Chiang Rai
Tenetevi forte perchè oggi si vola. Se Chiang Rai è una delle mete più visitate della Thailandia, nonostante si trovi nella provincia più settentrionale del paese, al confine con Myanmar e Laos, e nonostante nei decenni scorsi sia stata tristemente nota come snodo dei traffici di stupefacenti del Triangolo d'oro, un motivo c'è. In una sola giornata di sosta, che tutto è stata men che stasi, abbiamo visto esperienze diversissime, come di esistenze differenti, e vissuto più vite in una manciata di ore. La città, per sè, ha una storia antica e travagliata. Grazie alla pianura alluvionale fertile di due fiumi (Kok e Lao) e alle montagne che la proteggono, ha attirato insediamenti urbani di diverse etnie fin dal primo millennio della nostra era. La fondazione della città risale al 1262 per volere del re dei Tai Yuan Mengrai, che le diede il nome e la fece capitale del suo regno; a partire da qui, conquista dopo conquista, nel 1292 nacque il Regno di Lanna, estesissimo e potente abbastanza da restare autonomo fino al XVIII secolo, pur con vicende alterne, e respingere persino i cinesi e i birmani a più riprese. La capitale fu però spostata a Chiang Mai, che raggiungeremo dopodomani. Chiang Rai, sede di un potente governatore nonchè vicerè, e Chiang Mai, sede del trono, furono in conflitto per gran parte della loro storia, al punto da essere considerate città-stato di regni diversi, e da farsi guerra stipulando alleanze con altri potenti vicini. Nel XV secolo Chiang Rai fu sconfitta definitivamente e fece atto di sottomissione alla rivale; in questo periodo fu trovato qui il Buddha di smeraldo che abbiamo visto a Bangkok. I rapporti tra le due città, che si aggravarono di nuovo con la crisi del regno di Lanna, permisero ai birmani di conquistare il terriotorio e governare quasi indisturbati per due secoli, fino alla fine del Settecento. Furono anni sanguinosi e turbolenti, di guerre, assedi, deportazioni per ripopolare le zone rimaste senza più braccia per coltivare le risaie. Nel 1843 Chiang Rai, ormai in rovina, fu ricostruita e ripopolata, deportando qui centinaia di famiglie, e nel 1899 il regno di Chiang Mai fu formalmente annesso al Siam. Nel 1967 la rivolta comunista arrivò anche qui, e anche qui fu spenta nel sangue. Con il boom economico degli anni '80, infine, arrivarono anche qui turismo e benessere.
La nostra visita inizia dal centro, nei dintorni dell'albergo. Tra alcune grandi chiese cristiane (le prime così imponenti che vediamo) e parchi ameni, in una città ancora addormentata e silenziosa, raggiungiamo l'Hilltribe museum &education center, gestito da una no profit che si occupa di diffondere la conoscenza delle minoranze etniche numerosissime che popolano le montagne della regione. Siccome vorrei visitare alcuni villaggi, oggi o da Chiang Mai nei prossimi giorni, mi pare una buona idea affidarmi a chi si occupa di promuoverne lo sviluppo. Anche perchè queste minoranze hanno vissuto nell'emarginazione e nella discriminazione fino a quando non sono diventate utili come attrazione turistica. E lo zoo umano è stato aperto alle comitive armate di macchina fotografica e selfie stick. Peccato, ma davvero peccato, che il museo sia chiuso per il weekend del Buddha day, fesitività pubblica che commemora il primo sermone pubblico di Siddharta. Ma porca buddhana, proprio oggi.
Mestamente, soprattutto io, riprogrammiamo la giornata. Stiamo nel quartiere, che si sta nimando di mercati coperti e bancarelle, e andiamo a visitare i due templi più interessanti, il Wat Phra Singh e il Wat Phra Kaew.
Il primo risale alla fine del XIV secolo, e presenta strutture in legno nello stile tipico della Thailandia settentrionale, con bassi tetti a spioventi. Il santuario principale è protetto da porte in legno imponenti e finemente intagliate da artisti locali, oltre a una copia del Buddha di Phra Singh di Chiang Mai. Essendo giorno di festa religiosa, il via vai di fedeli, già solitamente piuttosto animato, oggi è più vivace che mai. Ci sono famiglie in visita, beghine che sistemano fiori e accendono incensi, ragazzini che si fanno mille foto davanti ai templi... A me colpiscono sempre l'opulenza delle forme, degli intrecci, degli intarsi, dei brillocchi, delle forme e pure dei colori. Bianco, oro, rosso e qui persino un bel rosa carne di porcello! Ha ragione Gigi quando si chiede come tutto ciò si coniughi con quel predicare l'impermanenza tipico del buddhismo, che tanto poi piacque anche ai primi filosofi d'Asia minore, e in Antica Grecia...
Da qui, passando per un inquietante ospedale lugubre d'aspetto e nome, dedicato a febbri e infezioni tropicali (brrrr!) ci poetiamo al tempio più venerato della città, il Phra Kaew, chiamato anche Tempio della foresta di bambù. E' gremito di fedeli, che vengono scaricati con autobus e pullmini privati a frotte, al punto da richiedere la presenza di vigili che, a suon di fischietto, dirigono il traffico, mentre i monaci in cortile intonano un canto basso e monocorde. Il chedi ottagonale alle spalle del tempio risale al XIV secolo e presenta il tipico stile di Lanna.
