domenica 1 settembre 2019

61-62.La East Coast Greenway: Da Washington DC a Filadelfia via Baltimora. "Sentieri sul mare"




"Tutto passa e tutto resta,
però il nostro è passare,
passare facendo sentieri,
sentieri sul mare.
[...]

Viandante, sono le tue orme
il sentiero e niente più;
viandante, non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando.

Camminando si fa il sentiero
e girando indietro lo sguardo
si vede il sentiero che mai più
si tornerà a calpestare.

Viandante non esiste il sentiero,
ma solamente scie nel mare…"
(Machado)

29/8
Arlington-Aberdeen
125km

Uscire dalla capitol city, a dio piacendo, è stato molto più semplice e meno mortalmente periglioso, peligrosssso, che entrarci. Eravamo pronti a tutto, al male e al peggio. Ci siamo anche alzati presto per non ciucciarci tutta la rush hour degli early birds, i mattinieri, come amano chiamarsi qui i colletti bianchi che van presto al lavoro.
Invece tutto è andato benone, in primis grazie ad un anonimo ciclista che abbiamo incrociato dopo pochi minuti dalla partenza, ancora nella via del motel. Il brav'uomo, un cinquantenne e tot in carne ma non troppo, tutto vestito da ciclista serio, con tanto di casco e calzino gialli fluo, ci ha affiancati, ci ha fatto qualche domanda sul viaggio e poi si è offerto di guidarci fino al centro, al Mall, da dove avevamo intenzione di passare. Lui stava andando proprio da quelle parti, in ufficio, come ogni mattina. E dunque mi sono evitata la pena di seguire le istruzioni di Maps e di cercare la strada migliore tra le infinite e trafficatissime.
La nostra guida andava spedita ma non troppo, e aveva cura di segnalarci ogni singolo ostacolo o pericolo, sbracciandosi ma in maniera sempre composta, in qualche modo seria. Si è anche più volte fermato, nonostante fosse forse un poco in ritardo, per chiederci se volessimo foto sul Potomac o in altri punti significativi della city. E non ha perso l'occasione per indicarci alcuni edifici notevoli,



come ad esempio il Watergate complex, nella foto sotto in fondo a destra, che ha dato nome al famoso scandalo che, nel 1972, portò all'impeachment di Nixon; l'albergo che sta in quell'edificio era infatti il teatro delle intercettazioni illegali, si dice, effettuate da membri del partito repubblicano nella sede del comitato nazionale democratico. et voilà, il Watergate. Qui ogni pietra, ogni scalino, è un tassello importante della storia, nazionale e mondiale.


Nel tragitto (una dozzina di kilometri tutti su ciclabile e tra quartieri di super lusso, dove temevo di sgarare un'auto -mi sarebbe costata un rene ed entrambe le cornee) siamo stati affiancati da diversi ciclisti; alcuni andavano in ufficio, con la giacca sbottonata e la cravatta buttata su una spalla, altre andavano al parco a fare yoga, con i tappetino nella borsa, altri invece erano tutti acchittati da stradisti seri, e ci tempestavano di domande, alla cui risposta wowavano (voce del verbo woware, cioè spalancarsi in un rumoroso WOW) forte. La nostra guida era tutta orgogliosa di averci fatti suoi compagni di viaggio per un poco e commentava sempre con un bel "Noi tutti li invidiamo, in senso buono!". E così, tra saluti e ringraziamenti, siamo tornati al Mall. Non sono mancate le foto di rito, all'obelisco di Washington e al Campidoglio, mentre intorno iniziava ad agitarsi una pacifica manifestazione, con slogan al megafono e ragazzi e ragazze che si alternavano a tenere discorsi su una scalinata.



