mercoledì 29 agosto 2018

61-63. TOKMOK e BISHKEK. Fiori e cemento, Frunze e Manas (e altre strane coppie)




27/8/18

Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.
Lo so, non è ancora proprio settembre ed io migro e riemigro e ritorno e rivado, ma son solo le mie ferie, nulla più.
Però pensavo al Gabrielone nazionale oggi quando finalmente ci siamo rimessi sulla via per Bishkek, dopo i due giorni di deviazione sul lago Issyk-Kul. Che son stati anche due giorni di riposo e calma, di relax post-sovietico e post-vacanziero. La mia salute è ancora fragile, tosse e raffreddore non passano. Ma è passata la stanchezza feroce dei giorni scorsi, e si può proseguire svelti.

Dopo aver controllato che, questa volta, nulla della bici fosse stato rubato, e dopo aver mangiato una frittata con la sarciccia insieme al caffelatte, accoppiata atomica che digerirò circa 12 ore più avanti, partiamo.
Balykchy, il paese dei pescatori, capolago, ci saluta con altri due Lenin, che vanno ad aggiungersi al busto piazzato davanti alla spiaggia, che scolpirlo in infradito e palandrana stava male. Donc, 3 Lenin is megl che uan.





Dal paese subito si imbocca la superstrada che collega Naryn e Karakol alla capitale. Bishkek dista 180km e abbiamo due giorni per raggiungerla. Oggi non sappiamo esattamente cosa ci aspetti e dove ci fermeremo, ma un buon punto di arrivo, che poi sarà quello effettivo, è Tokmok. Si tratta di una cittadona di 80.000 abitanti, incastonata a puntino nella valle del fiume Chu, fiume di cui per tutto il giorno dobbiamo seguire il corso. Ho visto che ci sono un albergo a 5 stelle e una gostinitsa marcia. Try to guess: a cosa miriamo? Esatto, la stamberga.

I molti cicloturisti incorciati qui in Kirghizistan ci hanno messi in guardia riguardo al traffico, a loro dire terribile e pericolosissimo, della superstrada tra l'Issyk kol e Bishkek. Invece è deserta. Sempre così: i nomadi a pedali sono spesso abituati più ai sentieri e agli eremi che alle strade trafficate, e si muovono a fatica quando le macchine sono più di una decina. Ma ragassuoli, sto paese conta in tutto 5 milioni di abitanti, che traffico vuoi ci sia? Allora entrare a Mosca o Istanbul che è, un inferno? La gavetta fatta a Milano, andando in università tutti i giorni alle 8 del mattino e tornando alle 5 del pomeriggio, sulla novarese, si rivela sempre utile.

Così, controvento e nell'aria frizzantissima, imbocchiamo lo stradone.
Che è un susseguirsi di yurte in cui si vendono i prodotti tipici kirghisi, pesce secco, latte fermentato, formaggi, kymys, miele, pane e prodotti da forno, lagman (spaghetti) e manti (ravioli).
Per chi vuole portarsi a casa dal lago un souvenir o un acquisto dell'ultimo minuto. "Oh rega', che je regalamo a zia? Cchiappa n pescetto ve', quello va sempre de cristo!".




L'asfalto è nuovo e liscissimo, il traffico quasi nullo e per di più hanno disegnato la linea della mia comfort-zone, che è sempre in quei 30cm a bordo destro della carreggiata dove mi sento protetta da uno scudo di luce e bontà divina.




Nonostante si sia su una sorta di autostrada, il paesaggio è impressionante per i monti che circondano la sottile linea d'asfalto. La roccia muta colore e i blocchi rossi, neri e ocra fanno da muro tutt'intorno, chiudendo l'orizzonte allo sguardo.








Una nota di merito, questa volta sì, agli ingg. che hanno progettato la strada. Finalmente un'idea intelligente di viabilità; mi spiego: la strada corre sempre tutta in valle, seguendo il corso del fiume. Ci sono delle piccole rampe e dei saliscendi, ma non salite nè passi. Si segue la forma esatta delle pendici dei monti, in una serpentina che accarezza i fianchi di roccia senza trafiggerli, senza scavalcarli. E dunque, benchè il vento contrario sia sempre più forte, viaggiamo ad una media superiore ai 20km/h, e senza ammazzarci di fatica (anche perchè io da alcuni giorni ho delle fastidiose e frequenti contratture ad entrambi i quadricipiti e forzare sui pedali non è il massimo).