Accanto al tempio si trova un edificio in legno su due piani, sempre gestito dai monaci, dove si entra sempre senza scarpe, e con i calzini umidini perchè si inzuppano di acqua piovana, che conserva reperti antichi mistovari, soprattutto dei cinque secoli di regno di Lanna. Ma c'è un po' di tutto, e alla rinfusa. I reperti non sono nè in ordine cronologico, nè geografico, nè di utilizzo. Sono solo sistemati affinchè risultino esteticamente piacevoli da vedere, nell'insieme.
una sorta di kabbalah locale, che non sospettavo esistesse |
Usciti, un po' storditi e confusi, dal museo, proseguiamo nel cortile del tempio per trovare un altro veneratissimo edificio sacro che ospita una copia del Buddha di Smeraldo che oggi sta nella capitale ed è simbolo della monarchia siamese e thai. Come dicevo prima, la statua è stata trovata qui nel Quattrocento. E vuoi non proporne una copia, circondata da vetri e luci verdi, quel giusto pacchiane da far sembrare tutto un prodotto della Marvel?
Dopo aver suonato il gong con una mazza di bambù che sarebbe perfetta per la difesa personale e soprattutto l'offesa, ci lasciamo alle spalle il wat, nell'idea di raggiungere a piedi il Museo Oub Kham. Ho dovuto scegliere: questo, o il Mae Fah Luang. Ma il primo è più vicino e dedicato pincipalmente alla storia e alla cultura Lanna, mentre il secondo dista 5km ed è più dispersivo, perchè è sede di una biennale di arte contemporanea, oltre a temporanee che mi interessano, devo dirlo, abbastanza poco. E quindi via, passino passetto verso l'Oub Kham. Ci imbattiamo in diverse zone di mercato, orti pieni di banani carichi di frutti, e galli sul tetto.
Gigi, a questo punto, mi entra in crisi di fame e stanchezza. Ci fermiamo nel primo locale che abbia dei posti a sedere, e scopriamo che si tratta di un cat cafè pieno di mici ben tenuti, anche se un po' sfigatti: uno ha solo tre zampe, un altro è orbo... Il menù, fighettino come l'arredamento, che pare scimmiottare il gusto nipponico o sudcoreano, presenta piatti tutti cute, anzi, kawaii, a tema felino (gelatine e biscotti a forma di zampette e simili). Gigi prende uno smoothie allo yogurt e mango, con tortina calda ripiena di crema di latte a forma di pesciolino, io un classico thai bubble tea con zucchero di canna. Va detto che è tutto eccellente.
Così rinfrancati salutiamo gli stortigatti e riprendiamo il cammino verso il museo. Incappiamo in un negozio che vende di tutto, da articoli per la casa ad attrezzi da ferramenta. Siccome Gigi ha deformato irrimediabilmente le sue Crocs (di solito nei viaggi le tiene appese fuori dalle borse, ma qui in Thailandia scarpe e piedi sono visti con orrore e sdegno, quindi non ci pareva il caso... E le povere sciavatte si sono offese) mi sembra bene dare un'occhiata. Anche perchè qui trovare un 43 è impresa non facile! Trovo ciò che cerco, a ben 59 baht (1.5 euro), e trovo anche un gattino dolcissimo che sta giochicchiando con uno scorpionaccio enorme, che tiene la coda irta pronto ad attaccare. Il gatto se ne sbatte, e riesco ad allontanarlo solo richiamandolo e facendogli un po' di coccole. Gigi è convinto che sia finta, a molla, quella bestia velenosa... Ma proprio no! Infatti, appena si sente al sicuro dalle grinfie del micio, se ne va a infrattarsi tra la merce.
Siamo quasi arrivati. Tra alcune gigantografie della mamma del re e tempietti domestici con le offerte più strane, che paiono proprio usciti dal mese del pride,
raggiungiamo finalmente l'Oub Kham Museum, che già dall'esterno richiama l'attenzione. Figuratevi i primi cortili interni!
Veniamo accolti da una donna trans estremamente cerimoniosa; dopo aver pagato il biglietto, ci fa accomodare in una saletta opulentissima e ci serve un tè veramente buono, coltivato nella regione. Ci chiede di aspettare un attimo. Ci accende un ventilatore e della musica thai in sottofondo, e ci lascia lì chiedendoci di attendere. Scopriamo in loco che la visita è, in realtà, una vera e propria "esperienza" ed è obbligatoriamente guidata. Quindi bisogna aspettare che la guida finisca con i due turisti-ostaggi presi prima di noi. La confusione è dipinta sul volto di Gigi, che si basa sulle mie traduzioni del thai-english accentatissimo che parla la signora del tè.
Intanto leggiamo i depliant che ci sono stati cacciati in mano per ingannare l'attesa: questo museo è una collezione privata, che non manca di megalomania e stravaganza. Nasce dalla volontà di un docente e amante dell'arte, oggi vivo e settantasettenne, di conservare la storia e la cultura Lanna. Quest'uomo, tale Julasak Suriiachai, discende da una delle famiglie reali di Lanna e, nel timore che tutto quel patrimonio artistico e tradizionale andasse disperso, ha iniziato a viaggiare in Thailandia, Laos, Cina, Birmania e perfino in India alla ricerca di manufatti, antichi e moderni, e popoli da immortalare. Ha raccolto qui tutto quel che ha trovato, per consegnarlo ai posteri (e viverci immerso, come una sorta di Vittoriale dannunziano)
La guida si riela assolutamente necessaria per decifrare e comprendere le migliaia di reperti accatastati in teche scure e polverose. Impariamo tantissimo in pochissimo tempo. Anzitutto, qui sono conservati soprattutto oggetti d'uso dei nobili e dei reali, ben diversi da quelli quotidiani della gente comune. Ma anche gli aristocratici di questa cultura utilizzavano manufatti e pregavano statue in legno, soprattutto bambù intrecciato, che poi veniva ricoperto di oro o argento o lamine di altri metalli. In effetti, non si sospetta un'anima umile in questi oggetti. Non mancano poi comunque statue in pietre dure massicce, come amuleti di Buddha in rubino pieno o giada. Apprendiamo poi che il numero 9 è fortunato, e gli abiti dei re hanno 9 dragoni ricamati, delle regine 9 pavoni, e tutto è posto a incastro da 9 pezzi di legno, sempre, senza eccezioni. Ancora, la cultura Lanna era estesissima e si declinava in modi un poco diversi a seconda del popolo, dell'etnia e del luogo (e relativo clima). Gli abiti dei mongoli sono in pelliccia, quelli dei laotiani presentano dei crop top ante litteram. La guida ci fa notare come la moda abbia corsi e ricorsi. Ha ragione.
