Morib-Port Dickinson
75km
Questa mattina partiamo con calma, niente sveglia: ormai le tappe sono piuttosto brevi e non è necessario stare in sella tante ore. Quando ci alziamo, alle 8, il sole è alto, anche se velato da strati bassi di umidità che esala da questa terra fradicia. Dopo un caffè solubile gentilmente offerto e incluso nel prezzo del motel a ore, siamo pronti per affrontare la strada. Oggi rimaniamo lungo la costa, seguendo la 5, highway qui sempre meno trafficata e distante da autostrade e grandi snodi, perchè allunga il kilometraggio seguendo pedissequamente il profilo a insenature e golfi della penisola.
I primi 40km sono un susseguirsi di paesini e piantagioni di palme da olio (tanto per cambiare). Passano camion carichi di datteri, arancione acceso, e lasciano una scia di odore dolciastro, oleoso e marcescente. Qui, oltre alle palme, ci sono anche numerosi campi coltivati a dragon fruit e banane; entrambi i prodotti vengono venduti direttamente a bordo strada, davvero a km0, in bancarelle più o meno grandi e fornite, a seconda del raccolto giornaliero.
Qua e là, nei paesi, compaiono un tempio hindu o cinese, o una moschea, persino una chiesa cristiana siriana in rovina.
All'altezza di Sungai Pelek, cittadona caotica, la strada si allontana dal mare, che finora abbiamo avuto vicinissimo (e abbiamo visto le tracce delle recenti alluvioni, con interi tratti di costa sommersi e alberi che spuntano dall'acqua solo con i rami più alti). Qui si susseguono collinette coltivate metro a metro, e, tra una piantagione e l'altra, compaiono villaggi ora cadenti e mangiati dal tempo, ora nuovissimi, o persino ancora in costruzione, con case, scuola e moschea per i contadini. Che la fogna sversi in canali a cielo aperto che corrono a bordo strada pare non essere un problema. L'odore è impegnativo, soprattutto ora che il sole è allo zenit, fa caldissimo e le esalazioni evaporano.
Mentre il sole ci brucia le fettine di pelle scoperte e ancora non del tutto abbronzate, affrontiamo continui saliscendi nell'afa più torrida, e la strada qui è pure stretta, e percorsa da molti camion carichi di frutta che sferragliano a velocità improbabili a pochi millimetri da noi, rifilando la fettina di prosciutto dalla coscia. A 15km dall'arrivo, intorno alle 12.30, prima di tornare sul mare, decidiamo quindi di fare una pausa alla classica stazione di servizio con minimarket e bagni. Io trovo un nuovo tipo di alghe essiccate, e son buonissime pure queste!
Ripartiamo, ed è discesa di nuovo alla costa. Ci accoglie Lukut, dal XVIII secolo attiva per l'estrazione dello stagno e cresciuta con la manodopera dei minatori cinesi, e le fumerie d'oppio e i bordelli a corollario. Poi la storia si fa complicata, in un continuo passaggio di mano tra raja che si contendevano il territorio, legiferavano, causavano malcontenti e rivolte, e persino una guerra civile, fino all'arrivo degli inglesi. La città è famosa anche per un piatto tipico considerato molto salubre dai cinesi: i nidi di rondone, fatti con la saliva dell'uccello, che si solidifica e poi va messa in ammollo e quindi cotta in zuppa. Pare faccia bene ai reni, riduca il gonfiore e sia persino afrodisiaca. Interessante ma... No, grazie. Oltretutto ha prezzi alti perchè è un prodotto raro.
cimitero cinese di Lukut |
In breve torniamo sul mare, e inizia qui l'estesa Port Dickinson, abbreviata come PD (il che mi fa ridere da ieri, essendo questa sigla da me usata nel lessico familiare dei messaggi come acronimo di bestemmia). Prima miniera di carbone, poi porto commerciale al tempo del protettorato britannico, oggi è una resort town dedicata soprattutto al turismo. E' nota anche come Fort Knox di Malesia e Army town perchè ospita numerose basi militari per l'addestramento delle reclute. Il toponimo, come facilmente intuibile, deriva dal cognome del segretario coloniale degli insediamenti sugli stretti.
Già arrivando si notano cartelli ad uso dei turisti che indicano le numerose attrazioni, tutte piuttosto "leggere" per non dire idiote, dal parco a tema cowboy alla galleria d'arte 3D, dai centri commerciali ai fastfood più noti. Poi, ogni tanto, a buffo, compare un tempio hindu o un minareto.