Seguiamo le acque impetuose del Chu e, piano piano, in modo assolutamente graduale ed impercettibile, scendiamo in altitudine. Arriveremo ai circa 800m della valle a nord, che rimane chiusa tra i monti e il confine kazako.

Oltre a numerose statue di aquile e stambecchi e leopardi delle nevi,


incappiamo anche in una sorgente d'acqua che si dice non solo potabile, ma pure benefica, quasi miracolosa. In molti si fermano a far selfie mentre bevono direttamente dal pisciolino verdognolo che vien fuori da un tubo di metallo di dubbia igiene. Raymond non si lascia scappare l'occasione e riempie una bottiglia di quest'acqua verso cui nutro forti sospetti. Io evito qualunque contatto, non mi fido mica. No-no.


Ripartiamo e ormai dai monti siamo quasi fuori. La valle si fa più larga e la discesa più ripida; aumenta sensibilmente anche la temperatura. As usual, ci sono animali sbagliati sulla superstrada. Tipo i cavalli. Che ti guardano dall'alto in basso, sempre, alteri come sono. E poi attraversano senza preavviso, mannaggia a loro.



In un attimo siamo in valle. Qui fa caldo, nonostante il vento continui a soffiare contrario. L'orizzonte si fa più largo ma non spazia del tutto: a nord e a sud catene del Tien Shan indirizzano lo sguardo. Per altro qui poco a nord, oltre i monti, c'è il Kazakistan. La strada corre proprio lungo il confine.


Inizia anche la lunga fila di paesi e città che si susseguono qui, una delle poche zone pianeggianti del paese. Ad annunciarlo sono i venditori di pannocchie bollite a bordo strada. Kukuriza kukuriza! E fumighi neri di legno, plastica e sadiocosa bruciati invadono le narici.







Ci fermiamo ad acquistare un pane lucido come solo qui san fare, laccato con chissà che vernice, e cerchiamo un buon punto per la sosta-pranzo. Raymond porta con sè da due giorni delle fettine di formaggio, chiuse in un tovagliolo di carta, ciulate all'hotel Panorama dai tavoli degli altri ospiti, tutti italiani un po' schizzinosi. Noi schizzinosi non siamo.


Troviamo il riparo perfetto a bordo di una vasca di raccolta d'acqua proveniente da uno dei molti canali d'irrigazione che partono dal Chu e si diramano nei campi. Mangiamo e dormiamo, dopo 80km pedalati, e con 40km davanti ancora.








L'ultimo tratto di strada di costringe ad una scelta: proseguire lungo la superstrada, più nuova ma più lunga e trafficata, o tagliar dritto seguendo la strada vecchia, più scassata, che infila tutti i villaggi agricoli come una "collana di ossi di pesca"?
Optiamo per la seconda, è più interessante.







Così, un po' rincoglioniti per il vento contrario che, per tutto il giorno, ci ha affilato il muso, arriviamo a Tokmok.



Questa città venne stabilita come avamposto militare settentrionale del Khanato di Kokand (vi ricordate?) nel 1830; trent'anni dopo cadde in mano ai russi che demolirono il forte. La città moderna venne fondata il 13 maggio 1864 dal colonnello Mikhail Chernyayev.

Malgrado la sua origine relativamente moderna, Tokmok si trova al centro della valle di Čuj, preda ambita da molti conquistatori medievali: le rovine di Ak-Beshim, capitale del Khaganato turco occidentale, sono ad appena 8 km a sud ovest di Tokmok; si pensa che il poeta Li Bai della dinastia Tang sia nato in questa zona, come pure Yusuf Has Hajib, autore del Kutadgu Bilig.
Circa 15 km a sud di Tokmok si trova la torre di Burana, risalente all'XI secolo, sopra quello che si crede sia l'originario sito dell'antica cittadella di Balasagun, fondata dai sogdiani e successivamente per qualche tempo capitale del khanato karakhanide della quale oggi resta solo una collinetta di terra. Nei suoi pressi infatti sono state portate alla luce antiche pietre tombali e artefatti sciti, che oggi, nulla di nuovo, stanno nei musei di San Pietroburgo e Bişkek.

