, persone con la flebo attaccata, per altro avvolta in sacchettacci di plastica neri simili a quelli dell'immondizia. Segnalo evidente che la sanità non è gratuita per i cambogiani, e che i problemi non mancano.
In tema di Siem Reap: mi scrive da numero sconosciuto l'autista del tuktuk che verrà a prendermi domattina per portarmi al luogo segreto dell'imbarco. Mi aspetta in strada alle 6.30. Meglio andare a dormire!

1/8
Battambang-Siem Reap-Angkor-Siem Reap
10km remork+130km barca+30km bici+20km tuktuk (eh già, e non parliamo dei 5km a piedi!)

Questa sono io alle 7.20, in attesa già da un'ora, nella hall, dell'autista che dovrebbe passarmi a prendere. La barca parte alle 7.30 a 10km da lì. Non posso immaginare che questa sia una delle giornate più avventurose e assurde del viaggio. Finora, almeno.


Dopo una serie di messaggi senza risposta, sia al driver sia all'agenzia, con annessa ansia che mi abbiano dimenticata lì, finalmente ricevo un cenno: "Scusa siamo un po' in ritardo ho dato l'indirizzo sbagliato all'autista". Sono le 7.30. Ma la barca ci aspetta? "Sì". E in effetti di lì a poco arriva un ragazzo trafelato che parcheggia moto e remork (il cassone trainato dai motorini) quasi dentro all'hotel. Ma ci starà lì la bici? Sì sì la carichiamo di traverso. Peccato che ci siano un altro passeggero, con bagagli, e le mie 4 borse. E il cappello vietnamita, che ha il suo ingombro. Siccome il tetris non riesce (ma dai?!), l'autista si rassegna a cavar fuori da sotto al sedile le corde, e appende la Signorina Felicita come un prosciutto sul restro. La quantità di cose che possono andare storte è infinita. Anche perchè andiamo di corsa su strade tutte scassate di buche e ghiaia, nel traffico dei mercati di Battambang, passando rasente a bancarelle e carretti. Ad ogni sobbalzo mi aspetto di sentire il tonfo della bici che casca a terra, ad ogni manovra azzardata di vederla smembrata e in frantumi.




L'altro passeggero sembra divertito dalla situazione. Si presenta come Craig, australiano, anzi, tasmano. Si stupisce del fatto che io conosca la sua isola, e vorrei dirgli che tutto deriva dal cartone animato Taz, il Diavolo della Tasmania, ma non vorrei deluderlo. Mi chiede che viaggio stia facendo, cosa faccia nella vita. Lui si limita a dirmi che è in pensione, e che, da quando non lavora più, per lui non esiste più l'inverno: passa sempre diversi mesi in Giappone, vicino a Nara, dove ha un puntello per una casetta, e poi ne approfitta per girarsi il Sud Est asiatico con voli economici. Aggiunge che anche lui ha fatto dei viaggi in bici: l'Australia, il Giappone... Ora la sua bici è là, nel Paese del Sol Levante, ad attenderlo. E' munito di binocolo al collo, e non so se è per vedere poi la fauna del fiume o per sbirciare le signorine dietro alle finestre. Fatto è che, dopo una serie di sentieri sterrati in mezzo alla giungla, arriviamo all'imbarco sul Sangker, immissario del Tonle Sap, il lagone al centro della Cambogia. La barca è veramente una bagnarola stracarica di merce: sacchi di ananas, di carne, di verdure, di farina e riso, scatoloni pieni di tessuti e sportine da cui escono le zampe di polli stecchiti. Aggiungiamo i bagagli (la bici finisce sul tetto), noi stessi, e siamo pronti a partire.





Già appollaiate sulle sedioline di plastica sottile scomodissime (spoiler: ci passeremo più di 8 ore) ci sono due signore sui 50, occidentali. Chiedo loro scusa per il ritardo, spiegando le ragioni. In inglese, ovviamente. E mi rispondo, in inglese, di non preoccuparmi. Poi le sento parlare tra loro... In italiano! Assurdo. Sono una coppia, Sabina e Giovanna e di Forlì e Ravenna. Solitamente non amo stare con i connazionali, quando sono in viaggio... Ma in questo caso la loro presenza un po' mi solleva. Loro stanno facendo le classiche due settimane tra Singapore, Bangkok e Angkor Wat, ma volevano aggiungere un pizzico di avventura e quindi hanno preso questa deviazione via fiume per vedere i villaggi galleggianti. Quando si avvia il motore, il rumore assordante impedisce di parlare, anche se siamo sedute a 50cm di distanza. Sarà lunga.