Subito dietro al Mall, a partire da Union station, si srotola una bella ciclabilina, la Metro trail, che permette di portarsi fuori dal centro, e oltre la periferia, ovvero fuori dai maroni, in sicurezza. Da lì in poi si è di nuovo on the road, e questa road è la Us 1, una highway che porta diretti e spediti a Baltimora. Visto il bordo ampio e pedalabile e il traffico non eccessivo, abbiamo deciso di seguire questa strada, ignorando, per oggi, la East coast greenway, che ci avrebbe costretti ad allungare (più che raddoppiare) il percorso.
Passiamo dalla zona universitaria e da una fila di paesini piuttosto anonimi, non brutti, tutt'altro: tranquilli, ben curati e piacevoli, tra casette e parchi. Ma senz'anima. Si alternano, sullo stradone, a nodi di male e grumi di consumismo becero, i soliti parchi commerciali con fast food, supermercati e robivendoli di vario tipo.
Poi, tra una collinetta e l'altra (eh già, qui, pur essendo sulla costa, non c'è pianura), iniziano a intravedersi all'orizzonte dei palazzoni, dei grattacieli che brillano di luce riflessa dai vetri a specchio. Sarà Baltimora?
Intanto ci godiamo il ritrovato clima estivo: passato l'altopiano degli Appalachi, dove era già ottobre inoltrato, siamo rientrati in un'estate morbida, certo in declino, ma ancora calda e viva. E poi il cielo ha il colore dell'oceano, e questo sa di agosto e vacanze, ancora. Questo azzurro è una delle sfumature della felicità.



In fretta e con poche soste arriviamo così a Baltimora. Che è la classica città della quale si conosce solo il nome. Baltimora... Ah sì, in America! Ma perchè è famosa?


"Fondata nel 1729 da Cæcilius Calvert, secondo barone di Baltimore, primo governatore della Colonia del Maryland, crebbe abbastanza rapidamente sfruttando la sua posizione geografica ideale come porto commerciale. Durante la guerra contro gli inglesi del 1812 il Fort McHenry venne assediato dalle truppe inglesi che avevano già fatto capitolare la città di Washington. La battaglia, che prende il nome di Battaglia di Baltimora, terminò con la vittoria delle forze americane.
Nel 1851 la città ottenne l'indipendenza staccandosi dalla contea alla quale apparteneva. Nel 1789 papa Pio VI nomina Padre John Carroll come primo vescovo cattolico degli Stati Uniti, dell'Arcidiocesi di Baltimora.
All'inizio della guerra di secessione americana fu teatro dei disordini di Baltimora.
Il 7 febbraio 1904 uno spaventoso incendio devastò il centro della città per 30 ore. Alla fine i vigili del fuoco, per circoscrivere i danni, furono costretti ad abbattere diverse costruzioni. I danni furono ingenti. Si calcola che oltre 1500 edifici andarono completamente distrutti.
Dopo la seconda guerra mondiale il boom economico e la ricchezza della popolazione portò moltissimi esponenti della classe media a lasciare il centro e a trasferirsi in più comode abitazioni della periferia. Questo movimento portò ben presto il centro ad essere territorio di teppisti e delinquenti. Il problema raggiunse dimensioni preoccupanti fino a quando nel 1971 la municipalità decise di intraprendere un ambizioso piano di ammodernamento del centro. Vennero costruiti centri culturali, musei ed anche l'assetto urbanistico mutò lentamente ma costantemente. Oggi il centro di Baltimora è meta di numerosi turisti e la delinquenza è decisamente diminuita, riportandosi ai livelli delle altre città statunitensi (benchè comunque sia la sesta città più pericolosa degli States).
Tra i principali monumenti che testimoniano il passato della città si ricordano la Colonna di Washington e soprattutto la Cattedrale cattolica, la più antica degli Stati Uniti e sede dell'Arcidiocesi di Baltimora".
(Wikipedia)