Dopo una full immersion in questo clima vacanziero-rivierasco malese, raggiungiamo il motel prenotato ieri, senza pagamento anticipato, proprio a ridosso della spiaggia, un po' fuori dal centro, nel cuore della baia. Già trovarne l'ingresso è un'impresa: si accede salendo anguste scale pubbliche che portano al primo piano di un blocco di edifici. Sotto ci sono negozietti, bancarelle e una farmacia. Sopra il PD motel e alcune abitazioni. Quando troviamo le scale, incappo in un ragazzo che sta facendo le pulizie e non ha la minima idea della nostra prenotazione. Fa un paio di telefonate e via che mi dà la chiave, con tanto di sconto di ringgit rispetto al prezzo di Booking. La sera busserà ancora alla nostra porta, per darmi altri ringgit di "resto" (non dovuto). Vabe', bene così.
Il motel consiste in una balconata con affaccio al mare, condivisa, un corridoio in legno su cui si aprono le stanze e, in fondo, un bagno con wc, doccia e niente lavandino. Tutto sa di antico e tradizionale. Il quartiere anche. Siamo in piena zona musulmana, le donne sono stracoperte e velatissime. Ci sono in giro cartelli che invitano a non usare bikini e simili neanche in spiaggia e a rispettare le usanze locali. In un negozio vicino al motel sono in vendita i "costumi da bagno" per le donne musulmane, ovvero leggings lunghi con sopra una gonna al ginocchio, una felpa aderente a maniche lunghe con cappuccio, coperta ancora da una sorta di camicione. Comodissimo, agevolissimo. Noi approfittiamo dell'ampio spazio accanto al letto, deputato alle preghiere, per piazzare le bici al sicuro con noi.
Doccia, riposino al fresco del ventilatore, prenotazione hotel in centrissimo a Malacca, per due notti (faremo un giorno di sosta per visitare la città più ricca di storia della Malesia) e siamo pronti per esplorare la spiaggia. Non dovremmo essere in bassa stagione, ma, sarà per le recenti alluvioni, sarà ormai l'estate sta finendo, ci sono pochissime persone in giro, tutte bardate a non finire. In acqua solo una coppia di indiani, gli altri sulla sabbia a farsi foto o a mangiare e bere su tavolini da campeggio portati da casa. In effetti la spiaggia non è assolutamente attrezzata. Ci sono solo alcune bancarelle e baracchini che vendono cocco fresco e spuntini, La sabbia è pulita, ma non immacolata. L'acqua, anche. In più si sta alzando la marea, piuttosto velocemente, sommergendo ampi banchi di sabbia. Noi ci limitiamo ad una lunga passeggiata con i piedi nell'acqua tiepida, a caccia di conchiglie. Queste baie, questi approdi, sanno più di covo di pirati che di villeggiatura.
Mentre raccolgo conchiglie, trovo anche un rotolo di fogli manoscritto, legato stretto con elastici, fradicio, portato o preso dal mare. Mi incuriosisce tantissimo, mi ricorda quello strano diario pieno di disegni trovato su sentiero dell'entroterra islandese; quello però era in inglese, ed era una sorta di racconto di un viaggio mistico-spirituale in salsa cristianeggiante-olistica. Questo invece è in malese, e le lettere sono stinte dall'acqua di mare. Lo affido di nuovo alla battigia, dove l'ho trovato.
Sul far del tramonto torniamo in stanza per liberarci della sabbia di cui ci siamo riempiti e decidere dove andare a cena. Escluse le bancarelle lungomare, che qui sono un po' troppo hardcore (ho evitato infezioni intestinali -miracolosamente- fino ad oggi, non vorrei passare l'ultima settimana di viaggio sul cesso), la scelta ricade sull'unico locale vicino. Un italiano. Oh no! Ma di italiano ha decisamente solo il nome e la cartina appesa al muro. E' gestito da due ragazze malay muslim molto ciarliere, che mentre cucinano mangiano anche, e ruttano saporitamente, e ridono di gusto. Noi ordiniamo un'insalata mista con garlic bread, per me, e una pasta aglio e olio vegetariana per Gigi, e un bel piattone di fish'n chips da condividere. Vi dirò: come sempre, buonissimo! E le salsine non hanno effetti collaterali. Quindi anche pulito. Brave sciure!
fuori 40 gradi, dentro 16 |
Satolli come questo gatto di quartiere che sembra morto ma è solo gonfio di croccantini e in food coma, torniamo in camera mentre tutte le luci del quartiere si sono accese. E ci addormentiamo davanti all'ennesimo cartello di prescrizioni e divieti. L'essere umano è un animale strano. Ha proprio tanta, tanta paura della libertà.