chiatta tra le due sponde, spinta a remi, carica di motorini

scuola con bimbi che escono a salutare


chiatta mossa a mano tirando la barca lungo un cavo teso tra le due sponde





palafitte

case-barche











Come avrete intuito da questa prima carrellata di immagini, la barca si muove lenta come lenta è la vita, fiume, e lenta è la corrente, ma non c'è da annoiarsi affatto. Oltre alla bellezza del paesaggio fluviale per sè, è come essere immersi in un documentario sul mondo parallelo della gente del fiume. Qui non ci sono strade, i paesi non sono collegati tra loro via terra. Le case sono palafitte o vere e proprie imbarcazioni, o costruite su barili di plastica che permettono di galleggiare. Ogni spostamento avviene sull'acqua. Subito dietro alle abitazioni ci sono dei campi, in questa stagione parzialmente allagati, e poi marcite e paludi e altri laghi e canali a perdita d'occhio. Si vive di ciò che il fiume offre, il resto a acquistato da fuori, e arriva a bordo di barchini come quello dove mi trovo, una volta ogni tanto, quando c'è transito. Vediamo passare tantissime microbarche (sembrano kayak, ma hanno il motore con un braccio lungo lungo) guidate da ragazzini, con sopra magari solo bambini diretti a scuola. Tanti sono i pescatori, ovviamente, e coloro che vanno a raccogliere le canne e i fiori di loto. Chi non ha motore, spinge con una pertica o rema dalla prua. Passando vediamo lo svolgersi della quotidianità delle persone che vivono qui: ci sono signore che sbucciano verdure o grigliano pesce, sulle verande, bimbe che si lavano i denti acquattate sulle barche, giovani mamme che fanno dondolare amache con dentro i figli, mentre stendono in panni o ramazzano l'uscio. Ci sono ragazzi che vanno al lavoro e altri che sono a scuola, e si affacciano, corrono fuori a salutarci sorridendo e gridando. Anche i bambini, dalle case, ci salutano, spesso con ancora un dente sì e uno o no. Tanti giocano a tuffarsi, tra fratelli, o con cani natanti, e son nudi e per nulla preoccupati di non possedere un costume da bagno. 


una scuola



Facciamo una sosta (prima e unica -la barca non ha un bagno) presso IL negozio dell'unico villaggio galleggiante abbastanza grande da avere anche una scuola. Dico IL negozio perchè è l'unico luogo dove si possa effettivamente acquistare qualcosa che non venga direttamente dal fiume o dal campo; perciò è fornitissimo e ha di tutto un po', dai biscotti confezionati ai noodles istantanei, dai cavetti usb ai vestiti, dagli attrezzi da pesca alle bibite in lattina, dalla miscela per i motori alla frutta. Naturalmente è anche ristorante, bar e sala riunioni. Noi attracchiamo e stiamo fermi il tempo necessario per scaricare una buona parte della merce che ci portiamo appresso. Oggi è giorni di magazzino!


miscela per i motori con imbuto del caso




il villaggio




Quando ripartiamo, e non siamo nemmeno a metà del tragitto, il motore della barca comincia a fare i capricci, e il povero capitano, rimasto solo con noi passeggeri (l'altro ragazzo è sceso al villaggio ed è andato via su una piroga guidata da un'anziana con cappello vietnamita), cerca più volte di ripararlo. Il motore si spegne, lui corre dietro, traffica con nastro adesivo e pezze unte d'olio. Intanto la barca si arena contro le sponde, coperte di vegetazione che fanno sembrare terraferma ciò che, in realtà, è ancora acqua. Allora prende una pertica di bambù, la usa per spingere lo scafo in mezzo al fiume, fa per accendere, non si accende, corre di nuovo dietro e via così, a più riprese. In qualche maniera, comunque, riusciamo a proseguire. Ogni tanto mi appisolo, sia per il caldo, che ora è atroce e gonfio di umidità, sia per il rumore, che mi manda il cervello in stand-by. Si susseguono villaggi galleggianti con le loro grandi reti da calare nella corrente.




