mercoledì 10 luglio 2024

10-12. Isan: templi khmer, risaie, monsoni e... Brontosauri!












8/7
Nakhon Ratchasima-Phimai
95km

Pronti, gira il copriletto macchiato di lubrificante per la catena e nascondi il misfatto, partenza, fai check out con la nonna che è ancora lì in dispensa e chiama la sciura, che controlla la camera ma non si accorge di nulla, e ci ridà i 100 baht di cauzione, e via! Subito contromano sullo stradone. Oggi iniziamo proprio con il botto!
D'altronde, pasticci d'unto a parte, il primo problema che ci si pone oggi è quello di tornare dal lato giusto della carreggiata, e le 3 corsie per senso di marcia non sono comunicanti (ci sono muretti alti e fossato a separarli). Quindi facciamo come fanno tutti qui, e usiamo la corsia di emergenza per portarci al primo passaggio dove si può fare inversione. Ed eccoci di nuovo in traccia. Direzione: Phimai. Si tratta di un paesino abbastanza di strada per il nostro percorso generale, dove si trova un parco archeologico che pare degno di considerazione. Lo stesso, e molti colleghi storici e letterati qui storceranno il naso, non vale per me per Ban Prasat, località non distante da dove ci siamo fermati per la notte; qui tre millenni fa si è sviluppata una civiltà primitiva sopravvissuta 1500 anni coltivando riso e addomesticando animali, tessendo, producendo ceramiche variopinte e utensili in bronzo. La lunga campagna di scavi che ha portato alla luce tutto questo si è conclusa nel 1991; alcune trincee sono rimaste aperte per i turisti e i manufatti sono raccolti nel museo locale. Però, sinceramente, mi attira di più il complesso di Phimai, khmer, imponente, cazzuto, più immaginario Indiana Jones come piace a me. E allora via, sotto a un cielo vagamente minaccioso che promette e, per fortuna, non mantiene.


Per raggiungere il centro di Nakhon Ratchasima, che i local chiamano Khorat per brevità. E' una delle maggiori città del paese e la più importante  (per economia, politica, servizi) dell'Isan, ovvero la Thailandia nord-orientale; conta poco più di 120.000 abitanti. La storia di questa città affonda le sue radici in profondità nel passato. Come dicevo sopra in merito a Ban Prasat, qui si si sviluppò la cultura Dvaravati associata al popolo Mon, che diffuse il buddhismo nella regione. Dal IX secolo la zona entrò a far parte dell'impero Khmer (che sfruttarono la regione con saccheggi e deportazioni di schiavi). Declinato l'Impero Khmer, fu la volta dei Thai, prima con il regno di Sukhothai (XIII secolo) poi di Ayutthaya (dal 1438). Khorat rimase però sul confine con il regno di Lan Xang, primo grande stato dei laotiani. Poi ci furono invasioni khmer, imponenti rivolte soppresse nel sangue contro i re thai e pure diverse lotte tra pretendenti al trono del Siam che coinvolsero la città. Solo con Rama I, fondatore di Bangkok, Khorat fu annessa al Siam, a fine Settecento.
La prima e unica cosa che mi interessa vedere è il Thao Suranari monument; il santuario è dedicato alla moglie del vicegovernatore durante il regno di Rama III, che qui è considerata una vera e propria eroina. Ya Mo (nonna Mo), nel 1826, organizzò con successo una rivolta di prigionieri contro Chao Anou di Vientiane, che aveva conquistato Khorat dopo essersi ribellato al Siam. Secondo la versione della leggenda, Ya Mo convinse le donne a sedurre i soldati laotiani (secondo un'altra li fece ubriacare), così le milizie thailandesi riuscirono a riorganizzarsi e sferrare un attacco a sorpresa salvando la città. Accanto sorge un tempio probabilmente fondato da Ya Mo stessa, dove sono conservate metà delle sue ceneri (l'altra metà sotto al monumento). Si possono ingaggiare cantori per onorare la sua memoria.





ma Topolino e il coniglietto sotto acidi nel paco del tempio?

Ci lasciamo Khorat alle spalle piuttosto agevolmente, anche perchè, fuori da questi pochi punti di interesse, non ha molto da offrire, se non traffico un miscuglio di scuole e ospedali afferenti a tutte le confessioni, comprese cristiana, musulmana e indù. E anche intrè. Dopo aver superato alcune zone un po' incasinate e polverose di mercatacci un po' lezzi, da cui emergono odori di cibo contrastanti, ora da acquolina (aglio, peperoncino, frittura) ora nauseabondi (pesce sospettissimo, interiora buttate sulla griglia).