Tutto quel che avete visto nelle foto è in legno, bambù o teak, metallizzato. Altro materiale molto apprezzato era l'avorio: si pensava che, al pari delle pietre preziose, avesse proprietà magiche. La guida ci spiega anche le differenti raffigurazioni del Buddha, da quello grasso e ridente, cinese, simbolo di prosperità e benessere, a quello pettoruto di Lanna, a quello dal viso sereno di Sukhothai, quando per qualche tempo non ci furono guerre e pure le statue ne eran felici.
Ci muoviamo scalzi da una stanza all'altra: è la casa del proprietario! Poi torniamo in cortile e ci infiliamo in una sorta di grotta d'oro pacchianissima, stile Aladino o Alì babà, dove sono ammonticchiati diversi reperti. Su tutti mi colpisce l'assaggiatore in osso di scimmia usato dal re di Lanna per capire se il cibo fosse avvelenato o meno: il cucchiaino, in teoria, diventava nero in caso di cibo manomesso.
Segue poi una sala che mostra l'abbigliamento tradizionale, nel suo evolversi diacronico, delle varie etnie riconducibili alla cultura Lanna. E' davvero interessante, soprattutto se si comparano gli oggetti esposti con quelli indossati dalle persone ritratte nelle foto. Questi non sono pezzi da museo, sono la vita quotidiana di tanti, fino a ieri l'altro e, talora, ancora oggi.
Da ultimo viene la sala più stravagante e, a mio avviso, vagamente problematica. Il nostro collezionista si è messo in casa un trono reale birmano del XV secolo, e lo ha usato come divano per tutta la vita. Un altro esemplare identico è misteriosamente sparito. Sior paron, ce la racconti tutta giusta? Per non parlare della sua camera da letto, usata fino a pochi anni fa, prima che il nostro si trasferisse in una zona del complesso più appartata. Va bene celebrare il proprio sangue blu, ma così forse è un po' too much!
un ritratto del proprietario vestito da garibaldino |
Dopo questa esperienza e un'ulteriore tazza di tè che ci viene offerta, usciamo dal museo ben brasati dalla miriade di informazioni interessanti che ci sono state inculcate nel giro di nemmeno un paio d'ore. Gigi è cotto e vorrebbe andare in stanza a dormire. Io gli propongo un'alternativa: prendere un mezzo, quale che sia, un bus, un risciò, un taxi, e andare a vedere due cose che mi intrigano e son pure vicine una all'altra. Il cosiddetto "Tempio nero", che fa da contraltare a quello bianco visto ieri, e una comunità di villaggi di minoranze etniche che vive sulle colline a nord di Chiang Rai.
Detto, fatto. Mi accordo con il simpatico autista di un tuk tuk e per 500baht (12 euro) gli chiedo di portarci al Tempio, attenderci lì, poi accompagnarci alla comunità, aspettarci ancora, e infine ricondurci qui dove ci sta caricando. Affare fatto! Così sblocchiamo anche questa experience di rischiare la vita su un trabiccolo che cade a pezzi ma tira gli 80km/h quasi senza poter frenare, e con un clacson sostituito da una trombetta. L'autista si cala gli occhiali da sole con montatura rosa Barbie e mette in moto, si parte!
Nemmeno il tempo di godersi la corsa e siamo già alla Casa Nera, Baandam, sinistra opera dell'artista thai Thawan Duchanee; si tratta di un complesso di strutture che sarebbe perfetto per ambientarci un horror o una fiaba nordica cupa. Ci sono templi e case in legno tutte dipinte di nero e addobbate con inquietanti quadri, crani e ossa di animali e pelli di coccodrilli e serpenti.
la pelle di un lunghissimo serpente tutta coperta di monete e banconote |
Abbiamo anche la fortuna di incontrare l'artista in persona, colui che ha creato tutto questo gigantesco incubo: sembra un innocuo nonnetto da anime giapponese, vestito di bianco, con capelli e barba lunghi e canuti, paffuto, pacioso, che dipinge i suoi draghetti... E invece è l'anima tormentata che ha creato, in oltre 40 di lavoro e malessere, questo luogo che pare un tempio satanista che mescola i tratti più inquietanti della fede buddhista a quelli più cupi dell'inquietudine contemporanea.
ancora gatti in gabbia |
Pure qui, come per il suo contraltare, il Tempio Bianco, lascio giudicare ciascuno secondo gusto e coscienza. A me ha fatto piacere visitare anche questo luogo, perchè dà emozioni e smuove qualcosa in profondità, che siano domande o sensazioni. E', dunque, arte. E mi piace che qui in Thailandia stiamo trovando espressioni artistiche che spaziano dall'antichità ai giorni nostri, e siano tutte del pari considerate importanti e degne di attenzione. L'arte non deve essere per forza impolverata e stantia per acquistare valore, anzi, è bene che sia presente e vitale e racconti il nostro mondo a chi verrà, con i nostri linguaggi complessi e stratificati, con le nostre criticità. Quindi ottimo così, e viva gli anziani canuti e paffuti che scolpiscono piselloni di legno e teschi e morte.
Ce ne torniamo dal nostro autista, che si è stravaccato sul potente mezzo, e ripartiamo alla volta delle colline.