Noi, di tutto sto poò di roba, apprezziamo solo la gostinitsa Janat, definita come una delle più marce della valle. Dalle recensioni pare che sia alcova per incontri di lussuria pagata con moneta sonante. Noi però restiamo piacevolmente stupiti dalla gentilezza delle proprietarie, una russissima biondissima e una scura scura con i tratti pienamente asiatici; i letti vengono fatti al momento con biancheria pulita e il bagno, anche se non pare, funziona in tutto e per tutto, con acqua calda e puzzolente come nei migliori motel sulla Transiberiana.



Unica pecca: il solo ristorante vicino è chiuso. Allora facciamo spesa: pane, formaggio, tolla di piselli e mais per me, tolle di pesce misterioso per Raymond. Quelle saranno un effettivo errore, che lui stesso ammetterà. Potrebbe essere la carne di qualunque bestia, in salsa. Penso siano gli amabili resti di qualche anziano: se prima, quando c'erano in sovietici, si mangiavano i bambini, ora si mettono in scatola solo i vecchi morti di morte naturale. Con salsa di pomodoro, pajalsta.

La proprietaria dell'albergo, forse impietosita o allarmata dal fetore che emana dalle tolle di pescemale, ci porta una teiera di tè verde con zucchero. Per noi va benon, dato che abbiamo comprato anche il dolce: il classico biscottone al cioccolato con ripieno di marshmellow, che nei paesi ex Urss e nei Balcani va a ruba. Raymond ha anche preso due yogurt che non sono yogurt ma l'equivalente del fruttolo nostro. Solo che al posto d'esser fatti con il formaggio, sono fatti con il purè. Aromatizzato alla banana.

Se sopravviviamo alla cena, domani arriviamo a Bishkek. Sono curiosissima di scoprire questa città. E di acquistare i cappellini di feltro che stiperò nelle borse a pacchi, chè sono TROPPO belli.



28/8/18

"Prendiamo la scorciatoia". E fu così che, dopo una notte di andirivieni di prostitute e rumorosi clienti, ci trovammo di nuovo nella rasputiza spaziale dell'Asia centrale. Mannaggia alle mappe offiline del bretone.
 


Da Tokmok, comunque, siamo riusciti ad uscire. Pur con qualche difficoltà. Tipo fare avanti e indietro tre volte le periferie più sordire, fuggendo dagli assalti dei cagnolini mordaci che fan la guardia alle baracche. Da Tokmok siamo usciti e la città ci ha salutati così, alla russa, con un gran simbolo di pace e fratellanza tra i popoli.


Come già capitato sulle sponde dell'Issyk kul, anche qui abbiamo incrociato alcuni gruppi di volenterosi kirghizi che, in squadre, armati di sacco e rastrelli, raccolgono la monnezza da bordo strada. "giornata del verde pulito" versione centrasiatica, insomma, che prevede che poi le borriglie di plastica e i rifiuti misti vengano BRUCIATI in piccoli roghi accesi lì per lì, sul posto, tra le sterpaglie. Inutile dire che, se già Bishkeke e periferia soffrono di problemi d'inquinamento dell'aria, questo sistema "ecologico" di smaltimento rifiuti non fa che peggiorare la situazione.

Sicchè i miei bronchi, già stremati da quasi 20 giorni di tosse e raffreddore, e ben adusi ormai all'aria pura dei monti, sono stati messi a dura prova. I 70km percorsi tra Tokmok e la capitale, lungo la vecchia strada che collega i paesi, son stati una cosa a metà tra l'apnea e la tisi.



