mercoledì 30 agosto 2017

Sessantunesima e sessantaduesima tappa. Steppe, deserto, sabbia e pietra... E il confine tra Russia e Mongolia! Gusinoozersk e Kyakhta, punto d'incontro tra zar e imperatore cinese



Si apre qui di fronte a me l’immenso verde brullo di Mongolia, che respira piano nella quiete della notte. Silenzio e stelle, profili di monti addolciti dal tempo, poche luci sparse e un fuoco accesso, in lontananza.
Ormai ci sono. Ieri ed oggi ho percorso le ultime due tappe in terra russa, che è tanto grande, tanto spietata alle volte; la bellezza, fin qui, non l’ho rubata, ma pagata al giusto prezzo della fatica per poterne godere. Per questo lascio la Russia con la serenità dell’uomo onesto, senza conti in sospeso, senza paura di dover restituire qualcosa, prima o poi. Non ci sono sati furti ma scambi tra pari e quando ci rivedremo, in futuro, sarà come riabbracciare un vecchio amico. Per i bilanci finali non è tempo ancora, certo è che la Transiberiana a pedali è stata un’esperienza grandiosa. Ho imparato così tanto in due mesi… Sul mondo e su di me.
Da domani sarò in Mongolia, dunque, per un assaggio di questa terra nuova che mi accoglierà, spero, come s’accoglie il pellegrino giunto da lontano, quasi da un altro mondo (e invece è sempre lo stesso), a rendere omaggio. Porto il dono del mio tempo, è la cosa più preziosa che possiedo, di meglio non ho da offrire a questa patria di nomadi che pulsa il ritmo ancestrale del galoppo dei cavalli selvatici.
Certo, arrampicarmi fin quassù al confine, da Ulan-Udè, non è stata una passeggiata, pur nella meraviglia assoluta dei paesaggi.
Ieri ho lasciato l’Hotel Buriazia molto, molto tardi, già quasi nel pomeriggio; durante la mattinata ho infatti accompagnato Raymond a cercare abiti più pesanti: guanti, pantaloni lunghi, una giacca… Non può pedalare fino a Vladivostok, sotto i cieli implacabili della brutta stagione che avanza, in t-shirt, pantaloncini e sandali. Purtroppo i pochi negozi di abbigliamento sportivo vendono oggetti random, dal monopattino alla cintura per chi solleva pesi, dalla canna da pesca ai fidget-spinner, ma non contemplano alcun capo di vestiario invernale. Perché è estate. Nemmeno un paio di guanti, una felpa tecnica. In Russia, con temperature già prossime allo zero. Niente. Solo un paio di calzini che userà anche come guanti, nel caso. Perciò m’è sembrato giusto lasciargli una delle mie due giacche invernali: io sono quasi arrivata, e per di più muovo verso l’arido sud; non dovrei aver bisogno di un cambio in caso di pioggia torrenziale, una giacca mi basta. A lui serve sicuramente di più. Ha provato entrambe (gli calzavano a pennello) e poi ha scelto quella più aggressive, la divisa firmata Boglia e con marchio Colnago che ho usato solo lo scorso inverno, dopo l’operazione (visto che il mio altro invernale era stato tagliato dai volontari dell’ambulanza per bloccarmi il braccio). 



Era tutto contento, il buon Raymond, perché è una cosa utile e che appaga anche il suo non trascurabile senso estetico (tutte le mattine, per dire, si pettina con una spazzola davanti allo specchio, sistemando i ciuffi ribelli. Io non ho nemmeno portato un pettine, tanto con il casco…). E così ci siamo salutati, sotto un sole caldo e buono che ha sigillato l’arrivederci. Chissà che l’idea di fare insieme, l’anno prossimo, la via della seta a pedali, non si realizzi davvero. Per me è già un sì. 