23/8
Port Dickinson-Malacca
75km
Intanto prego, notare la precisione della lunghezza delle ultime tappe, tutte esattamente da 75km. Questa è arte. Poi: tenetevi forte perchè oggi si vola. E' stata una giornata densa e piena esperienze interessanti, che la Malesia ci sta regalando a piene mani e con infinita generosità. La notte trascorre agitata, nel caldo soffocante e la sensazione di avere insetti che mi camminano addosso. Purtroppo, probabilmente, non è solo una sensazione. Stamattina realizzo di non aver comprato alcuna fonte di caffeina, ieri sera, e quindi esco subito a caccia. I negozi sono ancora chiusi, ma sento profumo di fritto e uova e noodles e aglio e peperoncino: deve essere aperto il baracchino delle colazioni proprio sotto al motel. In effetti, è in piena attività, in uno spadellare di riso, pollo, gamberetti e zuppe piccanti. Vedo che hanno, nella sezione bevande (minuman) del grande menu appeso al muro, la scritta Nescafè. Ne ordino uno. A portar via. Poco dopo ricompare il cameriere con la fatidica busta. Ah, come mi era mancata. Non ne avevo una per le mani dai tempi del Perù, quando il mate de manzanilla take away era sempre in sacchetto di plastica. Soddisfattissima, torno in camera con il mio sacchettino che pare più un dispositivo medico usato che una colazione, e mi ciuccio tutto il dolcissimo nettare degli dei che contiene.
A questo punto, riportate giù le bici e le borse, sotto allo sguardo incuriosito degli avventori del baracchino del caffè, siamo pronti a partire. Il cielo è bigio, ma la pioggia promessa, anche dalle previsioni meteo super allarmanti, non arriva.
Il primo tratto di strada si snoda lungo la costa, tra aree a spiccata vocazione turistica, resort a forma di pagoda, piacevoli villette immerse nel verde e scimmie.
Poi lasciamo la litoranea, per avventurarci su stradoni immensi e deserti che serpeggiano tra colline verdissime di piantagioni di palme. Quando si scollina se ne vede un oceano sconfinato, a perdita d'occhio, davvero impressionante. In senso di marcia opposto passano convogli inquietanti di mezzi militari, tra camion blindati con doppia mitragliatrice, jeep e camionette. O c'è un colpo di stato in atto, e ce lo siamo persi, o si stanno cominciando a radunare le truppe per la grande parata del 31 agosto, giorno dell'indipendenza malese, che si tiene in Merdeka square a Kuala Lumpur.
A questo punto torniamo verso la costa, in un susseguirsi di sonnolente cittadine di pescatori e contadini, tra templi ornati di dragoni, cimiteri cinesi e mosche in legno che sono il centro della vita comunitaria dei malesi, perchè accanto hanno la scuola, il bar e il ristorante, lo spazio per le feste pubbliche e private, la bibliotechina e il cortile.
Attraversiamo il fiume Linggi, che segna il confine tra lo stato federale di Negeri Sembilan e quello di Malacca. Queste sono le zone che fino a una decina di giorni fa risultavano maggiormente colpite dalle alluvioni monsoniche, e si vede. Le strade sono pulite, ma tutt'intorno al fiume si riconoscono i segni recenti dell'esondazione, con interi campi sommersi, alberi sradicati, montagne di fango accumulate. Una brutta storia, che si ripete ogni anno, più volte all'anno, e lascia alle sue spalle centinaia di morti. Qui incontriamo anche "Bozo", mountainbiker super local che ci insegue su per il ponte per chiederci una foto, farsene fare una al volo e sparire di nuovo nel folto della foresta tra le scimmie e i varani. Da notare il casco ornato con bandierine... Ottima idea! Potrei farlo anche io, visto che ne ho decine.
Facciamo una breve sosta per riempire le borracce e impanarci nella crema solare; Gigi fa in tempo a entrare spedito nella sala da preghiera, presente in ogni stazione di servizio (e rigorosamente divisa tra lato maschile e femminile), scambiandola per il bagno. In effetti...
Poi ripartiamo per un tratto costiero dove i villaggi dei pescatori, con il pesce essiccato e steso in vendita nelle bancarelle a bordo strada, si alternano a centri di stoccaggio del petrolio, giganteschi, tutti tubi e serbatoi. Il mare, chiarissimo, mercurio sottile, argento fino, è solcato da mostruose navi petroliere, nere pur nella distanza, e si vedono oleodotti e isole di rifornimento a perdita d'occhio.
Lasciamo il litorale per l'ultima volta, tornando tra colline rigogliose di vegetazione e popolate di scimmie. I saliscendo cominciano a farsi sentire, soprattutto là dove la strada diventa stretta e il traffico intenso, o per l'uscita da scuola dei bimbi, o per la fine della funzione in moschea (oggi è venerdì e sono gremite, affollatissime. Tra l'altro di vedono spesso persone con bandiere palestinesi o t-shirt che manifestano solidarietà a chi in questo momento sta subendo un genocidio fatto e finito).