Dopo diversi saliscendi in aree sempre più isolate e rurali, dove la strade diventano piste di fango e mettono alla prova le abilità del nostro pilota, eccoci alla Union of the hill tribe villages. Si tratta di una comunità stabilitasi oltre 20 anni fa qui, che raccoglie circa 200 persone appartenenti a 5 diverse etnie. Ci sono gli Akha, che vengono dalla Mongolia e vivono ora soprattutto in Cina, Laos, Birmania e 80.000 in Thailandia, in montagna. Sono animisti e schivi. Le donne vestono abiti neri impreziositi da perline e decorazioni in argento. Poi ci sono i Lahu, buddhisti dal 1600, che si suddividono in sottogruppi chiamati con il colore di cui indossano i vestiti. Ancora, i Palong vengono dal Myanmar e vivono soprattutto della coltivazione di una pianta dalle foglie larghe in cui si arrotola il tabacco; sono buddhisti con tracce di animismo, e vestono in modo simile ai Lahu. Gli Iu Mien, originari del Tibet, sono emigrati in Thailandia durante la Guerra in Vietnam. Sono i meno conosciuti e vengono definiti e pellerossa d'Asia. Da ultimo l'etnia più nota, Karen, famosa per le "donne giraffa" che indossano pesanti collari che deformano le clavicole e fanno sembrare il loro collo lunghissimo. Ora. Ho riflettuto a lungo, già da mesi prima della partenza, sulla ricaduta etica della visita a questi villaggi. Partiamo con l'idea di non condannare a priori l'uso degli anelli al collo, anche se di certo non sono una passeggiata di salute per le donne di questa etnia. Il punto è un altro. Queste persone sono fuggite dal Myanmar, dove erano perseguitate per la richiesta inascoltata di autonomia, e sono emigrate in Thailandia. Qui però non hanno ottenuto lo stato di rifugiati politici e sono rimaste in posizione precaria di clandestinità per lungo tempo, emarginate e non considerate dal governo, solo tollerate. Tutto finchè qualcuno non ha visto in loro la possibilità di lucro, trasformandole in attrazioni turistiche e creando dei veri e propri zoo umani gestiti da politici locali che si intascano tutti i proventi e lasciano le famiglie nella più estrema povertà, senza documenti e con una forma di schiavitù data dal ricatto: o metti gli anelli al collo e ti fai fotografare e sorridi pure, altrimenti niente permesso di soggiorno, niente lavoro, niente sussidi. Puro sfruttamento, insomma. Per fortuna, con il tempo, le cose hanno iniziato a cambiare. Esistono ancora i villaggi-zoo gestiti da grosse aziende che portano decine di turisti ogni giorno a pullmanate, ma esistono anche delle realtà autogestite, dove i guadagni della tassa d'ingresso ai villaggi e dei prodotti d'artigianato venduto restano ai Karen. Che, per altro, dal 2012, possono tornare in Myanmar senza timore di ripercussioni. Molte donne hanno appeso gli anelli al chiodo, per dedicarsi ad altro, molte altre portano avanti la tradizione (spesso, va detto, sotto la pressione della comunità tribale che le vede come fonte di guadagni, quindi gira gira le donne la prendono in quel posto, che sia dal governo thai o dai loro clan familiari). Ciò detto, qui ciò che si spende dovrebbe (concedetemi comunque il condizionale) restare alle famiglie delle hill tribes. Pago quindi volentieri la tassa di ingresso, acquisto diversi prodotti e lascio anche una bella offerta per la scuola del villaggio... Che si presenta subito come ben diverso dai paesini di campagna visti finora. Le condizioni di povertà e ristrettezza si respirano ad ogni passo.
ora della doccia |
i gatti sono uguali in tutto il mondo, e anche qui fanno cadere le cose per diletto |
la scuola |
albero della gomma |
Come avrete intuito dalle immagini, l'esperienza, per quanto io abbia tentato di gestirla nel modo più etico possibile, resta forte e problematica. Non fanno una vita bella, e nemmeno facile, queste persone. Campano dei pochi spicci di tassa d'ingresso, ma in alcune stagioni i turisti sono pochi, e comunque i più si muovono con i tour organizzati. Tessono, ricamano, intagliano, ma poi vendono quel poco che basta, probabilmente, a sostentarsi a malapena. E l'idea comunque di essere in un freak show un poco resta. Un poco tanto. Ma si torna al discorso iniziale che sottende al mio modo di viaggiare. Non voglio vedere solo quello che è bello e fa stare bene e in pace con la coscienza. Voglio vedere tutto. Anche ciò che è problematico, controverso, persino sbagliato. Chiudere gli occhi e guardare altrove non è mai una soluzione. E spero che quel piccolo contributo che ho dato per la scuola sia una goccia in un mare che porta a liberarsi da tutte le catene, sempre che l'umanità ne sia in grado davvero.
Ora sì, è tempo di tornare a Chiang Rai. Ci aspetta una lunga corsa in tuk tuk, durante la quale chiacchieriamo un po' con l'autista, curioso del nostro viaggio quando scopre che siamo ciclofarang.
alcuni acquisti dalla comunità delle tribù di montagna |
Alle 16, con il sole ancora alto e un temporale del demonio che si sta addensando all'orizzonte, siamo di nuovo in hotel. E' tempo di acquistare il volo di rientro. Stavolta sarà Air India a condurci a casa, in sole 16 ore di volo, da Singapore a Malpensa (che non chiamerò con il suo nuovo nome) e un solo scalo a New Delhi. Così sfioro anche un subcontinente mai visto ma lungamente accarezzato nei sogni di progetti di viaggio futuri. Partiamo domenica 1 settembre alle 8.30, e arriviamo a Milano alle 19.30 Sarà una giornata lunghissssssima. E la mattina dopo, alle 10, subito a scuola per il primo collegio docenti dell'anno! Che nausea.