Con questo minuscolo vagabondo bretone mi son trovata benissimo e da lui ho imparato la pazienza e la calma di chi lascia che le cose accadano senza mai preoccuparsi: a qualunque problema, tranne uno, c’è soluzione, quindi non serve preoccuparsi. Ci sono salite o strade orribili? Si arriverà un po’ più tardi e facendo un po’ più di fatica. Fa freddo? Si beve un tè caldo e si indossano i calzini come guanti. Non ci sono hotel? Si pianta la tenda. Non ci sono ristoranti e supermercati? Si dà fondo a pane, miele, pasta e sardine di scorta. E così via. Raymond viaggia da 50 anni in sella alla bici e ha visto il mondo, ha vissuto esperienze estreme tra deserti e ghiacciai, non è uno sprovveduto. Ma soprattutto ha imparato a prendersi tempo e a goderselo tutto, senza crucci. Un modo per cavarsela si trova poi sempre.
E’ questo, oltre ai suoi racconti e ad una collana che arriva dalla missione in Burkina Faso dove opera, il regalo grande che mi ha fatto: prima di incontrarlo stavo iniziando a cedere, per la fatica e lo stress di tutti i problemi e le incognite cui si è esposti quando si vive on the road. Ora no, sono un mare calmo, un cielo steso. Ho preso coscienza di potermela cavare comunque, conosco la strada e conosco me stessa. Può capitare di tutto ma un nocciolo dentro di me resta saldo e splendido come il Buddha d’oro che ride in silenzio nel tempio.
Quindi arrivederci Raymond, e buon viaggio a te che prosegui verso l’Oriente estremo, imperturbabile come l’abisso di un cielo stellato o di un mare di insondabile profondità.
Sola e accompagnata da uno sciame di ricordi degli ultimi giorni mi sono così diretta di nuovo ai ponti sull’Uda e sul Selenga, per tornare esattamente al punto dove il giorno prima avevamo lasciato la strada per entrare in città. 



Ulan-Udè mi ha salutata con la statua della Buriazia e con quella di una delle tigri a guardia del fiume. 




Poi, in un soffio, mi sono ritrovata nell’arida valle del Selenga, che ha assunto via via un aspetto sempre più desertico e alienante. Ho passato Ivolginsk, sede di un monastero buddhista fondato nel 1945, in barba ai tentativi da parte di Stalin di estirpare la religione e le tradizioni buriate. 


è un banale supermercato ma il totem del cavallo e la pagodina d'ingresso meritavano


Poi più nulla, per 100km, in un susseguirsi di colline brulle, bruciate dal sole arroventato. 36 gradi segnava un termometro. 







Ogni tanto, nell’immobilità di questa enorme clessidra ferma, un cane della prateria, una cicala intermittente o il fischio laconico del treno che corre sulla Transmongolica. La monotonia dei colori dell’arsura è rotta qua e là da un occhio azzurro di lago, che si spalanca al cielo ed esala un vapore finissimo che offusca la vista.

 






La strada è tutta in salita, ma di una salita lieve e solo a tratti percettibile: è così che pian piano inizia la scalata all’altopiano della Mongolia, che si trova tutto tra i 1000 e i 1300 metri.
La meta che mi attendeva era Gusinoozersk, una piccola cittadina industriale che prende il nome dal lago, Gusinoye ozero, su cui sorge, che letteralmente significa “lago dell’oca”. E infatti il monumento che da lontano pareva un’aquila è un papero. 



Qui si estrae lignite ed è per questo che, nel 1939, la località ha iniziato ad essere abitata per diventare città solo negli anni Cinquanta. Ad oggi l’economia si basa sulla centrale elettrica alimentata a lignite, di cui dalla finestra della mia camera vedevo le ciminiere. Ho trovato l’albergo al primo colpo, una stanzina onesta e senza pretese come piace a me, al lussuoso hotel Raduga.




E in un attimo è calata la sera anche su questo lembo estremo di Russia tra gli sbuffi delle ciminiere e altro e meno visibile disperdersi d'anime.





Il giorno seguente, cioè oggi, sono ripartita con calma sotto un sole già caldo, 



ma fin dalle prime pedalate mi son resa conto di quanto contrario e freddo e bastardo fosse il vento. Proprio oggi, che mi attendeva un’altra tappa da Gran premio della montagna… Che sfiga! Ho costeggiato il lago per qualche kilometro, con partenza in salita (e arrivo in salita e tutto in salita, mannaggia all’altopiano mongolo).









Da lì, superata la città, è iniziato il grande nulla che dilaga tra queste valli rose dalla siccità e soffocate dalla polvere rossa che il vento solleva.