Noi abbiamo deciso di non fermarci a visitare questa città, ma di limitarci ad attraversala e a goderci una lunga sosta in centro, verso l'inner harbor. Prima di arrivarci, tuttavia, dobbiamo passare da una sfilza di quartieri inquietanti per i volti che si vedono in giro. Compaiono, forse per la prima volta da che siamo qui in Usa, le classiche casette a schiera, tutte uguali, tutte in fila, tutte più o meno fatiscenti, tutte con qualche gradino davanti all'uscio e tutte con gente devastata seduta fuori dalla porta. Chi urla, chi ride sguaiatamente, chi si gode la fattanza, chi sta riverso, chi traffica losco, chi "guarda brutto" i passanti, chi ascolta musica dove la cosa più amichevole che viene detta è "fuck u". Insomma, non c'è in giro proprio bella gente. Ed è pazzesco che siano TUTTI neri, a parte quattro tossici pieni di croste che pontificano, storti come le pigne, su un ponte, in mezzo alla strada. Tutti neri. Altro che uguaglianza. In questi "blocchi" si respira ancora aria di ghetto, ma quello serio, dove non c'è nulla da ridere.


c'è traffico? Un pelino!



Poi, nel giro di una curva, la città cambia completamente volto: ci si avvicina al centro e compaiono i grattacieli tirati a lucido, i palazzoni dai mille occhi di vetro e i parchi, i prati rasati con le forbicine e l'asfalto perfetto, liscissimo.




Passiamo accanto all'Oriole park, lo stadio del baseball, dove non mancano le statue ai più grandi giocatori che hanno compiuto qui le loro gesta. Negli States davvero il baseball è il primo, più seguito e più diffuso sport, più del football, del basket e del soccer. Lo dimostra la quantità spropositata di campi, campetti e stadi sparsi in ogni stato.












Dopo essermi fatta raccontare da Gigi la storia di Babe Ruth, notissimo atleta da record nato qui nel 1895 (https://it.wikipedia.org/wiki/Babe_Ruth), proseguiamo, passando accanto al Camden Yard.



A lato dei binari un cartello ricorda il grande sciopero delle ferrovie del 1877



e, pedalando su ciclabili affollate tra i palazzoni che oscurano il sole come i fianchi dei monti, arriviamo al porto, che sta alla foce del fiume Patapsco, non distante dalla baia di Chesapeak, sognando le acque aperte dell'Atlantico.










Superata la selva di palazzoni, che mi incute sempre un certo timore  da chinare il capo, ecco, inatteso, un momento di grazia. Gli istanti puri di pienezza sono rari, ma nemmeno troppo quando si viaggia così; possono nascondersi dietro a qualunque angolo, a tre metri di distanza o a mille kilometri. Non si può sapere. Stanno lì, ad aspettare, pazienti, che qualcuno con gli occhi buoni li possa cogliere. Bisogna avere lo sguardo allenato a non aspettarsi nulla più che l'ennesima strada, l'ennesimo cielo. Ma che strada! E che cielo! Lasciarsi stupire è un'arte che si dimentica crescendo e va recuperata invecchiando, con studio e pazienza. Ed eccolo, dunque, il momenti di grazia.




Arriviamo sui moli dell'inner harbour, che è un'esplosione di azzurri dell'acqua, del cielo, dei vetri, dei riflessi nei riflessi nei riflessi, in un gioco di eco e nuvole; appoggiamo le bici a un muretto e ci sediamo su una panchina. Magia. Alle nostre spalle una specie di galleria/giostra della magia e del mistero diffonde buona musica, pop di quello giusto che qui in America san fare. La gente passeggia sui moli e qualcuno pedala, qualcuno pattina, qualcuno arriva in barca, attracca, scende a prendersi un gelato e riparte. Il sole è caldo ma non brucia e l'aria è gonfia del grido dei gabbiani e di profumino di pesce fritto. Vengo catapultata nell'estate piena, "Con giorni lunghi di colori chiari ecco Luglio, il leone,/
riposa, bevi e il mondo attorno appare come in una visione, come in una visione...  " direbbe Guccini.