Lasciata alle spalle anche la periferia ultima di Khorat, pedaliamo per un tratto lungo bacini artificiali dove schiere di cormorani si asciugano le penne al sole (che beffarda è stata la natura con loro: uccelli d'acqua che si nutrono di pesce... Ma si inzuppano come cotone ogni volta che si tuffano. Gettoni evoluzione spesi non benissimo, diciamo). A chiudere una sorta di parco acquatico che pare nuovo ma semiabbandonato. Qui svettano sculture di dubbio gusto, in parte raffiguranti animali, reali e mitologici, in parte altri esseri, dai Pokémon ai personaggi di Dragonball.





un altare dentro cui dormono due cani, che trovano lì un poco di ombra, e ovviamente ci inseguono. Perro-pagoda, vade retro!

nei prati attorno alle misteriose sculture, qualcuno tiene l'erba in ordine

Imbocchiamo di nuovo, per breve tratto, lo stradone che ci ha condotti in città, su cui si affacciano radi paesi, preannunciati sempre da enormi portali di ingresso decisamente sovradimensionati. Immancabile la foto della coppia reale... Mi chiedo quanto tempo possa volerci, quando muore un sovrano e ne viene incoronato un altro, a sostituire tutte queste immagini. Ce ne sono centinaia di migliaia, esposte in pubblico, e pure nelle case. Un'impresa titanica! Per fortuna pare siano abbastanza longevi.



Prima di lasciare questa grossa arteria che porta dritti a nord, e che ci accorgerebbe le tappe, ma è monotona e poco interessante, facciamo una sosta: siamo poco oltre la metà dei kilometri da percorrere oggi. Caffè, panino e succo per Gigi, e si riparte tuffandoci nelle campagne tutte a risaie e coltivazioni, qui, di peperoncini. Ce ne sono talmente tanti, rossissimi, maturi, che persino l'aria è piccante. Seguiamo torrentelli e stradine che collegano un villaggio all'altro. Ci colpisce la quantità e la grandezza di templi, statue sacre, altari e stupe (è il plurale di stupa?! O è un nome invariabile? E lo stupirone?). Quattro capanne, due palafitte, tre polli e sei anime... M dieci sculture del Buddha. Ai cui piedi pascolano zebù e vacche magrissimi. Intorno distese di verde chiarissimo a perdita d'occhio. Risaie. Coltivazioni di spinaci d'acqua. Palme, banani. E altre piante che non so riconoscere. E poi si sentono gridi d'uccelli ignoti, che sanno di esotico, di giungla. Intravedo alcuno scoiattoli grossi e bianchi, dalla coda foltissima, trafficare sui rami; oltre, ovviamente, a un'infinità di aironi, garzette e cavalieri d'Italia. Il fondo è asfaltato ma un po' scassato. Tuttavia si pedala bene e si respira una pace antica, di un tempo che scorre più lentamente, e non fugge, ma cammina al passo delle stagioni. Si sta bene, è rilassante pedalare qui. Quasi quasi vien voglia di schiacciare un pisolino all'ombra... O forse è il coccole da colpo di calore che sta per abbattersi su di me. 






garetta?



A volte la strada passa proprio all'interno dei cortili dei santuari, permettendoci di vederne un'infinità da vicino. Per lo più sono deserti, ma, a giudicare dall'ordine e dalla pulizia che vi regnano, e dal numero di offerte, qualcuno se ne occupa assiduamente.
Sto appurando che la Thailandia, almeno per il poco visto finora, è davvero una terra fertile, ricca d'acqua, di fiumi e laghi, torrenti e marcite. Tutto alimentato dalle abbondanti piogge, quando è stagione. E ora è proprio stagione. Ma il monsone oggi ci risparmia. Sta davanti a noi di qualche decina di kilometri: il cielo è nerissimo e si vedono muri d'acqua in lontananza. Quando passiamo, la strada è fradicia e le pozzanghere ancora fresche. Però non ci tocca, oggi. Sta diluviando ora, mentre scrivo, ed è notte, e noi siamo a tetto in una bella casa tradizionale tutta in legno.




Pedaliamo gli ultimi venti kilometri su una strada dritta e larga, ma deserta, che porta a Phimai, la nostra meta di oggi. Arrivando si mostra come un'anonima cittadina, con i suoi mercati, le sue bancarelle da cui esala fumo speziato, e i suoi sciami di motorini. Ma racchiude un tesoro nascosto proprio nel suo centro, una gemma nell'ombelico. Si tratta di un parco archeologico che conserva un incredibile complesso di templi khmer che addirittura ispirò gli architetti del celebre Angkor Wat cambogiano. Stava sulla strada che collegava la capitale dell'impero, Angkor, alle regione più settentrionali. I custodi gentilissimi ci permettono di lasciare le bici, cariche, presso il loro gabbiotto, all'interno già del complesso. L'ingresso costa 100 baht (poco più di due euro) e permette anche di visitare un piccolo museo degli scavi.








Sorto inizialmente come tempio buddhista mahayana, presenta però anche numerose sculture di divinità induiste. In questo luogo protetto dalla natura già nell'VIII secolo esisteva un tempio, ma la gran parte degli edifici risale alla fine del XI secolo, voluti dal sovrano khmer Jayavarman VI. Nel complesso si entra attraverso un ponte naga a pianta cruciforme, che, secondo la cosmologia buddhista e induista, rappresenta la connessione tra terra e cielo, tra umano e divino, tra ctonio e celeste. Poi si passa attraverso una porta che permette di superare le mura esterne (565x1030 metri). Gli edifici sono orientati a sud, caratteristica insolita per i templi khmer, di solito rivolti a est. Un passaggio rialzato, un tempo coperto da un tetto di tegole, porta verso il santuario principale: 28 metri di torre in arenaria bianca ornata da raffinati rilievi. All'interno di una torre adiacente, più piccola, si trova la copia di una statua di un re di Angkor in posizione di meditazione, che pare un Buddha. L'originale è al museo nazionale di Phimai. 