cimitero musulmano |
Così, tra templi dedicati a dei di molteplici religioni, vicini e lontani a un tempo, tra viali alberati e canti di muezzin, entriamo nella bella città di Malacca, vero e proprio gioiello di arte e storia (infatti è patrimonio Unesco). Nonostante il mezzo milione di abitanti, la città si lascia attraversare facilmente, senza eccessivo stress da traffico motorizzato. Bisogna solo prestare attenzione al dedalo di stradine anguste, spesso affiancate da profondi canali di scolo non protetti. Si tratta di una città antica, e come tale è costruita. Ma noi italiani siamo abituati ai borghi medievali, alle viuzze e all'architettura urbana pensata per tempi in cui non c'erano camion e suv. Quasi in centro, quasi al nostro alloggio, ci imbattiamo nelle statue dedicate a Gan Boon Leong, il dottor Gan Boon Leong, politico locale e soprattutto famoso bodybuilder malese, colui che ha portato questa disciplina nella nazione, l'unico di qui ad aver vinto numerosi premi tra cui un Mister Olympia. E' scomparso, ultraottantenne, nel 2022, lasciano statue e una palestra ancora attiva.
Il nostro alloggio, il Discovey youth hostel of Melaka, si trova sul fiume che corre in centro città, proprio nella via che separa Chinatown da Little India. Un luogo benedetto dalla molteplicità e dal multiculturalismo, insomma. E non mancano neppure le moschee, tra cui la più antica della città ancora attiva, la Masjid Kampung Huli; risale al 1728 ed è un misto di elementi architettonici arabi, giavanesi, cinesi e malesi.
Arriviamo finalmente ala reception dell'ostello, che è molto ben segnalata, e per fortuna! Altrimenti non sarebbe assolutamente riconoscibile, spersa com'è tra tavolini di un ristorante cinese molto, molto lercio, e una sorta di robivecchi con molti robi, molto vecchi, e nessuno a venderli, sono solo lì accumulati. Forse è semplicemente una discarica. Mentre Gigi parlamenta con un anziano cinese tutto storto, sdentato e mezzo nudo, che vuole fargli lasciare la bici sulla strada (seh, come no), io faccio check-in. Poi comincia la lunga marcia la stanza, perchè questo è un albergo diffuso in senso stretto, cioè le camere sono sparpagliate in numerosi edifici storici in tutta la via. Noi abbiamo una camera privata con bagno che si trova sul lato Little India: bisogna attraversare due strade, aprire un cancello chiuso a chiave nascosto tra due negozietti che sembrano trasferiti qui da Mumbay, salire una prima rampa di scale, levarsi le scarpe, salirne una seconda, ripida, di legno, fare tre giravolte ed ecco la camera. Che poi è spartana ma fornita di tutto il necessario. Immaginate la freschezza con cui svogliamo tutte queste operazioni, avanti e indietro, per portare su tutte le borse che abbiamo. Finite le operazioni di carico, doccia, lavaggio a mano di tutti i vestiti lerci e necessario riposino.
pani gonfi |
Mentre ci rilassiamo al fresco, sbrigo alcune pratiche logistiche per i prossimi giorni: ricontrollo le tappe e prenoto l'albergo per dopodomani sera, nella prima città dove ci fermeremo dopo Malacca, Batu Pahat, a 100km da qui, sulla costa. Poi faremo sosta ancora a Pontian, altri 75km, sempre sul mare, e Johor Bahru, ultima città malese che si affaccia proprio sullo Stretto di Singapore. Il quarto giorno, al mattino, passeremo il confine dall'unico ponte percorribile in bici, per gli ultimi 30km circa di questo viaggio, fino a Marina Bay. Leggo un po' di resoconti di cicloviaggiatori che ci hanno preceduti, e mi sembra di capire che sia un confine tranquillo e agevole. Singapore dovrebbe anche essere molto più bike-friendly dei paesi finora attraversati, con le sue ciclabili e le sue indicazioni per bici su Google. A quanto pare, con la Sim malese che ho, posso anche, con soli 4 euro, avere una settimana di roaming e 10 Giga, così da risolvere il problema connessione. Mi metto anche a leggiucchiare qualcosa riguardo al recupero di scatoloni di catone per imballare le bici. Fino a pochi minuti fa, avendo visto il gran numero di negozi di bici, anche molto seri, non ero affatto preoccupata, ma ora leggo su forum e Discord che pare che gli scatoloni siano merce rara. Cerco meglio. Sono merce rara GRATIS. A pagamento si trovano decine di annunci, caricati dagli stessi negozi di bici. Ceco di iscrivermi a Carousell, una sorta di Subito.it, ma, non avendo un numero di telefono singaporese, non riesco. Allora contatto il negoziante su Whatsapp, e ci accordiamo per i giorni in cui saremo in zona. E anche questa è risolta.