Quasi in ciascuno, il capitano fa una telefonata e in un attimo veniamo raggiunti da qualcuno che viene a ritirare merce. A volte solo un sacco di riso, altre volte la spesa alimentare e non di un intera comunità.









A un certo punto lasciamo il Sangker ed entriamo nella riserva avifaunistica del lago Tonle Sap. Qui ci si sposta tra canali stretti e di acqua bassa, completamente coperti ci vegetazione. Il capitano, oltre a dover riparare i guasti del motore, ora deve anche spesso fermarsi a liberarlo dalle piante frullate. E' uno spettacolo incredibile muoversi su questa distesa di verde. Sembra di volare su un immenso pratone morbido.





A un certo punto il motore comincia a spegnersi ogni pochi minuti, e il capitano si trova visibilmente in difficoltà nel gestire i continui guasti. L'ultimo lo costringe a recuperare la cassetta degli attrezzi, e a trafficare per mezzora. Capiamo che la situazione è seria. Siamo a più di 30km dall'arrivo, e qui di strade non ce ne sono. Non si può "proseguire a piedi". Il nostro fa diverse telefonate, probabilmente chiedendo che gli mandino qualcuno in supporto o a tranare. Evidentemente, riceve solo risposte negative. E così ci fa capire che niente, non possiamo proseguire, al primo punto connesso alla terraferma deve fermarsi e farci scendere. Oh no. Ma no davvero! Dove siamo qui? C'è una strada? Come faccio ad arrivare a destinazione, con bici e bagagli, considerando che siamo in mezzo a un lago, circondato per kilometri da acquitrini, paludi e terre sommerse dalle piogge stagionali? Ovviamente anche gli altri sono preoccupati. Arriverà una macchina, prima o poi.




Attracchiamo in un porticciolo improvvisato. La prima buona notizia è che c'è una strada effettivamente definibile tale. Non so dove porti, non so dove siamo. Non c'è rete e posso solo usare Maps offline, intuendo la posizione e la direzione da tenere. Ho due opzioni. O aspettare un quantitativo di tempo indefinito, che arrivi un mezzo di trasporto diretto alla città, che carichi 4 persone, tutti i bagagli e la bici, oppure mettermi in sella e pedalare. Sono le 15 passate, se aspetto di certo non potrò vedere il tramonti sui templi di Angkor. Se invece pedalo, dovrebbero essere 30km circa, un paio d'ore al massimo. La strada è una sola, per un po' non posso sbagliare. Decido così di andare. Saluto i compagni di sventura, rimonto i bagagli sotto l'attento sguardo del comitato di accoglienza e inizio a pedalare nella polvere. Ce ne è così tanta, e l'umidità e il caldo sono tali che l'aria è densa e quasi non ci si vede, come ci fosse nebbia. Poi il fiume finisce, iniziano dei tratti di giungla, e poi qualche casa, e infine i campi e la strada. Ci siamo. Torna anche la connessione a internet, e posso seguire le indicazioni verso l'albergo. Che sollievo!




Facendo lo slalom tra i cani randagi, che però si limitano ad abbaiare, e le orde di studenti che tornano a casa in bici e motorino, percorro i restanti kilometri con una leggerezza infinita, anche la sete mi azzanna alla gola (ho bevuto tutto il bevibile e prima di trovare un negozio devo quasi arrivare in città). Eccomi finalmente in albergo. Fradicia, impolverata, disfatta, ma a destinazione. Mentre faccio check in mi portano un bicchiere di te freddo e una salviettina umida freschissima. Madonna che benedizione! Lego la bici insieme a quelle che la struttura noleggia, accanto alla piscina (che mi invita, ma ora ho una missione più importante, vedere il tramonto sui templi!), lascio i bagagli in stanza, metto la testa sotto l'acqua fredda, indosso i pantaloni bracaloni lunghi (non si può entrare nel sito con le ginocchia scoperte) e sono di nuovo in strada.



Tuktuk con Grab per volare allo Phnom Bakheng, il punto migliore per godersi l'occaso perchè affaccia ad ovest e permette di vedere il sole calare sul lago e sulla giungla. L'autista fa una corsa da cacarsi sotto, con manovre allucinanti, sorpassi azzardatissimi e sgasate da paura. Dice che altrimenti non faccio in tempo. Che ansia!


Il pilota mi fa uno sconto e mi dice che mi aspetta lì per il ritorno. Ok. Intanto devo salire in cima al tempio, che naturalmente si trova abbarbicato in cima a una collina coperta di fittissima vegetazione, dove si sentono urlare le scimmie. Sembra già di essere sul set di un film.