un Gigi versione umarell controlla il cantiere







Finita la visita siamo esausti, ma soddisfatti. Davvero questo complesso è incredibile. Esprime tutta la solennità, il rispetto e l'austerità che i centri di potere (e la fede ne è sempre forte strumento) vogliono incutere. Oltretutto i turisti sono pochissimi, e ci si può godere l'intero sito con calma, nel silenzio. Avrete notato nelle foto un monaco ricorrente: ebbene, si è fatto fare un milione di foto. A scattare è stato Gigi, a differenza del solito, perchè i monaci non possono avvicinarsi alle donne, nè tantomeno sfiorarle. Lo avrei messo in difficoltà nel prendere il suo smartphone direttamente dalle sue mani...
Viene a questo punto il momento di fare check in nella struttura che ho prenotato ieri su Booking per dieci ricchi euro a notte. Si chiama Une Jai Place. E' una casa tradizionale thailandese tutta in legno, tenuta con una cura che quasi commuove dal proprietario attempato, che, per di più, parla inglese. Lasciamo le bici in cortile (le leghiamo, ma secondo lui non serve... A quanto pare i furti qui non sono frequenti) e le scarpe alla reception. La camera è spaziosa come un piccolo appartamento, ha il bagno privato, l'aria condizionata, arredamento minimal tradizionale... Sembra di essere in una foto promozionale di Maisons du Monde. Con prezzi diversi però. Doccia, mezz'ora a collassare al fresco studiano la traccia di domani e poi via a cena, chè abbiamo una fame da lupi. Da volpi. Ma le volpi a pedali.






pancia di geco alla finestra

Il mercato sta chiudendo, quindi optiamo per un locale che sembra offra ottimo cibo thai; Gigi ha voglia di frittata da giorni, e se la leva con il riso vestito di sei metri di omelette. Io vado di riso e verdure. Poi condividiamo un piatto di verdure in tempura con salsa dolce al miele, ed è tutto buonissimo, e non lo dico perchè affamata. Davvero, qui si mangia divinamente. 




Poi usciamo a far due passi; le bancarelle non ci sono quasi più. Sono rimasti solo alcuni ubriachi vocianti ma non aggressivi, solo storti (sono i primi che vediamo così. Qualche senzatetto ogni tanto si incrocia, e sono per lo più anziani consunti, magrissimi, con la pelle che pare cuoio scuro e le ossa in vista). Abbiamo voglia di frutta, e vediamo il fruttivendolo andarsene, camminando e spingendo l'intera bancarella che è su ruote. Sostanzialmente lo inseguiamo fino a casa sua. Sta per buttare tutto il banco in garage, quando gli piombiamo addosso armati di torcia del telefono e gli chiediamo di acquistare qualcosina. Lui, pur stanchissimo (si vede dal viso, non parla inglese) acconsente. Il nostro raid dà però coraggio ad alcune vecchiette, che ne approfittano per una spesa dell'ultimo minuto e si mettono in coda dietro di noi. Povero fruttarolo! Oggi fa gli straordinari.




la via di casa del fruttivendolo


Ce ne torniamo in camera con la preda: una bottiglia di questa cosa, che si rivela deliziosa (e poi vuoi non assaggiare una bevanda di questo colore, che si chiama kamikaze? Impossibile! Se ve lo state chiedendo, sì: tinge. Sembro Puffetta dopo che ha puffato con tutto il villaggio dei puffi -che lei è l'unica femmina, poveretta)


Quanto alla frutta, oltre ai classici dragon fruit, oggi mi lancio nell'assaggio di questi altri aggeggi, che sembrano minuscole melanzane. Mele anziane. Sono i mangostani. Nome che mi pare una crasi vorace di mangusta agostana. Si aprono e contengono una polpa bianca divisa in spicchi dolcissima. Paradisiaca. Frutto dell'anno, scoperta grandiosa. Devo ringraziare il Balini, Human Safari, che li ha pubblicizzati benone. E a ragione!


faccia da farang!



9/7
Phimai-Chonnabot
117km

Piove tutta la notte, forte, a scrosci violenti, come se la furia di ogni divinità di ciascuna religione che ha conosciuto questa terra dovesse manifestarsi con potenza devastante. Temo di svegliarmi ancora sotto all'acquazzone, e invece splende un timido sole velato da nubi alte. Le strade sono già incredibilmente asciutte quando scendiamo a bere un caffè offerto dal nostro cordiale ospite, che ci fa trovare il bollitore acceso e le bustine di Nescafè sul tavolo (ma lui non si palesa). Dopo un attimo di inquietudine dovuta allo smarrimento presunto di una chiave dei lucchetti con cui abbiamo chiuso le bici per la notte ("Dalle a me le chiavi, che tu le perdi" ipse dixit), siamo pronti a partire. Ci aspetta una tappa piuttosto lunga, come la si giri la si giri, che si imposti come modalità la bici da corsa, il gravel o il cicloturismo. Sto usando Komoot per disegnare le tracce, è il primo viaggio in cui uso quotidianamente questa app. E mi sto trovando bene direi, devo solo farci la mano. Quindi via che si va, costeggiando le mura del complesso di templi di Phimai.


