venerdì 30 giugno 2017

Prima tappa. Degrado post-sovietico. Da Mosca a Elektrogorsk.


Altro che prova del fuoco, altro che agoghè spartana.
Uscire indenni dal centro di Mosca, in bici, con le borse, per la seconda volta, mi fa davvero sentire vagamente onnipotente. E molto, molto fortunata. Stamattina ho fatto i 4 piani di scale senza ascensore con il peso dei bagagli, della Signora e di un lieve presentimento di morte imminente. Il traffico nella capitale è qualcosa di spaventoso, un gorgo infernale che davvero fa pensare che l’umanità abbia un po’ esagerato con questa idea dei motori e delle macchine.
Per ben 20 o 30 metri ho approfittato di una pista ciclabile che, naturalmente, sfociava nei malefici sottopassaggi pedonali, irti di scale che portano direttamente alla Giudecca. L’alternativa è attraversare 8 corsie di scorrimento veloce, così, per fare il gioco della roulette russa. Che mi pare anche azzeccata, qui. Fatto sta che, tra una banfata e l’altra, sono riuscita a portarmi all’ideale punto di partenza di questo nuovo viaggio: San Basilio. Nella Piazza rossa in bici non si può entrare, quindi mi sono accontentata di un saluto rapido, un commiato appena sussurrato come si fa quando si vuol nascondere la commozione. E sotto la protezione di quei colori e del folle di dio che predicava nudo nella neve, sono partita.
Buttarsi nelle grandi arterie moscovite è davvero come fare un salto nel vuoto, un vuoto che però è fin troppo materico e solido per non solleticare l’istinto di sopravvivenza. Ho girato intorno al centro fino alla Moscova, e da lì via verso est, per imboccare la M7 che mi farà compagnia per migliaia di kilometri. I vialoni non sono costipati, il traffico è un continuo fiume che scorre fin troppo in fretta e richiede rapidissime decisioni sulle svolte e gli incroci; per fortuna non ci sono stati né errori né intoppi, e in breve, con qualche saliscendi, sono arrivata fuori dal centro.




Lì, incredibilmente, l’autostrada era a dir poco bloccata. Auto, camion, pullman e mezzi di ogni sorta fermi in coda. Il che non è affatto male: è come pedalare accanto ad un innocuo muro. 



Tra l’altro per tutto il tragitto, a bordo della corsia di destra, ho trovato la mia patria di sempre, la corsia di sicurezza, ora larga ora ridotta a una sottilissima striscina di asfalto. Hic manebimus optime. A parte qualche incrocio congestionato, tutto è andato benissimo e i primi 50km sono scivolati via lisci lisci tra palazzoni di dubbio gusto e aeree militari. Il traffico si è pian piano sciolto ed è rimasto solo il prevedibile andirivieni, non aggressivo né angosciante. In compenso, però, si è alzato un vento sempre più rabbioso, che, oltre a regalare fatica gratuita, sollevava dei turbini di sabbia che mi son poi trovata in ogni orifizio, così, a smeriglio. No, non sono in un deserto a dune, ma è pieno di cave da queste parti e di camion che trasportano ghiaino. Ho fatto una serie di soste per recuperare dell’acqua, fermandomi nei lurfidi (crasi vorace luridi + urfidi) negozietti dei paesini polverosi incontrati  a bordo strada.




 

Ovunque si vedono, tra i più poveri, occhi a mandorla e volti orientali: lo spazzino, l’operaio sporco di fatica e la donna che vende le uova sull’asfalto. In America sono ispanici e neri, qui loro. Proprio vero che l’ingiustizia non ha colore né patria. 
Poco a poco il cemento ha finalmente ceduto il passo ai prati enormi, con fiori altissimi simili alla nostra cicuta ma terribilmente più grandi, ombrellini per dinosauri, e agli amati boschi di pini e betulle. Il vento portava un profumo di corteccia e resina sacro, incenso della preghiera del tutto, della natura che vive e pulsa di linfa, che freme alla carezza del vento. Che meraviglia andare e fondersi con l’azzurro e le radici. 









In questa immersione nel fiume di Eraclito, senza accorgermene, sono arrivata alla meta di oggi: la pregiatissima Elektrogorsk. 