Per riportare la mente a migliori pensieri, usciamo a cena. Il mercato notturno del sabato, purtroppo, è in versione mencia e ridotta a causa del diluvio in corso. Decidiamo quindi non affidarci alle bancarelle dello street food, ma a un ristorantino molto apprezzato dai locals, che fa solo piatti a base di riso e pollo conciati in diverse maniere. Ci costa, a testa, bibita inclusa, un euro e mezzo. Ed è spaziale. Ma di che stiamo parlando? Assaggio anche i cosiddetti "datteri freschi", che penso siano proprio tali e qui vanno alla grande e vengono venduti a mazzi a prezzi irrisori... Inutile dire che sono straordinariamente gustosi anche questi.
Domani torniamo in sella, dopo questa densa giornata di sosta. Pedaleremo poco più di 100km tra colline e valli, puntando a sud. E' ora di tornare a meridione. Il giorno successivo, con un'ottantina di kilometri e un discreto dislivello, saremo a Chiang Mai. E anche lì ci lasceremo rapire dalla meraviglia di un luogo ricco di storia, arte, complessità, folclore e... Elefanti!
21/7
Chiang Rai-Mae Chedi
104km
Oggi tappa svelta, agile, di trasferimento. Tanto la giornata di ieri è stata densa, quanto quella odierna è filata via senza attriti come acqua tra le dita. Certo, abbiamo preso pioggia più volte, certo ha fatto caldo, certo, abbiamo pedalato quasi tutto il tempo in salita. Ma ormai siamo abituati e questi sono dettagli ininfluenti. Questa notte mi sono attardata a scrivere e a leggere notizie su Chiang Mai, perchè la storia del luogo è densissima e complessa e merita tempo. Quindi questa mattina la sveglia mi trova un po' rincoglionita. Per fortuna i gesti ormai sono ritualizzati e posso preparare la colazione, chiudere le borse, sistemarmi per la tappa e caricare la bici senza nemmeno connettere il cervello. Si va con il pilota automatico fino a quando la caffeina non fa il suo dovere. Mentre rimettiamo le borse sui portapacchi, scambiamo due parole con un trio di motociclisti che, dall'accento, sono più a strisce che a stelle. Ci dicono "Buddies, you're doin' it the hard way". Il che mi fa ridere e mi sembra un'espressione appropriata. Gli statunitensi in questo sono imbattibili. Fulminanti nella sintesi. Però ci penso su, ai primi colpi di pedale, mentre lasciamo il centro di Chiang Rai. E' davvero la via più tosta, quella che percorriamo noi? O, in realtà, è la più "soft", la più umana, quella magari faticosa, ma dai ritmi e dalle modalità più tranquilli? Propendo per questa seconda ipotesi, mentre, per la prima volta da che siam partiti, la bussola punta il nord alle nostre spalle e il meridione davanti a noi. Il cielo è cupo, ma fa caldone. Sono certa prenderemo pioggia: andiamo verso le colline. E le colline attirano gli addensamenti di nubi gravide. La questione non è se, ma quando.
La risposta arriva presto, ma oggi il monsone ha la grazia di non rovesciarci in testa secchiate violente, bensì una pioggia fina fina che sembra vaporizzata. Probabilmente è così qui, altrove si sono aperte le cateratte del cielo. Le prime decine di kilometri scorrono via in falsopiano, interrotto solo da qualche rampa a salire e a scendere, tra una periferia che diventa presto campagna e poi area agricola a bassissima densità abitativa. Auto e motorini scompaiono quasi, e restano trattorini e carretti. Per tagliare qualche kilometro, seguiamo vie secondarie immerse nella vegetazione, ma sempre asfaltate e in ottimo stato.
Viene quindi il momento, dopo tante risaie e un alternarsi di pioggia e sole (cambia la luce come in un caleidoscopio e cambia di attimo in attimo la percezione che si ha delle cose, ora cupa, ora vivace e ariosa) di imboccare la valle del Lao. Fino a qui siamo scesi in parallelo alla strada percorsa per salire da Phayao. Ora, invece, ci spostiamo in una valle più in là, in un distretto dal bellissimo nome, il Wiang Pa Pao (Papao meravigliao!). La valle, che noi dobbiamo risalire per intero, è chiusa da entrambi i lati da alte catene montuose, tra cui quella del Khun Tan, con vette che superano i 2000m. La strada che seguiamo è la 118, non per altro. Una volta imboccata la valle si procede in leggera, talora impercettibile, salita. Arriveremo a fare più di 700m di dislivello senza quasi accorgercene. I villaggi si susseguono quasi ininterrottamente, tutti con le loro case, ora in legno, tradizionali, a palafitta, ora in muratura, più moderne, con i templi colorati, le scuole grandi e i mercati più o meno affollati.
A 50km, circa metà tappa, facciamo una prima sosta. Ieri sera non ho mangiato abbastanza e mi sento un po' in debito di calorie. E allora via con un thai tea freddo iperzuccherato, ben due confezioni di alghe essiccate, una piccante e una solo salata, e una boccia di tè al miele da buttare in borraccia. Altro che integratori, gel e barrette! Serve tutto, perchè si apre davanti a noi un tratto drittissimo con vento contrario piuttosto teso, che preannuncia, e porta, pioggia. Alcune rampette più cattive mettono in crisi Gigi, che ha un problema al cambio (non gli scende la catena sulla corona piccola davanti, e deve spostarla manualmente). La fatica, sommata a un po' di raffreddore (perchè non mi ascolta e sta mezzo nudo sotto agli sbuffi gelidi del condizionatore) lo rendono nervoso e intrattabile. Il rischio di litigare è altissimo, anche se io ormai so come funziona, e so che, passato il momento critico, che può essere una salita o un temporale, tutto torna tranquillo. Quindi sto davanti, taglio il vento, aspetto quando serve, e intanto fantastico su quale potrà essere il tatuaggio a sigillo di questo viaggio. Qui di esseri mitologici e animali sacri ce ne se sono a bizzeffe, e l'alfabeto si presta a forme artistiche, e la tradizione dei tatuaggi è antica e radicata... C'è davvero l'imbarazzo della scelta!