Con la sfiga sui cantieri che in questi giorni ci perseguita, incappiamo subito in una strada chiusa per lavori; la necessaria deviazione ci permette però di passare vicini alla seconda grande attrazione di Phimai: Sai Ngam. Si tratta di un immenso albero di baniano, forse il più antico della Thailandia, con i suoi 350 anni portati benissimo. Non ci lasciamo sfuggire l'occasione e facciamo una piccola deviazione per ammirare questo gigante silenzioso, che cresce su un'isolotto in mezzo a un piccolo lago. L'intrico di rami, tronchi, propaggini e liane crea un'intera foresta labirintica, con tanto di colonne e passaggi, archi e sentieri. E tutto questo è un solo unico gigantesco albero! Davvero incredibile. Non mancano altari qua e là e, intorno all'isola, accessibile solo ai pedoni, sorgono numerose bancarelle e ristorantini.







Riprendiamo la traccia e, per i primi 50km, rimaniamo immersi nella più tranquilla atmosfera dell'Isan rurale. Le strade si fanno sempre più strette, e l'asfalto cede il passo a lastroni di cemento o a terra battuta rossa rossa, color mattone. La vita scorre lenta, al passo molle degli zebù, che vengono portati al pascolo e fanno la loro placida vita di bovini gobbuti. Ne vediamo tantissimi oggi, e li apostrofo sempre più spesso: "Zebù! Zebulli! Zebusi!" e via così fino alla morte dell'ultimo neurone. E poi ci sono le risaie sconfinate, dove il verde chiaro si mescola a frammenti di cielo riflessi nell'acqua, e il fango si mescola alle nuvole. Qualche grido d'uccello ogni tanto, qualche nota di musica che viene da lontano, e suona tanto vicina e sa di umano in mezzo a questa natura naturata che in un nulla può tornare naturans. Quasi quasi son paesaggi che ricordano le nostre campagne lombarde, non fosse per le palme, gli animali esotici, tutto questo riso e gli spinaci d'acqua e soprattutto le castagne d'acqua. Questi ultimi due alimenti, per quanto assaggiati in queste due settimane thai, hanno un nome che mi mette i brividi. Non so perchè, ma mi sa di roba mucillaginosa. Poi mica è così. Però, dai, castagna d'acqua non si può sentire. Sembra il nostro detto de "i castegn in di mudant", con l'aggiunta di immagini di fondali fangosi e torbidi di parassiti. It's a no-no. 








Incrociamo pochissimi, microscopici villaggi, tutti capanne in legno e palafitte, ma, come sempre, non mancano templi, anche enormi, e altari, statue gigantesche e cimiteri palesemente sovradimensionati per il numero di abitanti. Lo stesso vale per le scuole, anch'esse grandissime e curatissime, ma con pochi bimbi che vociano e ridono in cortile (di solito con musica per bambini sparata a palla. E' un bel sistema per stordirli e tenerli così a bada, brave maestre). 






Ancora mi stupisce la quantità di torrenti, fiumi, laghi, canali artificiali e invasi ci siano. E' davvero una terra benedetta, da questo punto di vista, fertile e grassa. Infatti è popolata (e contesa) da millenni e l'agricoltura è sempre stata più che centrale nella vita del paese. Incredibile poi è come in ogni specchio d'acqua un po' ferma cresca un tappetto di fiori di loto, bianchi o rossi. E pazzesco è anche come la terra rossa dia una sfumatura rosata alle risaie e ai laghetti, che poi riflettono un cielo che pare sempre d'alba appena sbocciata. Uno spettacolo fatto di fango e marcite, ma quanta bellezza!








Dopo i primi 50km, che non sono nemmeno metà tappa, decidiamo di fare una sosta perchè per colazione abbiamo solo bevuto il caffè e cominciamo a sentirci vuoti. In più il sole ora è tutt'altro che velato, e morde, azzanna ferocemente la pelle. Siamo abbrustoliti, nonostante la crema protettiva. Facciamo sosta presso un negozietto di alimentari e approfittiamo anche di una bancarella della frutta per fare il bis di dragon fruit e mangostani, che ieri ci sono tanto piaciuti. Sediamo all'ombra insieme ai cani randagi e a una signora che chiede l'elemosina, e non è tutta in bolla. Viene anche a dirci qualcosa, mentre ci tocca la schiena, e non sappiamo se sia una benedizione o un anatema.



Ripartiamo. Per circa 20km la traccia ci fa stare sul solito stradone, il 2, che in questi giorni percorriamo spesso, a tratti. E' un'arteria che a dritta a nord. Ci si corre sopra come palle da biliardo lanciate nell'iperspazio senza attriti, ma il traffico è intenso e, per di più un cantiere riduce la carreggiata ad una sola stretta corsia. I camion a volte aspettano dietro di noi, mettendoci il pepe al culo, altre, più frequenti, ci superano quasi rifilando una fettina di prosciutto di volpe. Che stress! Per fortuna in meno di un'ora siamo fuori, e imbocchiamo di nuovo la via dei campi.
Qui ci sono mondine con i grandi cappelli di foglie di palma e contadini chini a raccogliere il riso, perchè la terra è bassa in tutto il mondo e da queste parti è pure fradicia, e si sta con i piedi nell'acqua e la schiena curva. Gli aratri sono a motore, ma comunque spinti a mano, come carriole. 
ma questo aereo parcheggiato a bordo strada?