Non sono certo l'unica ad aver avuto questa idea, ma non ci sono quelle folle oceaniche che si trovano in alta stagione (la stagione secca). In quei mesi l'accesso qui viene chiuso un'ora prima del tramonto. Ora sì, c'è gente, ma non troppa da disturbare. L'ultima scalinata mi ammazza. Sono veramente bollita, del gatto. Sarà il caldo allucinante, sarà che non ho mangiato, che ho bevuto troppo poco rispetto a quanto abbia sudato, sarà l'adrenalina... Fatto è che, una volta in cima, mi siedo e ho la sensazione di non potermi più muovere da lì. Mi sto forse trasformando anch'io in una delle molte statue che ornano questo meraviglioso complesso sacro?





a 1,5km si erge l'Angkor Wat. Ciao! Ci vediamo bene domattina all'alba!







Mentre si aspetta che il sole si abbassi fino a sfiorare il tappetto verdissimo di giungla, che emana una foschia dorata, le pietre si indorano di luce dorata e le incisioni si animano di ombre lunghe e mutevoli, e pare danzino, si muovano tra una colonna e l'altra, o scivolino sinuose tra i blocchi squadrati. Questo tempio risale al IX secolo ed è dedicato a Shiva, anche se, per un lungo periodo, è stato trasformato in luogo di culto del Buddha (i templi di Angkor sono stati hindu, poi buddhisti, poi hindu e buddhisti di varie confessioni, a seconda della fede imposta dai sovrani del momento). E' un cosiddetto tempio-montagna, perchè, oltre a trovarsi in cima a una collina, è forma di piramide con 7 livelli (i 7 paradisi), e simboleggia il Monte Meru, patria degli dei induisti. In cima ci sono 5 santuari (uno al centro, quattro agli angoli) e i resti di 108 colonne. I numeri non sono (mai) casuali, ma sono legati alla durata delle fasi lunari, dell'anno solare e del numero di divinità che popolano il Monte Meru. Non solo questo tempio è una rappresentazione del cosmo, ma è pure un calendario astronomico in blocchi di pietra. Infatti, precede di due secoli l'Angkor Wat e probabilmente era il tempio principale della capitale, prima che gli venisse sottratto il primato.
Il luogo è diventato famoso anche perchè qui è stata girata una scena del film di Tom Raider. Che comunque rimane un discreto riferimento.












Quando il sole sparisce completamente dietro all'orizzonte e il crepuscolo ruba luce e porta la sera, nell'aria che un poco rinfresca, scendo tra gli alberi fitti e i suoni della giungla che ora si sentono più distinti. Uccelli, scimmie, un ronzio sordo che avvolge tutto, richiami che non riconosco, strilli  e versi misteriosi. All'uscita le guardie del sito intimano di andare, sta facendo buio.



Disfatta ma estremamente soddisfatta (non ho ancora realizzato dove sia giunta! La consapevolezza e la gioia saliranno di pari passo nelle ore successive, placati i bisogni fondamentali) riprendo il tuktuk e torno in città. Mi faccio lasciare nella zona del mercato notturno e delle vie dei pub e dei ristoranti, molto animate, per recuperare una cena e non dover poi uscire di nuovo (non ne avrei la forza).



Prendo da asporto dei gustosissimi involtini di carta di riso, patate dolci bollite e una tonnellata di frutta. Nulla scampa e anzi, ci aggiungo poi un noodle istantaneo volante e un gelato. Ora sì, anche dopo la doccia, va meglio.



Sento la prepotente necessità di dormire, anche perchè domattina, ovvero tra poche ore, andrò a vedere l'alba ad Angkor Wat. Il che significa partire alle... 4.30. Ma sono sicurissima che ne varrà la pena. Sono davvero nell'ombelico del viaggio, nel suo centro esatto in termini di tempo, kilometri e fulcro di meraviglia assoluta. Ma ci rendiamo conto? Sono arrivata ai templi di Angkor! E' stata lunga e a tratti complicata ma... Eccoci qua a godere della bellezza.
Oltretutto è già agosto... Incredibile, sono già in viaggio da oltre un mese.