A meno di 20km dal presunto arrivo, cioè l'ultimo paese in valle prima che la strada impenni e poi ridiscenda a Chiang Mai, facciamo un'altra sosta. Stavolta azzardo un mix apparentemente pericoloso ma felice: pesce essiccato piccante e cioccolatini ripieni di pasta di castagne. Fidatevi, spacca! Ed è bilanciato: proteine, zuccheri (carboidrati semplici), grassi. Preciso.
Quasi a destinazione incappiamo nel giardino di un artista (? Artigiano?) che costruisce mulini e girandole in legno. Cioè mulini più piccoli. Di tutte le forme e dimensioni. E li vende. A chi, non saprei dire. Perchè lui non ha tutta la notorietà degli artefici del Tempio Bianco e della Casa Nera? Cos'hanno in meno i suoi mulini?
Risaie e ultimi scrosci raccolgono le mie domande che restano senza risposta, e così, a metà pomeriggio, siamo a destinazione, a Mae Chedi. Si tratta di un piccolo centro abitato di 9000 anime. Qui poi finisce la valle e si inizia a salire. Siamo a 500m di quota, e domani supereremo i 1000, passando per il parco nazionale di Khun Chae che, con le sue sorgenti calde, separa la provincia di Chiang Mai da quella di Chiang Rai.
Individuo un motel sulla strada, in centro, a breve distanza dai negozi di alimentari; come spesso accade, su Maps la posizione della struttura non è corretta e tocca tornare indietro un pezzo a cercarla. La troviamo. Un ragazzo si stupisce che non parliamo thai e va a chiamare la madre, english speaking. Mi mostra due stanze identiche, grandi come la mia intera casa, una per 400 e l'altra per 350 baht. Scoprirò poi che quella più economica, dove alloggiamo, è quella con le formiche. Ma per 8 euro la vuoi pure senza coinquilini? E poi il retro della struttura affaccia alla collina su cui sorge un tempio, il Wat Phrachao Luang, davanti a cui svetta un buddhone enorme che a sera si illumina. E ci sono pure le bananine!
altarini per buoni affari |
Dopo la doccia e un pisolino brevissimo ma assai necessario, studio ancora un po' il da farsi dei prossimi giorni. E' deciso: a Chiang Mai staremo fermi due giorni interi. Così Gigi può riposare ed io vedere tutto quel che mi interessa: musei, templi, santuari di elefanti e SICURAMENTE un incontro di Muay Thai. Domani o dopo voglio che la serata passi tra schizzi di bava e sangue, denti che volano e tifosi che scommettono sulle tribune. Prenoto l'albergo per tre notti, cosa che non accade da prima della partenza, per Bangkok. Spendo 21 euro in totale. In centro. Con il bagno privato. Io non so quale shock traumatico vivrò tornando a casa, dove, tra inflazione e rincari, ormai con questa cifra neanche ti mangi una pizza. Chiang Mai dista solo 80km da qui. 80km e una salita e una lunga discesa. Ci siamo quasi! Poi sarà tutto un rotolare verso sud, via dalle montagne, verso il mare meraviglioso che ha reso la Thailandia così famosa.
22/7
Mae Chedi-Chiang Mai
84km
Passo la notte a leggere l'interessantissima storia dei tatuaggi tradizionali thailandesi, i Sak Yant o Yantra, sigilli sacri dai potentissimi poteri magici (dicunt, io ne apprezzo il valore culturale ed estetico). Ancora oggi vengono eseguiti con la tecnica del legno picchiettato, spesso da monaci. Ho già un'ideuzza perigliosa da proporre a qualche tatuatore di Sangapore, quando avrò finito il viaggio. Andrebbe fatto in Thailandia, ma chi si fida a curare un tatuaggio nelle scarsissime condizioni igieniche che il viaggio in bici impone? Non io!
Con mille immagini e simboli in testa facciamo colazione alla veloce e ci prepariamo a partire. Salutiamo il nostro trucido vicino di stanza, giunto nella notte sul suo pullmino, la proprietaria del motel e la sua loquacissima e coccolosissima gatta, e siamo già in sella.
Oggi la geometria della tappa è semplice: 30km in salita, 50 in discesa. Chiaramente si parla di linee di tendenza: la salita non è ininterrotta, come i nostri passi alpini o quelli andini o quelli delle Rockies negli States. Sono gobbe, e rampe, su e giù. In quella che chiamo salita, il dislivello positivo supera quello negativo, sul totale, pian piano, metro a metro. In quella che chiamo discesa ci sono comunque salite, ma altrettante, e più lunghe, discese. Dobbiamo solcare la catena montuosa del Khun Tan, che ospita vette che superano i 2000m. Il passo, per noi che seguiamo la strada 118, si trova però poco sopra i 1000, di quota. Fattibile, ma comunque impegnativo.
Queste montagne sono uno scrigno di tesori e meraviglie ben nascosti tra roccioni a picco e foresta monsonica, prima, e nebulare poi. Ci sono una quantità esagerata di templi e luoghi sacri, anche antichi (siamo nel cuore del regno medievale e moderno di Lanna, e di qui passava pure la Via della Seta, con i mercanti cinesi al galoppo e le lente carovane provenienti dagli estremi del mondo antico).