Facciamo una seconda, e teoricamente ultima pausa per bere qualcosa di fresco. Io, dopo i due litri di "Kamikaze" blu di ieri, mi sento ispirata e mi lancio su una gelatina azzurrognola con tanto di palline colorate che paiono proprio di plastica. Le considero edibili, ma magari sono come i sassolini per le galline o le pallette che si mettono in asciugatrice per catturare i pelucchi. Però è buono questo intruglio! Gigi da giorni viaggia con simili gelatine da bere, alla frutta, che lui chiama "collagene" perchè sulla confezione c'è scritto che ne contengono. Ma nella sua accezione collagene significa "colla vinilica" perchè la consistenza assomiglia molto.


Torniamo a pedalare ed il cielo diventa preoccupantemente cupo. Si sentono tuoni in lontananza e si alza un vento sospetto, troppo fresco. Noi chiediamo la grazia al tempio degli elefanti rosa, che svetta in mezzo a un villaggio di tre case in croce. Ma poi perchè gli elefanti rosa? Si sa che portano merda soltanto a nominarli, come insegna Dumbo con il suo trip da LSD (https://www.youtube.com/watch?v=Ue_3DNZcjrk&t=275s) .  





E infatti la grazia non arriva, ma ci coglie in pieno un diluvio monsonico fatto e finito; per i primi kilometri la pioggia è intensa ma senza vento e comunque la visibilità rimane buona. Poi si scatena l'inferno. Scompare la luce, al punto che vengono accesi i lampioni, sulle strade che ne hanno, e la gente si rifugia nelle case o sotto alle tettoie in un fuggi fuggi generale di motorini, bancarelle a rotelle e baracchini dello street food a pedali. Noi troviamo riparo ad una fermata del pullman con pensilina, ma la situazione sembra via via peggiorare. Lampi lunghissimi squarciano il cielo nero, tuoni da far tremare anche le vene dei polsi rimbombano proprio sopra di noi, sempre più vicini. Le strade sono completamente allagate, e non si vede nulla. Alla destinazione mancano ancora 17km. E una volta là non abbiamo certezza di trovare una camera: su Maps si vedono delle strutture, ma nessuna ha un sito o un recapito certo. Gigi propone di fermarci qui, nel paesino dove siamo. Ma non è tardi, nonostante sembri notte. E allora, con il mantra teutonico del "Non siamo fatti di zucchero", ci bardiamo con i k-way e ci lanciamo dritti in pasto al monsone. Un elemento positivo c'è: il forte vento è a favore. Voliamo in un muro d'acqua fittissimo, acqua dal cielo, acqua da terra, dalle pozze in cui si affonda fino alla caviglia, pur restando in sella, acqua dai rami, sollevata dalle rare auto che passano, acqua dappertutto. Ma non fa freddo, e in qualche modo riusciamo a portarci fino a Chonnabot, la destinazione di oggi. I pochi passanti suonano il clacson e fanno il tifo per noi, che andiamo contro la furia degli elementi con un uno scudo di plastica fine.









Luci distanti e tremule, gialle nel grigio nerastro, segnalano che siamo arrivati davvero. Prendiamo posto sotto ad una tettoia, insieme ai cani randagi come noi, e decido al volo verso quale puntino rosa con il disegnino del letto che Maps indica dirigerci. E' un po' fuori dal centro, ma sembra affidabile: ha commenti e valutazioni recenti, anche di pochi giorni fa (mentre gli altri no). Certo, i feedback non sono molto positivi e segnalano laconicamente due problemi: zanzare (oh no) e cacca di lucertola (OH NO!). Ormai zuppi e carichi di litri d'acqua e fango voliamo all'indirizzo prescelto (Gigi è sconvolto dall'esperienza e si è chiuso in un mutismo da trauma). Un omino attempato, vestito da calciatore, con i radi capelli fradici di pioggia ci vede arrivare, si affaccia all'uscio e fa segno che possiamo entrare. Benedetto magnanimo ometto dal look straniante, per te che stai tutto il giorno tra statuine del Buddha, gatti cinesi che salutano con la zampina e confezioni di noodles istantanei, che tu sia lodato sempre! Facciamo così pena che nemmeno ci fa levare le scarpe quando entriamo. Ci mostra la stanza, acconsento immediatamente. Non vuole i documenti. Solo 500 baht. Gliene darei anche il doppio, ora come ora, nonostante ci siano e le zanzare, una sinfonia di numerosi altri insetti, e la cacca di lucertola (o di ratto? Mi sale un atroce dubbio, ma pace... Per una notte, per QUESTA notte, va benissimo). Ci sono acqua calda e un balconcino dove buttare tutte le cose bagnate. E tanto basta.