Siamo anche passati dalla città di Kant. A parte il nome, che è tutto una "critica" (della ragior puretica, ma Parmentier non c'entra), è interessante dire che qui ha sede una base militare russa, con tanto di aeroporto e parafernalia. Magia magia, a nemmeno 50km, c'è quella statunitense. Che fantazya.
Nel 2002 gli USA hanno ottenuto infatti il diritto di utilizzare l'aeroporto internazionale di Manas, come una base aerea per le operazioni militari in Afghanistan e in Iraq. Nel 2003 anche la Russia ha battuto i piedi finchè ha preso posto qui, con i suoi soldatini. Questa installazione si basa sui resti di un'importante scuola di formazione per piloti militari sovietici, che annoverò tra i suoi studenti anche Hosni Mubarak, in seguito divenuto presidente dell'Egitto.
 
Comunque ho scoperto che Kant in kirghizo significa zucchero perchè nel 1930 fu aperto qui un grande zuccherificio; ma oggi l'industria principale è un birrificio.



Tra un colpo di tosse e l'altro, tra lo smog dei vecchi camion che bruciano capitalismo ed emettono neri fumi di scarico, siamo arrivati per davvero alla capitale del Kirghizistan, dove ormai pedaliamo da oltre due settimane. Bishkek. Una città di cui nessuno sa nulla, sfigata abbastanza da non meritarsi mai nemmeno una foto sui libri di geografia italieni. Ho tenuto fede alla parola data: l'anno scorso, tornando da Ulan Bator, avevo fatto scalo in questo aeroporto e, nell'attesa, avevo visto alcune foto e soprattutto alcuni berretti tipici. E mi ero ripromessa di tornare, in bici. Eccomi qui.


La città, in sè, è piccola: conta meno di un milione di abitanti e la periferia si estende per meno di 6km. In un attimo si è in centro. Peccato che, pur pochi, i biscottini (bishkekini, bishkekesi, what?) riescono a guidare così male da crear traffico folle. E pericoloso. Soprattutto taxi e marshrutka fanno manovre imprevedibili e guidano ovunque, pure a mezzo sui marciapiedi. Districarsi in questo casino non è semplice, ma nemmeno impossibile.

Impossibile, invece, è trovare l'Hotel Tumar, prenotato con Booking. L'indirizzo è sbagliato, il numero di telefono non esiste, su Google ti mandano a fanculo solo a cercare il nome. La gente non sa dove sia, però sa che molti turisti chiedono a riguardo, chissà perchè. Insomma, dopo un'ora e mezza di vana ricerca, abbiamo deciso di lasciar perdere e cercare un'altra struttura. Capitiamo così al Compass Hostel, in centrissimo. E ci va di gran culo: è tutto nuovo, ben arredato, pulito, accogliente. English spoken. Colazione (tanta) inclusa. Tè e caffè self service 24/7. Ma che vuoi di più?




Dopo esserci lavati e riposati, usciamo alla scoperta di questa misteriosa città, che fin dai primi passi sa di sovietico come il cioccolato Alionka.





La prima cosa triste, oltre alla luce grigia che ingrigisce i palazzoni di cemento già grigissimi, è il nome. Bishkek in kirghizo significa "zangola" (recipiente di legno utilizzato per trasformare la panna in burro), in particolare quella usata per ottenere il kumis, il latte di giumenta fermentato, che rappresenta la bevanda nazionale del paese.
Vi sono numerose leggende sul motivo per cui si dette alla città il nome di un attrezzo, ma la teoria più accreditata è che la scelta nacque dalla mera assonanza esistente fra il vecchio nome Pişpek (Пишпек) e il termine kirghiso Biškek






Nel 1825 il khan uzbeko di Kokand fece costruire, sulle rive di un affluente del fiume Ču, un forte di argilla, uno dei molti che punteggiavano i dintorni della Via della seta e delle altre strade carovaniere asiatiche. Nel 1862 il forte fu raso al suolo dai russi che insediarono nella zona una guarnigione e 16 anni dopo fondarono la città di Pishpek, abitata da contadini russi attratti dagli incentivi e dalla fertilità della terra.

Nel 1926 venne rinominata Frunze (Фрунзе) in onore del comandante russo Michail Vasil'evič Frunze, originario del posto e la città divenne capitale della Repubblica Socialista Sovietica Autonoma del Kirghizistan. Nel 1991 la città ha preso il nome attuale.