Attraccate e a riposo, dopo lungo servizio sui mari e sui fiumi, e sull'oceano pure, ci sono diverse navi storiche. Proprio davanti a noi sta la USS Constellation, unico vascello ancora in acqua dell'epoca della guerra di secessione. Di fronte si vedono la lightship Chesapeak e il sottomarino Torsk, ultimo della sua specie ad aver affondato una nave nemica, durante il secondo conflitto mondiale. Della stessa epoca è la nave da guerra sopravvissuta all'attacco di Pearl Harbor, la Taney. Insomma, queste vecchie signore, nel cigolio di cime e assi e lamiere, potrebbero raccontare una lunghissima storia, profonda come l'Atlantico.





Lasciamo che questa atmosfera vacanziera ci impregni e permei; ascoltiamo la gente chiacchierare e ridere, ridere fortissimo nel caso dei neri, e il tempo trascorre pieno di luce. Di Baltimora è questo che ricordo, questo il granello di memoria, questo il distillato del ricordo. Il sole, l'azzurro, e la gente felice.
Ora possiamo andarcene, possiamo passare oltre. Anche questo fiore, per la nostra antologia, è raccolto.

inevitabile foto ad un ristorante della catena Bubba Gump

Usciamo dal porto tra palazzoni di mattoni rossi e ciminiere che furono industrie, di quelle con gli operai tutti anneriti dal fumo e gli occhi bianchissimi, ora riconvertite in musei e locali di tendenza, ristorantini di pesce e pub. Intorno, a chiudere l'orizzonte, la foresta di grattacieli.



Passiamo per caso anche nella locale Little Italy. Noto senza troppo disappunto che è un quartiere piuttosto degradato, identico, nell'architettura, a quelli dei neri che abbiamo visto prima. Qui è tutto un po' più pulito e ordinato, e non c'è quasi nessuno in giro, sugli scalini e sugli usci a far caciara. Ci sono invece tanti ristoranti, pizzerie a gogo e negozi di varia natura, contrassegnati da cognomi italiani di tutte le regioni, dal nord al sud.





Poi si passa al quartiere ucraino, e quindi a quello arabo, con le macellerie halal e la moschea. Accanto, com'è giusto che sia, c'è una sinagoga con piccolo cimitero ebraico di contorno. E senza un Alfonso el sabio con la corona in testa ad averlo ordinato! Questo è bene.





Nel giro di un attimo siamo di nuovo fuori dalla città, sulla nuova strada che ci porterà a nord, oggi e pure domani in parte, la 40. Escluso il primo tratto, ancora periferia di Baltimora, che è scassato, pieno di buche e trafficato, poi il fondo s'appiana e il bordo diventa ampio. Spesso compare anche una ciclabile segnata a terra, e numerosi cartelli invitano a prestare attenzione alle bici e a condividere la strada. Il vento è girato e soffia alle nostre spalle, spingendoci rapidi verso il tramonto.


Passiamo Gunpowder (chissà da dove trae origine questo toponimo!) e Joppatowne, che ha una storia lunghissima e complicatissima a cicli di crescita e abbandono (la posizione era buona per il commercio ma non per stabilire una città. Poi è diventata una comunità-dormitorio che gravita intorno a Baltimora). A Joppa, comunque, ci fermiamo per capire dove potremmo far tappa stasera, e incappiamo nel mercato delle pulci versione Amish.
Decidiamo di andare avanti ancora un'oretta, fino all'ultima luce. Qui di campeggi non ce n'è che pochi e distanti, e spesso non accettano tende. Ma i motel non mancano, soprattutto alle intersezioni con le grandi arterie delle Interstate. Dunque pedaliamo fino quasi al tramonto, e i colori sono proprio di settembre. Ormai, in effetti, agosto è proprio agli sgoccioli. Bisogna rassegnarsi, e godersi questo crepuscolo "limpido come un addio".



