giovedì 29 giugno 2017

Tappa zero. In volo su Mosca con la Signora in scatola



Sveglia alle 3 e mezza, i gatti dormono sul letto e tutto riposa nel buio, tranne qualche rondine che già canta. Il pacco con Signora e bagagli attende mansueto in cucina, dove nemmeno due ore fa l’ho lasciato, esausta, dopo averlo accuratamente sigillato. E’ la prima volta che parto per un viaggio in bici con l’aereo. Di solito questo è il mezzo del ritorno, mentre all’andata, semplicemente, ho sempre chiuso alle mie spalle la porta di casa, come se stessi uscendo per un giretto in zona… E invece stavo andando a Istanbul, Atene, Porto o Mosca. Un po’ come Odisseo quando disse a Penelope che scendeva un attimo alla spiaggia a comprare le sigarette. Tutto è pronto, spero solo che i bagagli, cacciati alla brutta nello scatolo, ci stiano poi effettivamente nelle borse, non ho avuto tempo di fare le prove generali. Mi sembra, ahimè, ahi le gambe in salita, una valanga di roba, come al solito. In realtà il bagaglio è sempre più o meno lo stesso: vestiti civili (un paio di pantaloni, una maglietta, una felpa, mutande e calzini qb –per l’abito da sera e il tacco 12 sarà per un’altra vita), vestiti per la bici per ogni tipo di clima (a Mosca fa caldo, poi, si sa, la Siberia…), minima moralia per l’igiene personale, documenti, un libro di russo e, questa volta, una *vrangata di camere d’aria, copertone, toppe e tutto il necessario per evitare di rimanere a piedi ed affidarmi ai ricambi russki, fatti di gomma da masticare e fede nel sol dell’Avvenire… Come successo l’anno scorso proprio a 200km da Mosca. Speriamo di no, via. In aeroporto scopro che il pacco intero pesa esattamente 30kg; questo, più il bagaglio a mano che sarà di massimo 5, significa che le borse peseranno sui 25km, più della metà di me. Ma chi si fida a portar meno? Vado in luoghi dove, al più, si trovano ricambi per cavallini pelosi. Fatto sta che è ora di partire. All’aeroporto mi porta la mamma, quindi sì, quest’anno il viaggio inizia più o meno con un “Ciao mamma! Vado in Mongolia in bici”. Sono stati giorni di saluti, questi. Io mi commuovo fin troppo facilmente ma faccio sempre finta di no, con quella stupida idea che piangere sia cosa da deboli, che avere i lucciconi stellati agli occhi sia da scemi. Però mi mancherà tutto in questi due mesi. La mia vita, a casa, mi piace. I miei viaggi non sono una fuga dagli altri, dalle persone e dai luoghi che amo. Sono, per assurdo, una fuga da me stessa. E che fuga sarebbe mai se mi ritrovo sola a chiacchierare con una bicicletta, in un continuo dialogo con le mie paure e i miei sogni? E’ una fuga dalla Volpe da tana, annoiata e senza forza, dalla monotonia della vita che ci costruiamo intorno per star comodi, mollemente adagiati sulle quattro cose che abbiamo intorno e dentro. Ma la pigrizia, che pure attanaglia me, la poca voglia di uscire dalla comfort zone mentale e fisica è morte. Si diventa un grigio, freddo ingranaggio del sistema, finchè ci si inceppa e la macchina infernale del mondo ci stritola. Meglio uscire. Dalla routine e dalla norma, ma soprattutto dalla propria casa. “C’è solo la strada/ su cui puoi contare/ la strada è l’unica salvezza./ C’è solo la voglia e il bisogno di uscire/ di esporsi nella strada e nella piazza./ Perché il giudizio universale/ non passa per le case/ e gli angeli non danno appuntamenti/ e anche nelle case più spaziose/ non c’è spazio per verifiche e confronti…” cantava Gaber. E quindi via di nuovo, con un “addio monti” in miniatura.



Tornare a Mosca in aereo è stato quasi traumatico. Quanto ricco era stato il viaggio dell’anno scorso, a che piccola ignobile storiella si riduce tutto. Nel giro di quattro ore mi sono trovata di nuovo in centro. L’ostello è vicinissimo alla Piazza Rossa. Arrivarci con l’ingombrante scatolone è un’impresa, così come fare i 4 piani di scale senza ascensore. Ma io e la Signora arriviamo sane e salve in stanza. Un loculo. Un (lo) culo (buco di). Saranno 2x2 metri e senza finestre! Moscoviti vi si ama una cifra. 




A gestire l’ostello sono tre figuri: uno, più anziano, detto “zio” non parla inglese, si esprime a gesti e passa la giornata a muoversi senza sosta tra reception e cucina, lungo i ben 4 metri di corridoio; riesce a non fare assolutamente nulla e a sembrare comunque impegnatissimo. L’altro è più giovane, l’unico che parla inglese. Considerando che non beve, deve aver fatto uso di tutte le peggio droghe in gioventù, perché ha il cervello più fritto di tutte le kartoshke che butta nell’olio ad ogni ora del giorno e della notte. Terza è una fanciulla bionda che fa la notte e poi si spiaggia sull’unico divano della sala comune per il resto della giornata; non ha volto, ma una melina morsicata luminosa. Per il resto in ostello non ci sono turisti ma lavoratori russi che fanno la stagione qui a Mosca, formicaio di operai e impiegati.



Lascio tutto in camera ed esco subito per salutare la bellezza. Mi dirigo alle cupole d’oro della cattedrale del Cristo Salvatore, non prima di una puntatina alla biblioteca di Lenin. 