E, tra profili cupi di monti immersi nelle nuvole e zuppi di pioggia, tra campi di mais e risaie (Lanna significa "un milione di risaie", per intendere un impero vasto e fertile, e rende bene l'idea), compaiono anche fumarole candide di sorgenti termali calde. Intorno, come sempre, è un florilegio di bancarelle, mercatini, ristoranti e strutture che ruotano attorno al turismo, per lo più locale, di chi, salendo al parco nazionale Khun Chae, fa un salto a curarsi i reumatismi nell'acqua calda.
Da qui in poi finiscono paesi e villaggi, e inizia la salita seria. Le pendenze non sono mai esagerate, solo a tratti sfiorano il 9% (come segnalato sempre da cartelli che invitano i mezzi pesanti a usare marce basse e la corsia più a sinistra). Il problema è il vento. Oggi Eolo non vuole darci tregua, e si incanala tra i fianchi dei monti e corre giù come un fiume in piena, e ci travolge. La strada fa pure poche curve, non ha tornanti, e non è mai riparata. Quindi già si va piano e si fa fatica per la salita. In più si rallenta e si fa ulteriore fatica per il vento che ci prende a sberle in faccia. Procedere così piano, appena appena da stare in equilibrio sulla bici, mi permette di vedere bene la strada. Infatti trovo, nell'ordine: una zucca scavata portafortuna, dei denti che finiranno dritti nella mia collezione di ossa animali e umane da tutto il mondo, e una targa, che anch'essa andrà ad arricchire la raccolta. In ogni viaggio ne trovo, vuoi non raccogliere ciò che la strada dona? I giorni scorsi, ho dimenticato di dirlo, ho trovato anche una cravatta nuova e ancora impacchettata nella sua confezione del negozio. Certo, sporca di fango chè piove giusto un pochino in questa stagione. Ma pure lì, vuoi non caricartela? E se pensate che a fine viaggio questa roba finisca nel pattume, i sbagliate: casa mia è un'autentica wunderkammer di reperti raccattati nei viaggi. E ne vado fierissima, perchè ogni oggetto racconta una storia, ed un frammento di memoria.
Quando arriviamo al passo già pioviggina. E fa freddo, pure, con questo vento bastardo e contrario, e le nuvole bassissime appoggiate alle chiome degli alberi. Infiliamo i k-way e, raccomandandoci prudenza (con l'acqua mista a fango le strade diventano estremamente scivolose), ci buttiamo in picchiata in discesa. Intorno solo la strada e la foresta scura scura, e profili di vette intorno, nascoste nella cortina bianca della pioggia. Non ci sono nemmeno più le bancarelle dei cachi, come ne abbiamo viste tante salendo. Il silenzio è interrotto da qualche auto o motorino che passano, e dal rumore dei nostri gusci antipioggia strapazzati dal vento.
Scendiamo e scendiamo, rapidi questa volta, e talora la corsa viene interrotta da brevi e ripide rampette. Quando si scende, fa freddino. Quando si sale, pur togliendo il k-way, si esplode di caldo. Questo continuo sbalzo termico mi provoca dei furibondi mal di testa, che, per fortuna, durano poco. Vorremmo fare una sosta, ma non c'è nulla. La civiltà ricompare tutta di botto a 20km da Chiang Mai, ormai di nuovo in valle, ma dall'altra parte. Ora sta proprio diluviando e siamo fradici, e imbarchiamo acqua, e abbiamo i pesci gatto baffuti nella scarpe che, a ogni giro di pedale, finiscono immerse nelle profonde pozzanghere.
Facciamo una sosta al nostro fidato 7-eleven, sotto alla cui tettoia sono rifugiati numerosi baracchini di street food. Dal negozio, ogni volta che si apre la porta, esce un'aria gelida perchè pure qui con i condizionatori non scherzano affatto. Io assaggio il tè matcha caldo, e apprezzo al punto da far due giri. Meno la papaya secca e salata, ma pure quella sparisce in breve.
Gigi-Sconsy |
Mentre aspettiamo che spiova un poco (spoiler: non accadrà) faccio due conti e controllo la traccia del resto del viaggio, così, perchè non ho nulla di meglio da fare qui, sotto a questa tettoia. Le notizie sono ottime: arriveremo a Chumpon, già sul mare, nella penisola di Malacca, a sud di Bangkok, al 4 agosto, pedalando ininterrottamente 11 giorni (1200km circa). Faremo una sosta di un paio di giorni muovendoci con i traghetti sulle isole di Ko Tao e Ko Samui, per sbarcare a sud, a Suratthani. Da lì a Singapore, meta finale del viaggio, sono 1200km per la via più breve. Avremo dunque dal 7 agosto al 31 per percorrerli, aggiungendo qualche sosta di visita (a Kuala Lumpur e Malacca) e qualche giorno alla fine per goderci Singapore, imballare bici e bagagli e tatuarmi. Per una volta non mi sento con l'acqua alla gola, e abbiamo tempi morbidi e margini ampi, per deviazioni e gestione di imprevisti. Gigi ricorda ancora con dolore quando, in una situazione simile, a La veta. Colorado, appena finiti i passi alti sulle Montagne Rocciose, ero uscita da un bagno in vasca di tre ore annunciandogli che eravamo in ritardissimo su un percorso di 6600km, e per qualche tempo, da lì in poi, avevamo affrontato tappe infinite da 140, 150km, per quasi due settimane di fila, nelle grandi pianure del Kansas battute dal vento (contrario). Il tutto per arrivare poi a New York in grande anticipo! Stavolta però no, niente corse. Ho fatto i conti bene bene già da casa. L'esperienza a qualcosa servirà pure!