Finalmente viene ora di cena, e ne approfittiamo per fare un giro in Chinatown. Nei weekend la via centrale, Jonker street, viene chiusa al traffico e si riempie di bancarelle, di street food e non, con anche musica dal vivo e spettacoli. Per raggiungerla attraversiamo il ponte sul fiume, da cui si gode di una bella vista sul centro storico "coloniale" che visiteremo domani. Apprezziamo poi le numerose opere di street art sparse un po' ovunque, e gli edifici storici che, se pure non rivelanti dal punto di vista culturale come altri, raccontano la storia di questa città multiforme con i loro colori e le loro forme. Queste son pietre che parlano, se ci si ferma ad ascoltarle.
tempio hindu naufragato in Chinatown |
minareto del pari naufragato in Chinatown |
Ci spingiamo fino al tempio cinese, questo sì, di Cheng Hoon Teng: è il più antico di Malesia, come testimonia un'iscrizione datata al 1685. Noto anche come "tempio della nuvola verde" raccoglie in sè tre culti: buddhismo, confucianesimo e taoismo. Fu fondato negli anni Quaranta del Seicento, in piena epoca olandese, da un Kapitan China di rilievo a quel tempo; nei secoli successivi fu ingrandito, arricchito e abbellito e divenne il principale luogo di culto dei cinesi locali, gli Hokkien. La sala principale è del 1704. Fu rinnovato nell'Ottocento dal primo Kapitan di Singapore. Qui, negli anni Sessanta del Novecento, è stata ordinata suora zen (ebbene) Houn Jiyu-Kennett, inglese fondatrice dell'ordine monastico buddista contemplativo. Il tempio si colloca in fondo alla cosiddetta strada dell'armonia, dove coesistono pacificamente moschea, luogo di culto di hindu e questo fulcro della vita buddhist-confucian-taoista. Dal lato opposto della strada si trova un teatro tradizionale, che fa parte delle strutture sacre.
Conclusa la visita, ci buttiamo nell'incipiente casino di Jonker street, già chiusa al traffico, dove si stanno montando le bancarelle. I profumi dello street food, tra fritto, spezie, peperoncino e frutta, si mescolano alle luci che si accendono e ai volti dalle mille fisionomie di etnie diverse. Questo è la Malesia, un crogiuolo dalle molte identità che hanno mantenuto le loro tradizioni, pur senza farne motivo di attrito. Perdersi in questo "caos vitale" è diventata una delle mie attività preferite in assoluto.
frutti di mare freschissimi |
ravioli |
anatra glassata |
durian |
polpette di riso, pesce, carne |
spiedini di frutta caramellata |
spiedini-tentacolo e di pollo |
A ogni incrocio ci sono portali, lanterne e pesci di carta appesi. E i risciò tamarri, agghindati con peluches e parafernalia varia, con musica sparata a manetta. All'ingresso principale di Jonker street, che affaccia sulla piazza olandese, c'è un gigantesco dragone illuminato.
Mentre stiamo iniziando a pensare di sederci a cenare, inizia a diluviare. Ci ripariamo sotto alla tettoia di un grande magazzino che vende dolci tipici (qui gli olandesi han portato alla grande l'arte della panificazione). Il muezzin inizia a cantare. Il dragone brilla nella pioggia. L'odore di durian pervade l'aria, mentre le luci del centro, comprese quelle dell'Hard rock cafè, si sfilacciano nella notte di monsone. I risciò vengono messi al riparo, e volti di tutte le etnie, chi con gli occhi mandorla, chi con il velo, chi con il bindi, chi chiaro, chi scuro, chi turista europeo, chi local che torna a casa, fuggono sotto alle tettoie e ai portici. Che bella questa mescolanza. Questa è l'anima profonda della Malesia, inattesa, spettacolare. Mi piace, ma davvero, mi piace tantissimo.
Per cena decidiamo di affidarci a un ristorante indiano verace, vicino all'albergo. All'interno ci sono murales e citazioni a tema. Tutto il personale è indianissimo, e il menu pure. I clienti del pari. Noto che mangiano tutto con le mani, senza posate. Il lassi scorre a fiumi. Io ordine il cosiddetto "set veg", che viene servito su una foglia di banano che funge da tovaglietta e piatto. Il cameriere si presenta con un secchio d'argento stracolmo di riso bollito, e con un piatto me ne scodella fuori una montagna, chiedendomi se sia abbastanza. Poi torna con altri secchielli, e da ciascuno pesca fuori una scodellata di verdure cotte e condite. Torna infine con ulteriori secchi, contenenti salsine varie, che mi lascia, per condire il riso. Gigi invece va di spaghetti di riso malesi saltati, con verdure. Tutto ciò, due bottiglie di Coca e una di acqua, ci costa 4 euro.
Intanto aspettiamo che spiova, ma pare non abbia alcuna intenzione. Anzi, l'intensità della pioggia aumenta, accompagnata da tuoni e fulmini spaventosi. Le strade sono allagate con mezzo metro di acqua. Nei negozi ce ne è una spanna sul pavimento, e la merce galleggia. I local non paiono troppo preoccupati, anzi, si limitano a dare qualche colpetto di ramazza per buttarne fuori simbolicamente un po'. Son tutti in ciabatte, e ha senso. Noi ci inzuppiamo le scarpe camminando con l'acqua fino al polpaccio. E comunque è uno spettacolo. Inquietante, se si pensa alle inondazioni che colpiscono questa zona. Ma potente. Gigi è terrorizzato e vuole scappare in stanza. In fondo, per oggi, abbiamo dato e domani ci aspetta una lunga giornata ad esplorare questa meravigliosa città ricchissima di cultura. Anzi. CulturE. Al plurale.