Bishkek, comunque, non è così pervasa dal senso del brutto.






Sembra quasi di non essere in Kirghizistan, anche perchè lo standard e i ritmi della vita nella capitale sono ben lontani da quelli delle cittadine sparse tra i monti, dei villaggi e degli accampamenti.
E' una città russa, quandi wannabe europea, e cosmopolita. Solo il 66% della popolazione è di etnia kirghiza; il 20% è costituito da russi e ucraini, e grande è la comunità coreana, che vive qui dall'inizio del secolo scorso (e son giunti in bicicletta).

La città è molto verde e vanta numerosi parchi, tutti ben curati ed animati dalla gente, che passeggia o riposa sulle panchine. Non è il Turkmenistan. Qui gli spazi sono di chi ci vive, coppiette, mamme e nonne con i bambini e gruppi di ragazzi, lavoratori in pausa e artisti di strada rendono viva e onesta questa capitale, che non è solo di rappressentanza. Il clima è rilassato, benchè qui proteste e rivolte serpeggino con facilità (come nel 2005, quando è stato scacciato il primo presidente della repubblica).





Di monumenti mozzafiato e imperdibili scorci, possiamo dirlo, non ce ne sono molti. Si passeggia tranquilli tra cioò che resta del passato sovietico, di cui non molto è stato cancellato e che ancora conferisce alla città una postura impettita e cupa. Perchè tanto han fatto, nel bene e nel male, i sovietici. Ma il gusto estetico proprio mancava.


Alle spalle del museo nazionale di storia, purtroppo chiuso per lavori di ristrutturazione, è stata spostata la statuona di Lenin che prima occupava un posto centrale nella piazza centrale della capitale. Ora, mentre lo zio continua ad indicare il luminoso sol dell'avvenire,





al suo posto è stato eretto un monumento a Manas, l'eroe epico dell'omonimo, mastodontico poema nazionale kirghiso.



Questo è il cuore, il centro geometrico, storico, politico e turistico di Bishkek. Piazza Ala-Too, cioè Alatau, come i monti che sfiorano i 5000 metri e fanno bello lo sfondo della città, con le loro nevi perenni.


Intorno si sviluppanoi palazzoni che abbracciano la piazza intera, e che vedono un continuo movimento di onde d'umanità: politici, classi di scuola in gita, ragazzi in skateboard, dovve velate dagli occhi a mandorla e biondone russotipe in gonna corta.






Manas, che sarebbe come per noi dire Achille, fa la guardia al museo ed alla bandiera, enorme, che sventola più rossa dei rossi che furono.






Per oggi, visto che il museo è chiuso, decidiamo di esplorare la metà orientale della city, che si sviluppa tutta a destra e a sinistra della piazza Ala-Too, lungo la via Chuy, omonima della ricca regione pianeggiante che fu tanto contesa dalle varie potenze di questa terra, chè di qui passava la via della seta.


Uno dei più vecchi cinema cittadini, che ancora porta i soviet-fregi, ma ora fa proiezioni 3D.



Notevole, bella e assai russa è la presenza numerosa di statue, che costellano ogni parco ed ogni strada. Dopo un po', nel grigio grigiore, inizio a scambiare monumenti e persone, e mi pare di veder muoversi il ferro.



Poco oltre sta il po(n)deroso monumento agli eroi kirghisi della Rivoluzione, piombo, 1978.






Proseguiamo un po' a zigzag e troviamo la statua di Toktogul Soldanov, poeta e cantore nazionale, che siede vicino al teatro dell'opera, uno dei molti della città (russi = teatro, sempre).




Di fronte sta il museo, non visitato (non so perchè ma io e le pinacoteche non andiamo d'accordo) delle belle arti kirghize. Ho letto che ospita opere di artisti locali, e molte riproduzioni di statue e dipinti di altre nazioni. Non gli originali, ma copie. Cui prodest? La struttura esterna, nemmeno a dirlo, è cemento brutto.





Mentre ci spingiamo sempre più ad est ci imbattiamo nell'apoteosi del kitsch kirghizo dei ricchi locali. Qui sta una sala dove si celebrano i matrimoni in grande. E qui si noleggiano macchinoni di dubbio gusto e limousine decisamente orrende.