Un simbolo del brutto. Un brutto così sfacciato da diventare meraviglioso, imperdibile perla del degrado post sovietico. La città, in quanto tale, nasce nel 1946 (il 25 aprile), su quel che, fin dal 1912, era stato un insediamento di operai impiegati nella più grande centrale elettrica a torba dell’impero (e dell’unione). Il nome stesso del paese (oggi conta 20.000 anime) e lo stemma, una saetta, lo ricordano… Ma soprattutto ne è prova l’orripilante ecomostro con ciminiera che è simbolo della città. Se ciò non bastasse a far venire la pelle d’oca, aggiungiamo che nel 1956, in piena guerra fredda, è stato qui fondato un centro di ricerca per la “sicurezza nucleare”. E non è tutto. Nel 1967 viene aperta una raffineria e nel 1984 una casa farmaceutica (si legge “bio-industriale”), Antigen, si fa conoscere nel mondo per i suoi brevetti. Infatti una delle prime cose che si possono apprezzare in paese, dopo i palazzoni, è una lapide che ricorda operai e scienziati morti per le radiazioni. Gli altri, almeno alcuni, sono diventati campioni mondiali in varie discipline sportive, dal basket all’hockey. I meno fortunati stanno in piazza tenendo stretta una bottiglia di vodka tra le loro sei dita. Sarà stato il temporale imminente, il buio, i lampi e il vento, ma tutto ha fin da subito avuto un’aria da apocalisse che mancava partisse il dies irae. 








Tra l’altro per trovare l’albergo (carino, senza ironia) ho impiegato più di un’ora e mezza. L’indirizzo su maps e su booking era sbagliato… E quando ben ho trovato un cartello sbiadito, in un androne, ho dovuto chiamare un numero di telefono per farmi aprire. Nessuno parlava inglese. Dopo vari casini sono venuti a recuperarmi in macchina, dimostrandosi molto cordiali. Quando hanno visto la bici, il commento è stato: tu sei matta! Ormai me lo han detto in tutte le lingue, sarà il mio epiteto formulare.



 
Le minacce del cielo livido e pesto si sono poi trasformate in un acquazzone da record, che mi ha costretta a sostare in un supermercato per qualche momento, salvo poi decidere che tanto cambia poco: temo che i prossimi giorni saranno tutti così. Mi spunteranno le branche da volpe d’acqua. Crescerò come una piantina di basilico troppo innaffiata, che ce devo fa’.




La tappa di oggi era di puro transito, ma anche questa faccia mesta della Russia esercita su di me un fascino incredibile. Il bello assoluto e l’assoluto brutto si sfiorano, come tutti gli estremi. Della pioggia di domani, del vento e del traffico non mi interessa, ora; sono tornata alla condizione primigenia del vivere l’attimo, godere ogni istante e sentirlo bellissimo ed effimero; è questo che abbiamo imparato dagli antichi, no? Danzare sulla tragedia e spendere con cura i granelli di sabbia della clessidra, che inesorabilmente cadono al basso, perché, nel momento stesso in cui precipitano, mandino un bagliore d’oro prima del buio da cui non si torna. Per questo ci sono solo il profumo del tè al timo, le volute di fumo e il tamburellio della pioggia sui vetri, e tutto è meraviglia.




 Stasera nessuna poesia seriona a conclusione, ma le opere d'arte disseminate per la ridente Elektrogorsk

il Caronte dei conigli, ovvero il Carote o il Coglionte:


 la cattura dell'anguilla a dondolo:


 la finzione della felicità:










4 commenti:

  1. “E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa?”.... Pessoa la sapeva lunga ....Anche io piccola volpe sogno il viaggio che hai appena intrapreso e penso alle mille emozioni che stai provando ... Buona strada .... Matteo 🌻

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  2. Rita, alla presentazione del tuo libro, la sera del 26 giugno ti ho detto "GRAZIE" e te lo dico ancora oggi per le cose che ci fai conoscere e per il modo in cui lo fai. Un abbraccio e buon viaggio. Sila

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  3. che invidia. dovrò farla a piedi....magari il giro del mondo, non potendo usare bicicletta. alla prossima tappa

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  4. Giusto per la cronaca. Il "le opere d'arte" sono personaggi di favole pre e post rivoluzione.

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