24/8
Malacca
Indovinate chi si è addormentato sotto al getto d'aria fredda del condizionatore, con tre kili di char kway teow (spaghettini saltati in salsa di soia e verdure) in pancia, in canotta e mutande, ieri sera? E indovinate chi ha avuto il cagotto nelle prime ore della mattina, e poi ha vomitato tutta la cena, ed è stato male per quasi l'intera giornata (per fortuna di sosta qui a Malacca) con pure qualche linea di febbre e raffreddore? Esatto, Gigi. E indovinate chi prenderà tutte queste cose da lui, in versione più cattiva e duratura? Probabilmente io, esatto ancora. Dunque oggi la giornata inizia così, con Gigi sul cesso che rutta come un dragone malato ed io che cerco di fare lo slalom tra le infezioni. Gli prendo una scorta di acqua e tè al limone, pane, miele e crackers e fermenti lattici, e lo lascio così, a meditare sulle sue scelte di seminudità al freddo diaccio marmato da aircon.
Io muovo verso il centro di Malacca, sulla riva sinistra del fiume, dal lato opposto rispetto a dove si trova Chinatown. Mi prendo un cappuccino a portar via, non in busta stavolta, e passeggio nella città dove pian piano i turisti cominciano a comparire. Gli edifici lungofiume, tutti colorati, danno un tocco di vivacità a un clima altrimenti grigiolatte, com'è tipico al mattino, qui, quando l'umidità inizia ad evaporare con il calore del primo sole.
Tutto comincia al Bastion Victoria, ovvero ciò che resta delle mura difensive del forte portoghese espugnato nel 1641 dagli olandesi, distrutto, ricostruito e ri-abbattutto dagli inglesi nel 1809. E così ho anticipato già le tre grandi fasi coloniali di questa città portuale così ambita dalle potenze europee nella lotta per il predominio sulle rotte commerciali. Un mural introduce al centro storico rappresentando le tre etnie principali della città: cinesi, malesi e indiani.
Subito accanto svetta la chiesa di San Francis Xavier, purtroppo chiusa per restauro da mesi. L'edificio, in stile neogotico, risale al 1849 e fu costruito sulle fondamenta di una vecchia chiesa portoghese in rovina, per volere di un prete francese che prese a modello la chiesa di San Pietro di Montpellier (salvo alcune aggiunte successive).
Tra edifici color rosso cupo lungo il fiume, arrivo alla Piazza olandese (o Piazza rossa, mi mica quella moscovita dove già fui, e per due volte, in bici, all'arrivo di un viaggio partito da casa, e ripartendo verso la Mongolia, l'anno dopo). Questo è il cuore storico della città, il suo luogo forse più iconico, per quanto simbolo del potere coloniale su queste terre. In centro si trova la fontana della regina Vittoria d'Inghilterra, del 1901, anno in cui la longeva sovrana, alfine, gabbò.
Alle spalle si leva l'imponente e tozza "chiesa rossa", la Christ church, prima protestante olandese, poi anglicana inglese, costruita del 1741 per commemorare i 100 di conquista olandese di Malacca. E' in stile olandese coloniale, semplice, in mattoni, legno e stucco; prima era bianca. Il suo colore distintivo è recente, del 1911. Davanti si trovano in fila gli immancabili risciò tamarri con peluches, decorazioni varie e musica a cannone. Quasi quasi vien voglia di lasciar riposare un po' la Signorina Felicita e finire il viaggio con un mezzo del genere... Tanto mancano relativamente pochi kilometri, circa 300, in 4 giorni... Si potrebbe fare!
Tra un raduno di ciclisti e un gruppone di cinesi (tutto il fu celeste impero sembra essersi riversato in Malesia oggi... Pare sia la settimana di vacanza, con tanto di scuole chiuse, e ci sono mandrie di cinesi che si spostano a branchi di 50, 70, con guida con megafono, esasperata dalle lunghe attese per le foto, e ingorghi umani), ammiro anche lo Stadthuys, cioè il municipio (in una forma antica di olandese). Era la sede del governatore di Malacca, costruita nel 1650, poi di uffici amministrativi al tempo degli inglesi. Il quadro si completa con la torre dell'orologio, degli anni '80 dell'Ottocento. Questa non è olandese nè inglese, ma costruita dal figlio di un ricco mercante cinese per onorare il ricordo del padre defunto.