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Siem Reap-Templi di Angkor-Siem Reap

Alle 4 suona la sveglia. Alle 4.20 sono nella hall, con in mano un sacchettino che contiene due fette di pane, una noce di burro, una di marmellata e due uova sode (è la colazione take away per chi va via prima delle 7, quando apre la cucina dell'albergo). L'acqua la porto io. alle 4.30 sono su un piccolo autobus cigolante diretto ad Angkor Wat. Fuori è buio ancora, e si vedono chiaramente le stelle e la luna ancora chiare in cielo. Ammiccano. Fa già caldo. Oggi supererà abbondantemente i 40 gradi, che, con l'umidità di qui, significa davvero bollire a fuoco lento. La guida si presenta come John, anche se direi che è nome di fantasia. E' un omino sui 50 con la faccia da professore di filosofia, e infatti ci dice che in periodo Covid, quando il turismo era fermo, ha fatto l'insegnante. E anche il babysitter. Fa volontariato nei villaggi per invogliare i bambini delle famiglie più umili a non lasciare gli studi. Dice che così si sente di restituire un po' della fortuna che ha ricevuto: lui viene da una famiglia povera, di contadini senza terra, e ha studiato in pagoda come monaco. Poi si è specializzato in storia, filosofia e politica. E quindi ora fa una vita comoda, anche se dorme poco. Ma gli piace questo lavoro, si sente fortunato e orgoglioso del suo percorso. Alcuni devono comprare i biglietti, e scendono al centro del sito archeologico. Io mi guardo intorno, c'è un gran silenzio, anche se gli autisti di tuktuk già sono in postazione. Sono onestamente molto assonnata e mi chiedo se questa levataccia valga la pena.




La risposta è: SI'. Senza dubbi, senza remore, senza neanche doverci pensare un minuto.




Ma lo avete visto il cielo esattamente diviso in due, mezzo azzurro mezzo Eos dalle dita di rosa? E quella sagoma inconfondibile, con le torri a forma di bocciolo di loto, che da giorni mi osservano dalla bandiera cambogiana esposta ovunque?


Non è qui mia intenzione scrivere un compendio enciclopedico sul complesso di Angkor, perchè sarebbe come voler scrivere in breve la storia della Roma medievale. Non si può. Mi limiterò a qualche informazione di base, che mi ha permesso di capire l'importanza storica e culturale di questo luogo. Per il resto, parleranno le immagini e, i più curiosi, possono reperire tutto il materiale del mondo online e su carta. Mi siedo qui su un tempietto antistante per dirvi due cose.




Angkor Wat significa tempio della città, ovvero della capitale dell'impero khmer, che all'epoca si chiamava Yasodharapura. Quale epoca? Il XII secolo d.C. La costruzione fu ordinata dal re Suryavarman II (1113-1150), mentre in Europa si dirimeva la lotta per le investiture, partiva una crociata e di lì a poco sarebbe stato incoronato imperatore il Barbarossa. Il tempio fu costruito in soli 40 anni, per terminare poco dopo la morte del sovrano. Era induista, ma non dedicato a Shiva, come tutti gli altri templi voluti dai suoi predecessori, bensì a Visnu. Di lì a 50 anni, comunque, sarebbe stato trasformato in tempio buddista e riempito di statue di Siddharta. E' la struttura religiosa più grande al mondo, e, dalla sua costruzione, non ha mai smesso di essere un luogo di culto di primaria importanza, pur con alti (l'impero khmer, di cui rappresenta il più alto esempio di stile classico) e bassi (dal XVI secolo iniziò a essere trascurato, ma i fossati intorno lo protessero dall'avanzare della giungla). Era noto a mercanti e pellegrini cinesi e giapponesi. Un missionario portoghese, a metà Cinquecento, lo vide e ne rimase meravigliato, ma a studiarlo, iniziare a renderlo noto al mondo e conservarlo furono poi i francesi in epoca coloniale. A proposito, è interessante notare come Angkor Wat sia simbolo della nazione e motivo di orgoglio di un intero popolo, ma non fosse stato per Parigi, prima, e per gli altri stati che hanno finanziato i restauri, oggi probabilmente sarebbero quattro sassi impilati male e coperti di fango. Notevole anche il fatto che in tutta l'area non sia rimasta una mezza traccia di abitazioni, strumenti di lavoro o vita quotidiana... In materiali deperibili, sì, e soprattutto riutilizzabili, saccheggiati dalla gente del posto, come pure le statue e gli oggetti di pregio depredati fino agli anni Novanta del secolo scorso. Certo la gente crepava di fame e non è facile giudicare. Tuttavia, diciamo che il fatto che oggi il sito sia sotto il controllo dell'Unesco è buona cosa.