C'è un'altra buona notizia: lo staff di Air India, con cui voleremo per tornare a casa, ha già risposto alla mia mail nella quale chiedevo lumi per il trasporto bici. Mi dicono che dei due bagagli da stiva a testa che abbiamo inclusi nel biglietto (stavolta non comprare tramite aggregatori è stato estremamente conveniente: scelta dei posti e un bagaglio extra gratis) uno può esser sfruttato per la bici, che è equiparata a una valigia, purchè rispetti il limite di peso di 23kg. Insomma, una figata!
Visto che non spiove, anzi, aumenta, decidiamo comunque di tornare in sella e affrontare questi ultimi 20km in piano sotto al diluvio. L'ingresso in Chiang Mai è abbastanza turbolento: il traffico si fa intenso mano a mano che la città si avvicina, e la guida di auto e motorini è piuttosto sportiva (leggi: azzardata e pericolosina). La pioggia toglie visibilità e le strade allagate celano buche e tombini e ostacoli. Il tutto mentre il telefono che uso a navigatore tira gli ultimi, esausto per le condizioni climatiche cui è sottoposto.
il fiume Ping, che scorre accanto alla città |
Quando arriviamo alla nostra JJ Guesthouse, in pieno centro, a due minuti a piedi dalla Porta Tha Phae (Chiang Mai è una città fortificata e il centro è un quadrato con 4 porte e un fossato tutto torno torno) ho i capelli dritti e uno scontrino di bestemmie tirate lungo come il calendario. Anche le due sciure della reception mi fanno imbufalire, perchè all'inizio non capiscono che abbiamo una prenotazione e pensano che siamo due fattorini portapizze portafango, poi sbagliano a prendere i dati, fanno su un casino mortale... Il tutto mentre siamo fradici, conciat da sbattere via, stanchi... Figuratevi che aureola mi è spuntata quando, mentre brigavo per il faticoso check in, vedo Gigi con la coda dell'occhio smanacciare la bici e poi esclamare: "La ruota anteriore è andata, da buttare!". Una fabbrica di problemi! E dire che ste ruote le ha cambiate due anni fa, e le usa solo per i viaggi... Io monto le mie dal 2019, ci ho pedalato molto di più, e sono in perfetta salute! Vabe', a 30m dall'albergo c'è un negozio di bici con meccanico che tratta anche marchi noti, domani andremo a fargli visita.
Prendiamo possesso della stanza, e mettiamo in quarantena sul balconcino borse e vestiti fradici e infangati. Prima di ripartire sfrutteremo una delle numerose laundromat del quartiere, anche se abbiamo appena fatto il bucato a Chiang Rai, perchè poi, per quasi due settimane, ci terremo i vestiti puzzoni e incrostati di monsone. Breve attimo di riposo e poi via, fuori a caccia della cena. Ho individuato, nella via della guesthouse, un ristorantino thai vegetariano che mi sembra ottimo. Nei 500m a piedi che percorriamo, ho subito l'impressione che questa città sia iper turistica e completamente modellata a immagine e somiglianza di ciò che il farang desidera trovare in Thilandia. Ci sono locali e localini con musica occidentale, cibo occidentale (un sacco di italiani pure), marijuana in vendita, centri massaggi a poco prezzo, street food pettinato e un po' posticcio, gazebo che vendono tour... Insomma, la Thailandia da cartolina con i filtri applicati. Infatti per le strade si vedono più occidentali che thai. Ma va bene anche così, una tantum ci sta non essere sempre sul ciglio delle cose, esposti all'estremo. In fondo, sono in vacanza!
E che vacanza sia! Il ristorante, frequentato da local, è eccellente. Oltre ai succhi di frutta fatti al momento (Gigi anguria, io citronella e lime) e decorati fiori e foglie, io vado di zuppa di verdure in latte di cocco, Gigi di curry (zuppa con latte di cocco e piccante). Da condividere assaggiamo finalmente il cosiddetto "morning glory" (sì, lo so a cosa state pensando. Lo abbiamo pensato tutti). E' un piatto tipicissimo thai, presente ovunque: sono spinaci d'acqua saltati con peperoncino e aglio e qualche fagiolo piccolo piccolo. Sono incredibili, anche se deve piacere il piccante perchè pestano forte. Nel frattempo passa una signora e ci lascia un volantino degli incontri di muay thai di stasera. Ci andrò domani io, Gigi non solo non è interessato, ma proprio gli fa schifo l'idea.
zuppa con latte di cocco e morning glory |
zuppa curry di verdure |
A pancia piena e cuore sazio facciamo due passi per la città, dove a ogni angolo compaiono templi, chedi e dragoni sacri. Domani e dopo avremo modo di esplorarla per bene. Ora ci dirigiamo solo a Lanna square, uno dei centri della movida e dello street food. Vuoi privati di un gelato artigianale mango e lime, e di una granita al limone freschissima? Certo che no! C'è anche musica dal vivo. Sono due farang che suonano un soft country molto piacevole. Bravi!
Ce ne torniamo così in hotel, dove le sciure, per farsi perdonare i pasticci del check in, ci concedono di mettere le bici bene al riparo in uno sgabuzzino interno, chiuso a chiave. Grazie! Domani e dopo non si pedala, ma si esplora a piedi. Sono certa che anche questa antica "Città nuova", sorella minore e rivale storica di Chiang Rai, per secoli capitale di un vasto impero, saprà regalarci tantissimo.
molto interessante brava !
RispondiEliminaE' una bella cultura quella che state visitando...se il Buddha tornasse,vedrebbe le statue a lui dedicate e sarebbe contento...
RispondiEliminaSe invece Gesù tornasse e vedesse quel crocifisso,e tutti i quadri di sofferenza della via crucis,scapperebbe.