Arrivata all’enorme chiesa bianchissima, scopro che è chiusa. E improvvisamente mi accorgo che sull’altro lato della strada ci sono migliaia di persone, un fiume umano di donne velate e timorati di dio. Transenne, polizia, volontari della chiesa ortodossa ovunque. O passa il Pride e sono lì per tirar pietre, vista la tolleranza media del russo nei confronti degli omosessuali, o c’è qualche festa, processione o simili. Chiedo a un poliziotto, mi par di capire che sia la festa della cattedrale. Mi godo lo spettacolo di arte varia dell’umano in una passeggiata fino al bellissimo Gorkij (quanti pisolini su questi prati!) e al Parco delle arti, dove sono conservate tante statue di regime, sradicate dalla città e tenute come piante rare nei giardini pubblici. 







Poi indietro lungo la Moscova, tra la statua enorme di Pietro il Grande e il Cremlino, con l’oro, i mattoni e il cielo immenso a rubar lo sfondo. 




Infine, dopo cena, torno sull’Arbat, la Vecchia, prima, tra cantanti, poeti e chiromanti, e la nuova, poi, un mosaico destrutturato di grattacieli illuminati e locali di dubbia moralità.
Di Mosca ricordo tutte le strade percorse, perché ci sono arrivata in bici, l’ho corteggiata, conquistata e sarà mia sempre.




 (il cartello dice: "chiromante")



Il secondo giorno, ovvero oggi, è trascorso in fretta. La mattinata è stata dedicata alla Signora: tolta dalla prigionia dello scatolo, rimontata e lustrata. Il tutto nei 2x2 metri del bucio che ho per stanza, sotto gli sguardi di rimprovero dell’uomo dal cervello fritto. Poi è avvenuto il miracolo: sono riuscita a stipare tutto, tut-to!, nelle borse, così da esser certa di poter partire domattina senza problemi. 



Poi sono tornata alla Piazza Rossa e a San Basilio, che saranno l’ideale punto di ri-partenza di questo viaggio (come era stato l’arrivo dello scorso). 






Quindi metro e via al Parco della Vittoria, all’immenso monumento grande quanto una collina dedicato ai caduti di tutte le guerre russe, ma soprattutto alla Seconda guerra mondiale. E’ stato il primo vero incontro con la bellezza di Mosca, l’anno scorso, e non potevo non tornarci. L’emozione che dà quel luogo è indescrivibile. Ci sono il sacrificio, il sangue, il dolore e i morti, milioni, nel tritacarne della storia, ma ci sono anche la vittoria e la liberazione. Le bandiere naziste riportate dai soldati dell’Armata rossa e la ricostruzione della presa di Berlino sono uno dei molti esempi. 








Si esce dal museo talmente impregnati di militarismo e patriottismo che vien voglia subito di arruolarsi nell’esercito russo. Poi anche no. Immancabile anche la visita all’esposizione dei mezzi militari, che in me da sempre suscitano orrore e morbosa attrazione, dal momento che considero l’ingegneria bellica la più grande perversione del genere umano.

(Per la patria!)
 


Ora sono di nuovo in ostello. Dopo la prima vera cena russki a base di funghi e pesciolini, ho controllato il meteo. Domani forse la scampo. La gambero. La pioggia intendo. Inizierà a piovere nel pomeriggio, ma se tutto va bene, dovrei arrivare prima che mi si rovesci addosso l’ira di dio. Poi no. Pioverà male tutta settimana. Eh va be’. In fondo sto andando in Siberia, mica a Sibari. Ci sono comunque 20 dignitosi gradi e poco vento.
Domani si comincia, poi si vedrà di tappa in tappa come sempre. Sto andando lontano. Non bisogna aver fretta né pretendere ciò che strada e cielo non vogliono dare.
Elektrogorsk mi aspetta. Deve essere la capitale del degrado post sovietico. Ci arriverò seguendo l’ormai nota autostrada (M7), sperando che il traffico moscovita di domani sia clemente.
Arrivederci città bella, augurami buon viaggio.

Non invano i venti hanno soffiato,
non invano ha infuriato la tempesta.
Qualcuno, misterioso, di calma luce
ha imbevuto i miei occhi.
Qualcuno con tenerezza primaverile
nella nebbia turchina ha placato la mia malinconia
per un’arcana e bellissima
terra straniera.
Non mi opprime il latteo silenzio,
non mi turba la paura delle stelle.
Io amo il mondo e l’eterno
come il natio focolare.
Tutto in essi è benevolo e santo,
tutto ciò che turba è luminoso.
Il papavero scarlatto del tramonto
guazza sul vetro del lago.
E senza volerlo nel mare di grano
un’immagine scatta dalla lingua:
il cielo che ha figliato
lecca il suo rosso vitello.

Sergej Aleksandrovič Esenin

3 commenti:

  1. Leggerti è una gioia talmente gioiosa che vengono le lacrime agli occhi. Le foto pure sono bellissime, da farci un film. Il lettuccio nel loculo dell'ostello è una meravigliosa possibilità. La poesia di Esenin, infine, martella il cuore di emozioni forti. Buon viaggio...e speriamo non piova troppo!

    RispondiElimina
  2. Partiamo insieme...col pensiero.bravissima e in bocca al lupo,seguirò questa avventura pezzo per pezzo.grazie

    RispondiElimina
  3. Rita, alla presentazione del tuo libro, la sera del 26 giugno ti ho detto "GRAZIE" e te lo dico ancora oggi per le cose che ci fai conoscere e per il modo in cui lo fai. Un abbraccio e buon viaggio. Sila

    RispondiElimina