Ironia della sorte, ma con logica ferrea, a pochi metri c'è il circo nazionale.
Che è più fuori che dentro, come s'è visto. Ma questo, giallo bananananana, ispira una tristezza come solo i circhi menci sanno fare. Immagino il clown con il trucco che cola e la domatrice di tigri spelacchiate che calca l'arena con le calze smagliate.


Tutt'intorno son palazzoni, in costruzione o mai finiti di costruire. Non è chiaro. Alcuni invece sono abitati, case popolari come formicai. Nei cortili, però, stormi di bimbi giocano a palla e schiamazzano. C'è vita che pulsa anche da queste parti.





Giungiamo infine alla grande moschea che ho visto questa mattina arrivando in bici. E' moderna, nuova, nuovissima. Al punto che non è ancora aperta e i giardinieri si industriano intorno alle aiuole. E' forse un tentativo di riprendere in mano la tradizione kirghiza, che è fatta anche di religione musulmana e capelli velati, per evitare di tornare ad essere parte della Russia. A propos, qui tutti parlano russo, nuove generazioni soprattutto: il kirghiso è schifato come lingua provinciale e bifolca. E ho pure letto che l'intero sistema scolastico è ancora quello sovietico, ereditato in blocco e mai mutato. Nelle scuole si insegna non solo il russo, ma IN russo. E si legge esclusivamente letteratura russa (certo più ampia di quella kirghiza, però...).




Tanto per stare in tema, raggiungiamo la piazza della vittoria, dove arde fiamma perenne a memoria dei caduti della seconda guerra, per i russi la Grande guerra patriottica. 1941-1945 sono le due date, scritte con il marmo rosso e con i fiori (rossi), poi sfilano i nomi dei morti di morte violenta, morti per la patria, morti per un ideale o per mancanza di scelta, non lo sapremo mai.







In breve si torna al centro, sulla Chuy avenue, o prospiekt, o kochasi. Qui i centri commerciali, enormi, eccessivi, templi del consumismo, invadono lo sguardo. Orde di giovani modaioli con borse sottobraccio entrano ed escono. Shopping sfrenato, da queste parti. Altro che bazaar.


un distaccamento del Gum moscovita?


Arbat kirghizo, versione in miniatura della via moscovita





Dopo un'altra sfilata di palazzoni rientriamo in ostello. E noto con disappunto che nel mio guardaroba non c'è l'abito da sera per il ristorante messicano dove andremo a cena. Ciumbia, tocca il solito completo da cicloturista da battaglia!








29/8/18

Dopo una colazione a base di manti dolci (ravioli) e anguria, torniamo nelle vie del centro sotto ad un timido sole. Qui siamo a 800m ma fa fresco assai, benchè meno che in montagna. L'estate è proprio agli sgoccioli.

Dopo un'altra puntantina verso piazza Ala-Too, ci muoviamo ad ovest. Destinazione: Osh bazaar. E' uno dei più grandi della città e il più animato, perchè vende al dettaglio ogni tipo di mercanzia, dalla carta igienica al nasvai, tabacco tagliato con oppiacei, da masticare per stordirsi forte.





Tra palazzoni, centri commerciali iper-moderni e contraddizioni di varia natura, ci avviciniamo al bazaar respirando il clima di chi a Bishkek vive, lontani dalle zone più turistiche e meno autentiche.











Immancabili, ad ogni angolo, i venditori di kvass, salep e kumyss, bibite che mescolano tradizione turca, mongola e russa.






Quando si arriva all'Osh bazaar non si può non notare: il casino aumenta esponenzialmente. I quartieri del mercato sono a loro volta circondati da vie strapiene di bancarelle che vendono qualunque cosa. Se cerchi bene, anche la bici che ti han rubato 10 anni fa e i denti d'oro de nonna tua.