Questa sera, per cena, decidiamo di far spesa in una specie di supermercato piuttosto grosso per gli standard di qui, che è a 500 metri dall'albergo, perchè non abbiamo voglia di avventurarci in paese sotto al diluvio, che seguita, in cerca di un ristorante. Siccome sto prendendo confidenza, decido di assaggiare uno dei numerosi snack di pesce essiccato che vedo da quando sono qui. Opto per quelli che scopro essere gusci di gambero fritti. Che sanno, incredibile dictu, di pesce fritto. Poi si sa che fritte son buone anche le suole delle scarpe, figuriamoci gli scarti dei ragni di mare.  



Domani ci attende una tappa breve, poco oltre i 50km: abbiamo rimodulato il programma in modo da goderci di più le tappe e vedere meglio questi luoghi. Prima di spostarci a Khon Kaen (dove ho prenotato una camera doppia d'albergo a due stelle, in centro, per 8 ricchi euro) daremo un'occhiata a Chonnabot, dove siamo ora. Mica siamo passati di qui per caso! Questa cittadina è il fulcro di una delle regioni più rinomate della Thailandia per la produzione della seta, nota per i mat mee (tessuti in seta colorata) di eccellente qualità. Non faremo shopping, ma approfondiremo questa particolare forma di artigianato presso il locale museo, Sala Mai Thai, che è qui a un passo dall'hotel. 


10/7
Chonnabot-Khon Kaen
55km

Avete presente i bei programmini di ieri, di visitare il museo della seta, di fare una tappa breve con calma, visitare Khon Kaen... Ecco, tutto da rivedere! Il problema principale è che il mio smartphone, quello che uso per fare le tracce, navigare, scattare foto, tradurre, pagare, eccetera eccetera, sta, per usare un francesismo, andando a dare via il culo. Già era sull'orlo del collasso prima di partire (vanta 5 anni di onorato servizio in condizioni diffilci). Ora tra monsoni e prese un po' ballerine non ha retto. Il pc non lo sente più. Non si carica. Lo schermo (crepato) pare una acquario con tanto di alghe. Per fortuna Khon Kaen, la vicina meta di oggi, è famosa per i suoi mercati e i suoi centri commerciali. Quale miglior luogo per comprarsi un nuovo telefono? Mi sale un senso di morrrte ungarettiana alla sola idea di trasferire dati, contatti, account e parafernalia varia. Ma l'alternativa è farsi da qui a fine settembre con tutto il comparto tecnologico dimezzato e zoppo. Si può, certo. Ma si può anche risolvere subito e poter vantare per i prossimi anni di avere uno smartphone thai.
Per partire, però, ci vuol del buon tempo. Tutto è ancora zuppo da ieri. Mettiamo ciò che va usato per forza (scarpe, casco...) in cortile, al sole, che però ancora è delicato e timido. Il finisce o chiuso ermeticamente nei sacchetti delle cose da lavare, o tocca indossarlo. E tutto puzza, pute fortissimo. Di cane bagnato, ma bagnato e morto, da giorni, e già putrido. Lasciamo una scia fetida e un po' mi vergogno, ma anche questo fa parte del viaggio.
L'omino che ieri ci ha dato la camera ci offre un caffè solubile, dopo aver recuperato due bicchieri infangati in cortile e averli sciacquati con la canna dell'acqua che sta a terra. Gigi gli compra due merendine, per un totale di 5 baht (0.15 euro). Facciamo un po' di conversazione a singole parole-chiave (Italy, bike -mimando con le mani la pedalata- all Thailand, today Khon Kaen). Lui resta un po' in disparte, a distanza, e lo capisco. Mi stupisce non abbia i conati dal puzzo che esala dai nostri vestiti.

foto dell'omino a militare e della sua famiglia

opere d'arte di gusto discutibile

il lago fuori dall'hotel, che ieri era invisibile causa pioggia

Con una certa lentezza partiamo, e i primi kilometri trascorrono su strade più o meno ampie in mezzo alle campagne. Per largo tratto i campi non sono coltivati: la fa da padrone il loto, che copre di una distesa verde e spessa le marcite e gli stagni. Tutto è ancora fradicio da ieri, e il cielo non è convinto di non volersi sciogliere ancora in diluvio. Ho dormito pochissimo a causa degli insetti, che mi hanno molestata nonostante i litri di Autan. E, oltre alla spiacevole sensazione di sentire il solletico di tante zampine addosso, ho notato stamattina con sdegno e offesa che pure le zanzare mi hanno punta. Maledette bagasse! Come osate! Mi chiedo quanto tempo ci mettano malaria, dengue e zika ad incubare prima che si manifestino i sintomi... Probabilmente qualche giorno. Per forza adesso sto bene ancora! I conti si faranno più oltre. Comunque, ipocondrie a parte, fatico a pedalare, per il poco sonno e la stanchezza delle prime settimane di viaggio. Il corpo umano è una macchina meravigliosa, e si abitua a tutto, ma necessita di tempo. Natura non facit saltus, diceva qualcuno. Nec vulpes, aggiungo io.