All'interno dello Stadthuys si trova il museo storico ed etnografico, l'unico che decido di visitare perchè mi pare il più completo. Qui si sottolinea bene la storia precedente all'arrivo degli europei, quando Malacca era il centro politico ed economico dell'omonimo sultanato, nonchè ombelico del mondo malese nel XV e XVI secolo, dopo il loro trasferimento da Sumatra.
Poi, nel 1511, arrivarono i portoghesi, con le navi grandi ed i cannoni.
Ma ebbero la peggio pure loro, e fu la volta dei portoghesi, dal 1641 al 1824; poi vennero gli inglesi.
Ma non è mica tutto! Durante la Seconda guerra mondiale fu invasa dai giapponesi e, dopo la fine del conflitto, proprio qui si sviluppò il sentimento anticoloniale che portò a ribellione, guerriglia e quindi ai negoziati per l'indipendenza, siglata nel 1956.
In questo museo scopro l'esistenza di Chen Ho, o Zheng He, considerato il più grande esploratore e ammiraglio cinese di tutti i tempi; visse a cavallo tra Tre e Quattrocento. Fatto prigioniero da bambino, divenne eunuco reale presso i Ming ed essendo di religione musulmana, nonchè educato come abilissimo navigatore, gli furono affidati incarichi scientifici, commerciali e diplomatici. Guidava quella che all'epoca era la flotta più grande al mondo: 317 navi e 28.000 marinai. Viaggiò dal Giappone all'Egitto, dalla Corea all'India all'Arabia. Un grandissimo navigatore, insomma, che precedette l'epoca delle esplorazioni oceaniche da parte degli europei.
Collegati al museo principale ce ne sono altri due, uno dedicato alla letteratura malese e ai suoi autori principali (devo colpevolmente ammettere di non conoscerne neanche uno) e un altro alla scuola e all'educazione (va detto che la prima scuola gratuita e pubblica, qui, è di fondazione inglese, per volontà dei missionari).
Si passa dalla sezione storica a quella etnografica dell'esposizione. Interessanti le ricostruzioni degli abiti tradizionali e delle abitazioni delle varie etnie della regione, con tanto di riti, musica e usanze. Dà proprio la misura della complessità culturale.
Terminata la visita, imbocco la scalinata che sale alla collina che domina la Piazza olandese. Da qui si vede la torre di Malacca, con la sua pedana girevole che sale e scende e consente di avere una vista panoramica a 360 gradi sulla città. Mi accontento di vederla da qui, come parte dello skyline, insieme agli alberi della nave portoghese ricostruita e al mare sullo sfondo.
In cima alla collina si trovano le rovine della St. Paul's Church, costruita dai portoghesi nel 1521 e dedicata alla Vergine. Pare sia la più antica chiesa cattolica malese e del Sud Est asiatico All'ingresso svetta una statua di San Francis Xavier (missionario gesuita spagnolo che, per conto della corona portoghese, diffuse il cristianesimo in Asia nel Cinquecento), sepolto qui (c'è anche la tomba scoperchiata visitabile) prima di essere trasferito a Goa. Ai muri sono appoggiate diverse lapidi olandesi con teschi e memento mori varii.
Scendo dall'altro lato della collina, che dà verso l'entroterra. Qui spiccano palazzoni e centri commerciali, in mezzo ai quali emerge a fatica qualche edificio storico. Su tutti, A'famosa. Ovvero ciò che resta del vecchio castello/fortezza portoghese, del 1512. Mastio e mura furono distrutti e ricostruiti dagli olandesi, dopo il 1641, e la stessa sorte ebbero per mano inglese, nel 1807. Quella che si vede qui è la "Porta di Santiago", uno dei più antichi edifici europei di questa parte di mondo.
c'è anche Jack Sparrow |
Proprio accanto si trova la grandiosa ricostruzione del quattrocentesco palazzo del sultano di Malacca, tutta in legno. L'originale, distrutto, era uno dei palazzi più sontuosi dell'epoca, e pare fosse costruito senza l'ausilio di chiodi, solo incastrando in modo perfetto le assi di legno, come un immenso puzzle tridimensionale. I sette piani di residenza di Sultan Mansur Shah furono accuratamente ricostruiti nel 1985 (l'originale fu distrutto da un fulmine) ed oggi ospitano un museo dedicato alla vita di corte di quel periodo storico.
A pochi passi, ecco il memoriale che ricorda la proclamazione dell'indipendenza malese. Il tutto circondato da grattacieli un po' fatiscenti e megamall vagamente tristi, risciò addobbati, bancarelle e personaggi in maschera a caccia di turisti che paghino per una foto.
Torno verso il centro, passando per un parco dove sono esposti mezzi di trasporto vari e di varie epoche, fino al pezzo forte: la Flor do mar, che ospita anche il museo marittimo. E' la ricostruzione della nave portoghese affondata nel 1511 con a bordo Alfonso de Albuquerque il conquistador di Malacca, che tornava carico di tesori per il re di Portogallo.