Arriviamo ad Aberdeen, fondata nel 1720 da scozzesi. Qui i nomi dei luoghi tradiscono le origini dei primi pionieri: c'è pure una Glasgow, oltre a molte aziende che han per logo il trifoglio. Ci buttiamo in un motel sgrauso superbudget pooratchio's che è quasi buio. Il solito punjabi ci dà la stanza al solito prezzo e ci sono le solite blattine e il solito zozzerello in giro, ma di fronte c'è un Lidl, e questo non è un dettaglio secondario. In primis, perchè qui il Lidl è un negozio di lusso, con roba che viene dal vecchio continente, sana, bio, real food come lo chiamano qui. Secondo, perchè è cheap. Terzo, perchè profuma di casa. I Lidl sono una catena nuova qui, e sono uguali ai nostri, stessa struttura e concetto; cambiano i prodotti, ovviamente, ma l'odore misto di panetteria e scatoloni resta, proprio come al Lidl di Cornaredo, quello sulla via Novara, alla rotonda con via Repubblica, quello che sta a nemmeno 2km dalla corte dove abito, quello dove vado spesso a fare la spesa. Casa, insomma.
Ceniamo e poi viene il momento di decidere il da farsi per domani.
Ormai abbiamo stabilito di fermarci a Filadelfia un giorno, perchè merita, ma scopro con orrore che gli alloggi costano una fucilata. Tutti. E gli ostelli sono pieni all'orlo, senza nemmeno un buco per noi. Tregenda! Quindi passo gran tempo a cercare qualcosa di comodo per andare in centro ma economico, e che non ci costringa a deviazioni eccessive. Salta fuori una casa su AirBnB, a Willingford, dietro l'aeorporto internazionale ma immersa tra i parchi, i torrenti e un quartierino di villette della Barbie. La proprietaria è una certa Carolyn, ambientalista di grido con ufficio a Washington, che ha studiato in Giappone e alle isole Vergini. Insomma, perfetto!


30/8
Aberdeen-Wallingford
111km

Ci sveglia il sole che filtra dalla finestra, ed è una luce piena e calda. Una meraviglia! Nel cortile del motel una coppia di strafatti, tutti tatuati e mezzi nudi, ci chiede del viaggio e poi sbraita a destra e a manca lo stupore. Non sono cattive persone, spesso, queste facce da galera. Solo gente che è bene prendere subito per il verso giusto.




Dopo un breve tratto sulla 40, che al mattino a quest'ora è davvero poco trafficata, entriamo ad Havre de Grace, paesino costiero che espone un bel cartello all'ingresso: i massoni sono i benvenuti. Durante la guerra di secessione, il generale Lafayette, considerato un eroe locale, si recò spesso qui e disse che il paese gli ricordava Le Havre. Da qui, il nome. Anche Washington ebbe modo di passare da queste parti, nel 1789, mentre stava andando a New York per la sua prima nomina a presidente.
Nel 1813 gli inglesi distrussero e diedero alle fiamme la cittadina, difesa strenuamente dal luogotenente O'Neill; questo fu ferito, catturato e rilasciato, e fu nominato, con i suoi eredi, proprietario del faro sul fiume Susquehanna.



La città crebbe con le prime industrie che lavoravano ostriche e granchi, frutti di mare in genere e anche prodotti della terra, poi spediti nei mercati di tutta la costa atlantica. Come sempre fu importante il ruolo di ferrovie e canali.


Qui passava anche un'importante stazione della "ferrovia sotterranea", e i locali aiutavano i neri a passare il fiume con i traghetti diretti in Pennsylvania, o con l'aiuto dei villaggi dei quaccheri più all'interno.
Anche noi abbiamo bisogno di aiuto per passare il fiume. Il ponte è stretto e lungo, e non si capisce se sia vietato alle bici o meno. Siccome sul sito della East coast greenway pare ciclabile, ci lanciamo nella traversata. Prima, però, schisciamo il pulsante che attiva un segnale luminoso con cui si avvisano gli automobilisti a prestare attenzione ad eventuali bici.












Questo giochino di schiacciare il pulsante, attivare le lucine e passare sul fiume, scopriremo di lì a poco, ci costerà la bellezza di 16 dollaroni. Quando si scende dal ponte, infatti una casellante chiede il soldino, e le bici, recita a lettere cubitali il cartello, pagano un pedaggio identico a quello delle auto. Hai capito i 'mericani?
Poco male, il fiume andava attraversato comunque, in qualche modo. Tra collinette, campi di mais e stradone dotate di meravigliosa ciclabile su cui correre (il vento è ancora a favore, e ben forte!) ci dirigiamo a Elkton.