La mollezza stanca è tale, e tanto stride con l'ansietta di arrivare presto per risolvere tutte le questioni, che nemmeno scatto foto ai pochi villaggi che incrociamo. Sono identici agli altri, eh, con palafitte in legno e capannucce, tanto fango e poca gente, zebu e canetti e pollame in giro a razzolare. La cosa particolare è che sotto alle verande stanno sedute signore intente a stendere quello che credo sia zafferano. Ci sono tovaglie bianche a terra, coperte di filamenti arancione e rosso acceso. Credo proprio siano stimmi della pregiata spezia.
Arranco su stradelle sempre più impegnative, anche perchè, pure là dove sono asfaltate, le piogge hanno creato enormi pozze e portato mucchi di terra color mattone, fradicia, in cui si scivola e affonda. Trascinare la Signorina Felicita è una pena.
Dopo una trentina di kilometri, e questa volta posso dire: finalmente!, lasciamo le viuzze per tornare sul nostro solito stradone. Intanto le nuvole si sono aperte a sipario per lasciare che inizi lo spettacolo dell'ustione quotidiana, quando il sole va in scena per davvero. Ci concediamo, molli di afa, una sostina. Gigi mi ha convertita al "collagene".
A proposito dello stradone, o Highway 2: ho scoperto che viene chiamato anche "Friendship Highway" perchè collega Bangkok al Ponte dell'Amicizia sul Mekong, che collega i confini thailandesi e laotiani.



Essendo tappa breve, non manca molto alla meta, e questo, onestamente, mi rincuora. Incappiamo nella statua in costruzione di quello che pare un monaco dorato giganorme con portale cinese. Che sia Confucio? Che sia confuso? Mi sento una analfabeta, non so decifrare nemmeno i simboli più palesi. Socraticamente so solo una cosa: di non saper nulla.


Arrivano i confini della città, che è la quarta più grande del paese con i suoi 140.000 abitanti (ed è una della "Quattro grandi" dell'Isan, con Nakhon Ratchasima, già vista, e Udon Thani, meta di domani) . Siamo sull'altopiano del Khorat, accanto al fiume Chi. Qui ha sede l'università più grande della regione nord-orientale, ed è un centro di commerci importante, oltre ad essere una città giovane, dinamica e sempre in movimento. E' più un posto dove trasferirsi a vivere, che da visitare come turisti. Ma una cosa incredibile da vedere c'è, e ce la godiamo subito, appena mettiamo piede in città. Si tratta del Wat Nong Wang, un complesso di templi affacciati al lago Bueng Kaen Nakhon, circondato da un delizioso parco. Su tutto svetta il Phra Mahathat  Kaen Nakhon, imponente stupa a nove piani. Le balconate sono adorne di migliaia di campane a vento, che producono un suono che sa di mistico e sacro. Nel cortile ci sono gong dipinti, statue di Buddha e zoomorfe, serpentoni pluricefali e persino dei brontosauri. Sembra Gardaland! Ma qui ci sono immagini di dinosauri ovunque. Nel vicino parco nazionale Phu Wiang, nel 1976 un geologo che cercava uranio incappò per caso in una rotula di quello che poi i paleontologi definirono un dinosauro erbivoro di 15 metri. E via con la febbre da sauro! Sono stati trovati fossili e orme.  







All'interno il salone è decorato con moderni dipinti murali che si ispirano alla cultura dell'Isan e alla storia di Khon Kaen. Ci sono numerosi fedeli che portano offerte (alle statue del Buddha, o ai monaci, in forma di beni di prima necessità che vengono anche venduti in cesti simil-natalizi preconfezionati nei supermercati); qualcuno ascolta sermoni, qualcun altro scuote scatole piene di monetine sopra al fumo dell'incenso acceso. Qualcuno si confida, qualcun altro (io) saluta una statua di cera iper realistica.









Dopo esserci goduti la pace di questo luogo, ci dirigiamo in hotel. Lo ho prenotato ieri per una cifra ridicola, e temo il peggio. Invece no! L'edificio è datato e fatiscente, fuori cade a pezzi, ma dentro ancora resiste. La camera è enorme e, importantissimo plus, ci sono lavatrici e asciugatrice a gettone nella lobby, oltre ad un forno a microonde e un bollitore. Doccia e SUBITO ne approfittiamo per lavare tutti i vestiti puteolenti pieni di sudore e pioggia e fango. La signora della reception ci vende anche il detergente, e, non fidandosi di due ciclofarang, ci guida passo passo nello schiacciare i pulsanti giusti. Fa bene: al nostro attivo abbiamo un ampio numero di lavatrici distrutte, bruciate, intasate, fatte esplodere in giro per il mondo, nelle Americhe, in Asia e pure nel nostro vecchio continente. Ovunque, di fatto.

where's Waldo? Where's Gigi?