A parte un tempio buddhista e un paesino a 80km dalla partenza (ma sprovvisto di negozi o bar o benzinai o un qualunque posto per comprare dell’acqua), tra le due città di partenza e arrivo della tappa non ci sono tracce umane, fuorchè la strada, deserta anch’essa. Ho avuto, nemmeno a dirlo, problemi per l’approvvigionamento idrico, peggiorati dal caldo, dalle salite continue e dal fatto che l’acqua comprata ieri al negozietto in paese sapeva di ferro al punto che pareva di bere sangue; per di più era calda, e mi sembrava di essere uno di quei masai che si disseta bevendo il sangue dalla gola forata delle mucche. Per domani mi son comprata mezzo Bajkal in bottiglia, mannaggia.








Tra un’ansa del Selenga e gruppi di colline punteggiate di cespugli, tra una buca nell’asfalto e una gobba, 








mi sono portata fino a metà tappa, per scoprire con orrore che, da lì in poi, la strada era quasi del tutto sterrata.



Ma non come le strade bianche, non con la terra battuta o il brecciolino bello, no. Con i sassi grandi e aguzzi come quelli che si mettono tra i binari del treno, e con la sabbia alta una spanna, rossa come il sangue che ho sputato per arrancare in salita e controvento nell’arsura. 



Per far le piaghe d’Egitto mancavano solo le cavallette… No! C’erano pure quelle, una marea. Mai viste così tante tutte insieme. Per lo più si suicidano nei raggi della Signora, saltando direttamente nel frullatore, ma a volte finiscono sui polpacci e si aggrappano con le loro zampette uncinate ai pantaloni, e staccarle senza disintegrarle (cosa che non voglio e che mi farebbe pure schifo) non è punto facile.
Ho percorso a piedi solo brevissimi tratti di questa non-strada: era già tardi e c’era il rischio concreto di dover pedalare in quel vuoto dopo il tramonto. Diciamo che ho testato la tenuta delle viti che ho nei gomiti e ho riapssato i nomi di tutti i santi.



Per fortuna negli ultimi kilometri la strada è tornata ad essere tale, anzi, con l’asfalto nuovo. 



Ho accelerato, con le ultime energie e la forza di chi non vuole sentirsi dire in ogni albergo nie miesto, non c’è posto. Fiato corto, gambe sfilacciate e disidratazione totale mi han portata fino alla meta, Kyakhta, che si trova stesa tra le colline, proprio appoggiata al confine, affacciata al bordo della Mongolia, austera dirimpettaia di Altanbulag, località confinale mongola dove si passa la frontiera. Infatti per accedere alla città bisogna passare un posto di blocco della polizia che controlla passaporto e visti.
Kyakhta in buriato significa luogo copero di gramigna dalla parola mongola khyag, gramigna appunto. La città in sé è stata fondata nel 1727 subito dopo la negoziazione del trattato di Kyakhta, accordo commerciale e di definizione dei confini tra zar e imperatore cinese. Si aprì così una nuova via del commercio di tè legname, seta e porcellana, spezie e tessuti in un continuo flusso di carovane e chiatte tra Cina e Russia; Kyakhta, pur essendo porto di tanta ricchezza, non trasse mai gran giovamento dai traffici che brulicavano nelle sue strade, e rimase sempre piccola spoglia, sporca e focolaio di malattie Da qui partirono alcune famose spedizioni d’esplorazione della Mongolia interna. Dal 1860, però tutte le frontiere tra Russia e Cina furono aperte ai commerci e le ferrovie, che non passavano di qui, fecero cadere in declino la città. Interessante è che, trattandosi del primo mercato aperto tra cinesi e russi, Kyakhta dà nome ad una lingua mista di contatto, un pidgin sino-slavo che permetteva ai mercanti dei due imperi di comunicare.




Ancora oggi svolge il ruolo di porta tra imperi, perché qui si apre la più importante frontiera per accedere alla Mongolia, quella di Altanbulag, da cui passerò domani, spero senza problemi.
Dovrò cambiare i rubli in tugrik e abituarmi alla nuova lingua, che, all’inizio, mi stordirà nelle parole incomprensibili scritte sui cartelli. Se possibile, acquisterò una sim card mongola, come ho fatto per la Russia, altrimenti dovrò accontentarmi delle wifi degli hotel che pare siano più un fatto di forma che di sostanza. Evidentemente qui il nie rabotaiet è internazionale.
E’ tempo adesso di riposare per me e la Signora, perché domani sarà un grande, lungo giorno di avventure nuove su questa vecchia terra.