Strutturalmente, riassume le due caratteristiche principali dell'architettura classica cambogiana: la struttura a tempio-montagna, che richiama il Monte Meru con le sue 5 vette (5 torri), sede degli dei induisti, e quella del tempio a galleria, successiva (3 ordini di portico, tutti scolpiti con divinità danzanti e scene dei testi sacri induisti). E sapete perchè è così bello da vedere all'alba? Perchè, a differenza degli altri templi di qui, è orientato a ovest. Perchè probabilmente è un mausoleo. E' così bello da vedere quando nasce il giorno, perchè è uno scrigno di morte.






La guida dice che si tratta di un t-rex, ma suo nonno insisteva nel dirgli che era una tigre. Compare nei fregi del primo portico



Saliti al primo livello, dopo il portico con i fregi, si accede a un cortile che conserva antiche biblioteche e luoghi di meditazione. Le scale sono divise perchè in base alla casta si accedeva da un ingresso o dall'altro. Pare che i blocchi di pietra siano stati trasportati con gli elefanti, e così vi accedeva il re (anche i turisti, fino al periodo pre-Covid), a dorso di pachiderma. Nulla è lasciato al caso: il numero di gradini, il numero di colonne, di fregi, di sacrari, hanno una corrispondenza esatta nella visione del cosmo indù, che viene ricreato qui in forma di tempio. 
















I fregi, le sculture e le decorazioni sono tutte perfettamente integrate con l'architettura, e raccontano le storie dei poemi epici indiani, con ballerine celesti, animali mitologici, divinità, eserciti e mostri. Sono migliaia di metri quadri di opere, tutte realizzate in modo unico e con dettagli differenti (ad esempio le acconciature delle divinità femminili), e non in serie.





Dopo il Covid, il turismo è tornato con numeri da capogiro: fino a 3 milioni di visitatori l'anno. Questo porta ricchezza, ovviamente, soprattutto alla società privata che gestisce il sito per conto del governo, e che reinveste solo il 28% degli introiti in manutenzione e restauro. Il resto viene da capitali stranieri da tutto il mondo. Con affluenze così importanti, è inevitabile, si sono anche creati numerosi problemi legati all'urbanizzazione selvaggia, alla gestione dei rifiuti (che qui è davvero un problema) e della falda acquifera, delle fognature... Insomma, come sempre luci e ombre. 



Dopo aver visitato l'Angkor Wat, ci viene lasciato un momento libero per bere un caffè o mangiare qualcosa presso un baretto appena fuori dal tempio, dove veniamo presi d'assalto da bambini scalzi e macilenti che vendono ninnoli. La guida ci ribadisce quel che già so: non comprare da loro, non incentivare le famiglie a mandare i bimbi a fare questo lavoro, piuttosto che a scuola. Anche questo fa parte del problema di cui parlavo prima.



Dopo una sosta rigenerante, ci spostiamo al Ta Phrom, detto Tempio della giungla. Il perchè si capisce subito. E' forse il sito più spettacolare, quello che mi ha colpita maggiormente. A parte il fatto che vi si accede camminando tra alberi maestosi e liane e rami altissimi, all'ombra dei quali suonano i reduci mutilati dalle mine antiuomo (qui era zona pericolosissima dopo le guerre di Indocina e quella civile, tanto che vi è il centro dei ratti giganti sminatori, di cui uno insignito di medaglie per l'encomiabile lavoro svolto). Ma quel che trova in questo luogo è di una bellezza indicibile. Una commistione perfetta tra arte e natura, un intrico di sculture e radici, torri e fronde, bassorilievi e liane. Convivono il senso altissimo dell'arte più pura, quella che guarda al cielo, e la sensazione di decadimento, di mementhomo, di ritorno alla terra, di disfacimento che però riporta alla vita antica, quella vegetale, di corteccia e linfa.

