Elkton, fondata da marinai svedesi nel 1695 e teatro di molti scontri durante la guerra di secessione, divenne famosa come Gretna Green, ovvero un luogo dove sposarsi in fretta e senza rispettare troppe regole, religiose o civili che siano. Un po' come poi è diventata Las Vegas, insomma.

un sandwich-man che sbandiera cartelloni pubblicitari a bordo strada


Dunque arriviamo al confine di un nuovo stato, il Delaware. Ci resteremo poco, anzi, pochissimo: già in serata saremo di nuovo in Pennsylvania.

(che è il Delaware? Eccallà: https://it.wikipedia.org/wiki/Delaware)



Stradone, one, one, issime, e tutte dotate di ciclabile, che passa tra le grandi M di er...ba e le file di semafori appesi che par sempre debbano cadere in testa da un momento all'altro, tanto oscillano.



All'incrocio con un trail ciclabile in un parco incontriamo due anziani in bici che ci riempiono di domande e ci fanno anche un servizio fotografico (tutto al rallentatore, stile moviola, perchè la coppia è arzilla ma non presta e lesta).


E da lì entriamo, attraverso una sconfinata periferia di paesini, prima, e quartieri, poi, in Wilmington.

"Wilmington è il capoluogo della contea di New Castle e una delle più grandi città dell'area metropolitana della valle del fiume Delaware. Il nome le fu dato nel 1731 da Thomas Penn, primo governatore della Provincia della Pennsylvania (la colonia britannica che sarebbe successivamente divenuta lo Stato della Pennsylvania) in onore del suo amico Spencer Compton, conte di Wilmington, che era stato primo ministro di re Giorgio II del Regno Unito.
Wilmington ottenne lo status di borough nel 1739, ma l'area in cui sorgeva era stata colonizzata nel secolo precedente dagli svedesi che avevano fondato, nel 1638, la colonia di Nuova Svezia e in seguito era passata prima agli olandesi nel 1655 e successivamente agli inglesi nel 1664.
Negli anni tra il 1980 e il 1986, attraverso una serie di normative atte a liberalizzare il regime fiscale delle banche e delle assicurazioni, incominciò un fortissimo movimento di insediamento di queste società, mirate a sfruttare i vantaggi economici promessi. Molte sedi centrali di società finanziarie occupano oggi la città, dando una grossa spinta all'impiego nel terziario."




Wilmington, a parte qualche scorcio, è una città bruttina. Non brutta del tutto, ma nemmeno bella. E' sporca in tutta la sua periferia e sfasciata, in un susseguirsi di blocchi di casine da ghetto. Ci vivono solo neri e latinos, in comunità ben distinte, ed è un misto di mucchi di monnezza, polvere che sale dalle strade scassate, chiese da cui estono canti gospel e bande di ragazzini in ciabatte e calzino che vanno in giro a schiamazzare. Insomma, il topos, lo stereotipo incarnato del quartiere degradato. Poi ci sono aree più decenti e curate, verso il centro, ma non stiamo certo parlando di una delle sette meraviglie del mondo antico. Nè di quello contemporaneo.





Passiamo sul fiume Christina, dove le papere grandi, quasi oche, nuotano placide e le barche portano tutte con orgoglio l'aquila nazionale.








Poi superiamo il centro, qualche palazzo o molte casette in mattoni con le scale davanti alla porta d'ingresso. Sembra di essere in un film o sul set di un video musicale.










Passiamo lo Shellpot creek e ci troviamo sulla highway 13, che corre lungo le sponde del fiume Delaware. Intanto siamo rientrati in Pennsylvania.