Mentre aspettiamo che il lavaggio dei vestiti ci liberi dal male, facciamo due passi per il quartiere, che è tutto negozi e ristoranti e localini e bancarelle. Ma di lusso! Ciascuno con i suoi altarini compositi fuori dall'uscio. Ci buttiamo anche in quello che pare un centro commerciale, e, al secondo piano, incappo in una serie di stand che vendono smartphone. Inizia una serissima indagine di mercato: voglio un Samsung, perchè so come funzionano e ci vuol poco a travasare i dati dal vecchio al nuovo (lo ho appena fatto per Gigi, prima di partire, chè per il suo compleanno gli ho regalato un telefono nuovo). Non voglio spendere più di quanto spenderei a casa, e, se possibile, vorrei una fotocamera dignitosa. Intendersi con i commercianti non è facile, perchè parlano poco o nulla inglese. Per capire bene i prezzi devo continuamente convertire in euro. E poi io non so una mazzafionda di smartphone, quindi per ogni modello che mi viene mostrato devo cercare anno di rilascio, caratteristiche eccetera. Escludo i ricondizionati: per le cifre che mi stanno proponendo, non vale la pena. Alla fine ricado su un Galaxy A05s, che è un ottimo compromesso tra tutto. Ma il venditore mi dice che non ce l'ha lì per lì disponibile, che un corriere glielo deve portare, e che ora piove, quindi ci metterà almeno un'ora. Parte il conto alla rovescia. Nel frattempo acquistiamo nastro adesivo, che ci serve per alcune riparazioni d'emergenza, e lubrificante per la catena delle bici: le ultime gocce rimaste del nostro, dopo il disastro dell'altra sera, si sono disperse come sacro crisma nella borsa di Gigi, che ora manca solo di sale ed è perfettamente condita. E ne abbiam bisogno, però: con i monsoni quotidiani le catene sono letteralmente arrugginite! Inguardabili. E anche il rumore e la sensazione di attrito che danno pedalando mettono i brividi. Torniamo in hotel sotto al diluvio, e per fortuna ci sono portici e tendone a riparare i marciapiedi. Trasferiamo i vestiti dalla lavatrice all'asciugatrice, e torniamo al centro commerciale. 

altarini per fatturare bene

decorazioni per ventilatore: assolutamente necessarie!




i portici servono a tutti

Qui, quasi tornati al banchetto dove stavo acquistando prima il telefono, mi cade l'occhio su un simile stand adiacente, che vende le stesse cose, ma a pezzi decisamente più bassi. Ricomincia la trafila. Chiedo alla gentile addetta e ci accordiamo su tutto. Anche qui devo aspettare che un corriere le porti il prodotto, anche qui il corriere ci mette tanto per la pioggia, anche qui non ha il modello nero ma solo quello argentato. Secondo me il fornitore è proprio lo stesso. Gigi intanto teme che il primo commerciante ci scopra e si inalberi. Gli spiego che si chiama libero mercato, legge della concorrenza. Non si tranquillizza. Per fortuna i corridoi del centro commerciale si sono riempiti di bambini e adolescenti in uniforme scolastica, che corrono, schiamazzano, giocano e si prendono un gelato in compagnia, e un po' si distrae.




Concluso l'acquisto (per poco più di 100 euro, oltre allo smartphone nuovo, ho anche pellicola protettiva e cover), torniamo in hotel ben provati da tutto questo trafficare con traduttori e convertitori. Intanto uno dei famosi mercati notturni di Khon Kaen sta aprendo, in un rapido montare di banchi e tendoni sotto alla pioggia. Iniziano a sentirsi invitanti profumini di fritto e pollo arrosto... Io non mangio nulla di solido da ieri sera! Ho una fame ferina!


Passo il resto del pomeriggio a impostare il nuovo smartphone. L'operazione è interrotta solo da un'intervista telefonica con un giornalista di Settegiorni, giornale locale per il quale ho lavorato ben 7 anni, durante l'università e nei tempi del precariato da docente. Pagavano 4 millesimi di euro a battuta. Poi hanno dimezzato, da un giorno all'altro, con valenza retroattiva al mese precedente. Le paghe qui in Thailandia sono più alte. E il costo della vita non è il nostro. Spero che ora le condizioni contrattuali siano migliorate... In ogni caso, l'articolo uscirà venerdì 12 luglio!

Finalmente siamo pronti a uscire a cena. Ci sentiamo in uno dei primi ristorantini sulla strada che ci capita a tiro. Ci sono solo locals veraci. Stavolta sono io ad attirare l'attenzione più ancora di Gigi: non solo la gente mi fissa e commenta, ma fanno pure foto a sgamo! Chissà cosa ho di così particolare. I tatuaggi forse? L'abbronzatura zebrata con tratti di grave ustione? Il mio fascino barboneggiante? Mah. Con l'aiuto di Google lens traduco il menu scritto a mano su una lavagnetta e ci prendiamo due piattoni di riso saltato con verdure e gamberi, e Gigi rinforza con una frittata da condire con ketchup. Il tutto annaffiato da una Fanta Tuttifrutti che sa di caramella gommosa.




Così, a pancia piena, soddisfatti e sazi, chiudiamo la giornata. Prima, però, una "spesina" che potremmo intitolare così: dimmi che domani hai una tappa lunga, senza dirmi che hai una tappa lunga. Ciclisti e pedalini capiranno.





3 commenti:

  1. Dall' ultima foto si vede che avete abbastanza calorie per pedalare molto! Ma quando si viaggia si rimane rapiti dagli odori dai colori e dai suoni.

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  2. Ostrega dimenticavo di dire, che siete fighissimi,come sempre!

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  3. La cosa bella di questi piatti,con salse e nomi indecifrabili..,.se le mangiano loro,noi siamo umani quanto loro,sopravviveremo anche noi.

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