A questo punto, siccome è presto e ormai al caldo umido sono abituata, decido di raggiungere a piedi l'ultimo landmark che voglio visitare: si tratta di una moschea moderna, costruita sulla costa, lontana circa 3.5km dal centro. Gambe in spalla, e via che si va per le strade di Malesia di cui ormai ho visto ampio tratto, pedalando. Intanto passo per quartieri residenziali molto piacevoli e qualche mercato, in cui, ovviamente, non manco di ficcare il mio naso di volpe.
Giungo al ponte che collega la costa a una sorta di isolotto strappato al mare dove dovrebbe trovarsi un nuovo quartiere musulmano, all'interno del quale si colloca la Masjid Selat Melaka, la moschea flottante, costruita direttamente sul mare. Dal ponte si scorgono evidenti i segni delle recenti inondazioni: prati e alberi sono ancora sommersi, e la pioggia torrenziale di ieri sera non ha aiutato di certo.
Di là dal ponte mi trovo in un luogo veramente surreale, inquietante, che richiama lo scenario di qualche videogioco post apocalittico. Ci sono interi quartieri, centinaia di edifici, alcuni pure immensi (quello che pare un resort a 20 piani, un centro commerciale, file e file di palazzine) abbandonati. Costruzioni mai finite, senza vetri alle finestre, senza allaccio alla rete idrica ed elettrica, vuoti. Ci sono solo i muri. I corvi, che a migliaia han fatto il nido all'interno delle abitazioni, gracchiano e il loro verso è amplificato in modo spettrale. Tutto marcisce, sgocciale, arrugginisce, cade a pezzi. Alcuni palazzi sono protetti da recinzioni in metallo tipiche dei lavori in corso, altri nemmeno. All'inizio del vialone più lungo c'è un gazebo con due guardie giurate, che probabilmente controllano che nessuno prenda possesso di quelle case abbandonate e mai finite. Non ho idea di cosa sia successo, quale truffa edilizia, quale cataclisma finanziario abbia condotto a ciò. Certo è che cammino guardandomi continuamente intorno e alle spalle, come se da un momento all'altro dovessero sbucare un cecchino da una finestra o uno zombie da un portone semiaperto.
Finalmente raggiungo la moschea, davanti alla quale c'è un po' di vita. Bancarelle, venditori di durian e di palandrane da indossare per coprire le femminee pudenda. Ma scopro anche che la mia passeggiata nel quartiere fantasma è stata inutile: la moschea non si può visitare per diverse ore, in quanto orario di preghiera (e gli orari son decisi di giorno in giorno, non c'è una regola precisa. Solo una lavagnetta all'ingresso con scritte a pennarello). Tutto intorno ci sono altri quartieri blindati, con cartelli minacciosi che mettono in guardia i turisti: stare alla larga o multe salate e passaggio in caserma. "Questo non è un luogo per stranieri", "Zona vietata ai turisti", e così via. Ma che se le tengano la loro moschea. Visto che sono qui così bene, in un quartierino così ameno e piacevole, che ci restino.
Io prendo un Grab e, mezz'ora dopo, sono nella molto più calorosa e accogliente Jonker strett, nel cuore di Chinatown, dove già ieri abbiamo passeggiato tra le bancarelle. Me la godo, avanti e indietro, anche con la luce del giorno e il mercato diurno, che è diverso da quello notturno.
Faccio un po' di spesa per Gigi, in parte a Chinatown, in parte a Little India, dove i negozi sono troppo belli da girare: si va da corsie piene di effigi di coloratissime divinità hindu e corone votive di fiori freschi, a corsie con detersivo per lavatrice, ad altre con cibo che nemmeno so di cosa sappia, figuriamoci conoscerne il nome. Qui, dove vengo guardata con curiosità essendo l'unica non indiana, acquisto del miele delizioso e un sapone al sandalo profumatissimo, di cui vorrei portare a casa un vagone intero; poi raggiungo Gigi in camera. Lo trovo un po' malandato, ma ottimista: domani vuole pedalare. Ha ancora un po' di febbre, ma non nausea e diarrea. Speriamo in bene! Doccia, riposino, ed esco a procacciare un po' di cena per me, da portare in camera per non lasciare ancora Gigi da solo. Ripasso per il centro, dove bancarelle e artisti di strada impazzano, tra musica, balli, bolle di sapone e luci. C'è proprio un mondo intero, qui, sulla strada.
Quando ne ho abbastanza di casino, faccio spesa, in parte da due negozianti indiani che ormai mi han vista diverse volte in questi giorni e mi riconoscono, e mi salutano con un "Hi miss! How are you?" e sorrisoni sotto ai baffi. Sono troppo simpatici piacioni! Poi salgo, e qui, così, si conclude anche questa giornata in Melaka. Domani di riparte. E son le ultime tappe, ormai, di questo grandioso viaggio nel Sud Est asiatico.