La prima zona in cui ci si imbatte è quella del cibo. Prima pani lucidi e dolci, poi la verdura storta e sporca di terra ma che non sa di plastica.
Poi c'è la trafficatissima e affolatissima zona dedicata ad abbigliamento e scarpe.
Infine l'ordine si perde e i corridoio e le strade si intrecciano e mescolano; finisce la logica, inizia l'Asia centrale.

















A propos, i prezzi si contrattano. Ma non i modo aggressivo come in nordafrica. Con calma, quasi ad iniziare un rapporto d'amicizia.

Dopo un acquisto inevitabile che vi mostro dopo, e che attendevo da tempo, torniamo sulla Chuy.

Qui ci attendono le statue degli eroi



e le numerosissime sedi dell'università, tutte belle e ben tenute.





Arriviamo infine alla seconda grande piazza cittadina, quella della filarmonica. Qui, tra sedi universitarie e musei di geologia, svetta un'altra statua di Manas.








Un po' per i fiori, un po' per le bandiere, un po' per il sole, finalmente i colori! Allora Bishkek non è COSI' grigia e cupa, dai.




Ormai quasi tornati a piazza Ala-Too, troviamo la sede del parlamento, chiamata "Casa bianca". E' un edificione a forma di piedistallo inverso, una roba brutta e tanta che fa la sua scena. Davanti, un gruppo di manifestanti con striscioni, e polizia. Ma non si respira un'aria tesa. Certo è che i kirghizi non sono nuovi a rivolte e grandi movimenti di piazza, chè sono attenti assai alla politica del loro paese. Mica come noi, per dir.





Non manca nemmeno il monumento che simboleggia la "secolare fratellanza" tra popolo russo e popolo kirghizo. Diciamocela tutta:i kirghizi devono capire cosa vogliono fare da grandi. Russi o non russi? Tagliare i ponti o metter radici? Non lo sanno nemmeno loro, divisi tra un grande passato di conquistati, ma saliti così sul carro dei vincitori.




Alle spalle della Casa bianca sta il parco Panfilov, con la sua bella ruota panoramica e le giostrine. Non mancano famigliole e bimbi che rimepiono l'aria di un piccolo casino felice.


Poi è subito soviet.



Per stare in tema, visitiamo il museo dedicato a Frunze. Devo dirlo: ottima idea! Sono tre piani dedicati all'eore bolscevico per eccellenza, protagonista della conquista rossa di queste lande orientali. Il museo è ovviamente di parte e politicamente scorretto. I bolscevichi sono presentati come IL bene, mentre chi si oppose, bianchi o movimenti locali, khan e sovrani d'origine turca, sono definiti "i rivoltosi". Come se l'ordine costituito, il kosmos bello, fosse quello rosso. Il resto è caos da reprimere e riportare nei ranghi. Non si possono fare foto, ma i documenti qui esposti, tra immagini, telegrammi, lettere e parafernalia, sono degni di nota.

Se non sai chi è Frunze e ti è sorto il dubbio, puoi leggere qui: Michail V. Frunze



Concludiamo la visita al parco Oak, che ospita decine di statue che rappresentano la tradizione kirghiza. Sempre a proposito del fatto che questo paese ancora è indeciso tra il riaffermare la propria identità nazionale e il diventare un'exclave della Federazione, un cucciolo d'orso.









Chiudo mostrando CON ORGOGLIO sommo i miei acquisti, il mio shopping all'Osh bazaar: tutti i generi di berretto di feltro!




Ahimè han valore rituale e sono vietati alle donne, e qui non potrò indossarli. Ma a casa, avoja! Si preparino i miei studenti. Questo sarà il mio accessorio per l'anno scolastico 2018/2019.

Proprio su Bishkek chiudiamo il capitolo kirghizo della nostra avventura, che per me è ormai quasi giunta al termine. Domani lasceremo questa nazione per entrare in Kazakistan. Sarà l'ultimo confine. La meta è Almaty, moderna "capitale del sud". Sono solo due giorni in sella: 240km di strada asfaltata.
In mezzo ci attende il lussuoso motel Evrazia, Eurasia, un postaccio con stanze in affitto e un ristorantino, dove si fermano i bus per far fare pipì ai passeggeri. Già il 31 sera, in anticipo di un giorno sui calcoli, saremo ad Alamty.