Tra parchi seminascosti da enormi arterie stradali e lavori in corso assordanti (qui in Usa metà delle strade sono spalancate, sventrate e in attesa di essere ricucite, con un formicaio di operai che s'affaccenda sui cumuli di terra e asfalto) riprendiamo la east coast greenway


e passiamo accanto alla raffineria più grande che io abbia mai visto. E' grande come una città intera, tutta a tubi e cisterne, ciminiere e cavi. Fa spavento. Fa spavento anche il tizio che, distratto a guardare Gigi, non mi vede arrivare, in discesa, e non mi dà la precedenza che mi spetta. Lo evito per un millimetro e lo mando a cagare. Lui, come accade anche in Italia, una volta lontano mi sclacsona incattivito, come se avesse ragione e la colpa fosse mia. E va be'.




Passiamo accanto all'enorme ponte sul Delaware, che unisce Pennsylvania e New Jersey,


alle chiese infinite delle più svariate confessioni, per consolare la miseria dell'accozzaglia di etnie che popola questi quartieri luridi e puzzolenti, dimenticati da dio e dallo stato,


e pure alla statua di Colombo più brutta del mondo.


A questo punto lasciamo la 13 per piegare verso l'interno, a nordovest, dove si trova la casina di AirBnB che ci aspetta.





Arriviamo, senza difficoltà, nel bel quartiere in cui staremo oggi e domani. La casa è un villino di un solo piano, in mattoni bianchi, con un piccolo giardino e un garage distaccato. Le chiavi sono appese qui, un poco nascoste. Con qualche difficoltà, comunque, riusciamo a entrare e ci si para davanti un'intera casa quasi del tutto vuota. L'annuncio diceva minimalist, e va bene, ma questa è emptyist! Lo spazio, così deserto, è quasi labirintico. Tuttavia non manca nulla di quel che può servire: la cucina è ben fornita, c'è un letto (da fare, con lenzuola nuove impacchettate), c'è una sala da pranzo, un soggiornino, il bagno e pure una lavanderia.
Le restanti stanze sono del tutto vuote.









Ci viene la brutta idea di lavare i nostri zozzi straccetti. La lavatrice, dopo qualche rumore sinistro, emana un puzzo di bruciato-elettrico e muore così, valorosamente, in azione. Peccato che abbia già caricato l'acqua. Questa bazzecola ci costerà, in primis, quattro giri in asciugatrice dei panni comunque non lavati. E poi a svuotare la lavatrice con bicchieri e bottigliette, per non lasciar traccia dell'incidente. Ops!
Inoltre, scopriamo che non va l'acqua calda. Orrore! Tocca fare la doccia fredda diaccia. Scrivo alla proprietaria, ma non ricevo risposta. Mannaggia a lei. Passiamo gran tempo a cercare una caldaia, ma nulla. Al buio ormai andiamo in bici a far la spesa, totale 5km di saliscendi nell'oscurità, giusto con le lucette segnaletiche, e solo dopo cena iniziamo a rilassarci. Pensiamo peste e corna della nostra host, nell'idea di rubarle una porta, o una sedia e il materasso. Saprà farsi perdonare, Carolyn, ma questa storia ve la racconto domani.



Programmo la visita di Philly, come viene chiamata amichevolmente Filadelfia, di cui vi parlerò nel prossimo post. E poi, ormai, siamo agli sgoccioli: escluso il giorno di sosta, ce ne mancano solo due da pedalare (210km circa). Il 2 settembre sera già dormiremo a New York. Quasi non par vero. Siamo GIA' arrivati?! Ma se siamo partiti poco fa, ieri l'altro, o forse una settimana fa, un mese, dieci anni o un secolo, ma credo ieri, non ricordo!

Vi lascio, in ringkomposition, con la bellissima poesia di Machado in apertura, un regalo ricevuto di fresco, come un mazzo di fiori.

"Tutto passa e tutto resta,
però il nostro è passare,
passare facendo sentieri,
sentieri sul mare.
[...]
Viandante, sono le tue orme
il sentiero e niente più;
viandante, non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando.

Camminando si fa il sentiero
e girando indietro lo sguardo
si vede il sentiero che mai più
si tornerà a calpestare.

Viandante non esiste il sentiero,
ma solamente scie nel mare…"

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