Era un monastero buddista e centro universitario, costruito tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo da re Jayavarman III, che ci ha cacciato dentro da venerare la statua della madre, del fratello maggiore e del maestro. Una stele spiega che all'interno vivevano 12.000 persone, altre 80.000 nei villaggi intorno. Perchè ricordate che, se pure non sono rimaste tracce materiali delle abitazioni e dei luoghi di lavoro, questi santuari sorgevano in una città capitale di un vasto impero. Pare fosse il centro più popoloso di età pre-industriale! Il tempio ammassò grandi ricchezze, portate dai pellegrini e dai fedeli (c'era anche un ostello per accoglierli), ma ovviamente non è rimasto nulla. A salvare il sito dal totale furono i francesi, attratti dal gusto particolarmente pittoresco del luogo.













il famoso albero-culo


uno stegosauro?







Ammiriamo a lungo, a bocca aperta (anche se la quantità di pipistrelli cagoni e insetti enormi, in primis ragni, in cui incappiamo, lo sconsiglierebbe), questa incredibile meraviglia, che mi fa pensare al testo della canzone di Guccini, Shomèr ma mi-llailah:

"La notte è quieta senza rumore, c'è solo il suono che fa il silenzio
E l'aria calda porta il sapore di stelle e assenzio
Le dita sfiorano le pietre calme calde d'un sole, memoria o mito
Il buio ha preso con se le palme, sembra che il giorno non sia esistito
Io, la vedetta, l'illuminato, guardiano eterno di non so cosa
Cerco, innocente o perché ho peccato, la luna ombrosa
E aspetto immobile che si spanda l'onda di tuono che seguirà
Al lampo secco di una domanda, la voce d'uomo che chiederà
Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell
[...]
Sono da secoli o da un momento fermo in un vuoto in cui tutto tace
Non so più dire da quanto sento angoscia o pace
Coi sensi tesi fuori dal tempo, fuori dal mondo sto ad aspettare
Che in un sussurro di voci o vento qualcuno venga per domandare
E li avverto, radi come le dita, ma sento voci, sento un brusìo
E sento d'essere l'infinita eco di Dio
E dopo innumeri come sabbia, ansiosa e anonima oscurità
Ma voce sola di fede o rabbia, notturno grido che chiederà
Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell
[...]
"Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni
E resteranno di uomini e di idee, polvere e segni
Ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà
Che la risposta sull'avvenire è in una voce che chiederà
Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell..."

Ci spostiamo dunque al Ta Keo, tempio-montagna più antico degli altri, della metà del X secolo. E' notevole per l'aspetto massiccio e la prospettiva sapiente, che, soprattutto quando si scende la lunga e ripida scalinata, dà l'impressione che si muova in verticale. Ma è molto meno elaborato degli altri e manca di fregi e sculture. Arrampicarsi fino in cima, con i 41 gradi tropicali del mezzogiorno, è comunque un'esperienza quasi mistica.


il famoso dio ombrellaio?







L'ultimo sito che visitiamo è il Bayon, dell'inizio del XIII secolo. Si trovava al centro della sua nuova capitale, Angkor Thom, a pochi kilometri da quella precedente. E' noto per i quattro volti sorridenti che decorano le cime delle torri, e per i bassorilievi che narrano storie epiche indiane ma anche eventi storici (la guerra contro i Chenla) e di vita mondana. Nasce come tempio buddista, viene poi convertito all'induismo e torna infine buddista, con tutto un gran modificare decorazioni e volti. Nonostante questa travagliata storia, mantiene un aspetto misterioso e serafico a un tempo. Qui la pietra sorride e non guarda, ha gli occhi chiusi, e son tutti dei muti.













Freddie Mercury che ci fai qua?


Finiamo la visita intorno alle 14. Siamo tutti ben brasati. Di ritorno in hotel, percorro il lungofiume, che è deserto per la calura. Persino i venditori un po' molesti del mercato non hanno le forze di attaccar bottone.



Vi lascio ora con qualche foto scattata da John, la guida, che ha poi condiviso su un gruppo Whatsapp creato al momento. Eravamo un gruppo piccino, e ho conosciuto, se così si può dire, persone interessanti: una collega neolaureata, di Manchester, che insegna alle elementari; una ragazza irlandese che si è trasferita a Tokyo e vorrebbe aprire lì un negozio di gioielli artigianali, ma intanto per pagare l'affitto fa la barista. Un ragazzo francese che si è preso l'anno sabbatico dall'università ed è appena sbarcato qui, per insegnare inglese in una scuola privata. E così via, a intrecciare per un minuto mille storie diverse, e poi di nuovo perdersi ciascuno per la sua strada. Il bello di non aver radici, ma gambe, è questo.