martedì 17 luglio 2018

20. Ciò che deserto non è. Dormire in una madrasa e far la foto con il leopardo iraniano (ma perchè?)



17/7/18



Tabas, Tabas oasi nel deserto, Tabas dagli alti minareti, guardami negli occhi: cosa ci aspetta in questi quattro giorni di deserto, ancora? Quale forma prenderà la strada, quanto lunghe saranno le ombre? Ci saranno stelle, ci saranno occhi? Il sole avrà pena del nostro andare o altero e impassibile ci marchierà a fuoco la pelle?



Ci aspettano 380km di deserto ancora, e siamo pronti.

Salutiamo l’Hotel Amir e tutti i suoi comfort, tra cui un bagno degno di tale nome, dove, come sempre qui, non c’è la carta igienica (se non espressamente richiesta) ma una cannella d’acqua che ha la doppia furba funzione di bidet e sciacquone, due in uno. Veh!



Bardare i nostri cammellini è sempre un’operazione che attira molta curiosità, in un andirivieni di gente che guarda e fa finta di no, oppure che guarda fisso e non finge affatto; come la cameriera dell’hotel, che sta piantata in piedi per almeno un quarto d’ora sull’uscio, al (già) caldo, per osservarci caricare armi e bagagli sulle bici.



Partiamo che son già le 9, e ci sono già quasi 40 gradi, e c’è già la sabbia, appena fuori dal centro città, e c’è già il faccione babbonatalizio di Khamenei che benedice il nostro pedalare, perché anche lui crede che andiamo a Mashad, la città santa, come abbiamo detto a tutti per sembrare fedeli devoti. Invece con la cippa che andiamo a Mashad, la strada è troppo lunga e lì davvero non è escluso che qualcuno faccia storie perché una donna, per di più di razza volpina, calca i pedali. Sicchè nulla, si parte così.



Il deserto comincia davvero subito, e sembra volersi espandere, come diceva il buon Nietzsche, come il Nulla che mangiava Fantasia nella Storia infinita. Ci sono le ultima case, poi palme, palme da dattero e un microscopico aeroporto, con intorno isolate fattorie. Penso che quelle povere bestie siano praticamente già cotte prima di morire, dei kebab che respirano, messe lì in quelle stalle di fango sotto al sole impietoso. Un po' come aspettare l'autobus sotto alla tettoia di metallo. Io l'ho fatto così a Madrasa e non è stato piacevole.










Tabas si trova in una sorta di catino con gli orli di montagna, e, se per entrare era stata tutta discesa, per oltre 40km, per uscire è tutta salita, 60km. La strada per fortuna segue, con curve da serpente di sabbia, la forma dei monti, e resta sempre il più bassa possibile. Ma costantemente, in un falsopiano estenuante, sale e sale. E tutta l’acqua e i viveri che ci portamo appresso, con bici oltre i 40kg totali (io ne pesavo 50 prima di partire), si fanno sentire. E il caldo poi. Bruciante. Sento gli occhi friggermi e il respiro sale a fatica. Le ginocchia, unica articolazione in movimento continuo, paiono bollire dall’interno. Lo stesso le orecchie, da cui immagino esca del fumo che è il mio cervello che evapora. La gola è secca da far male e sento le gengive e il palato ritirarsi e prender la forma della radice dei denti. L’acqua è caldissima. E dire che avevo messo la borraccia nel freezer, con tanto di Sali minerali sciolti dentro, così da fare un ghiacciolone all’arancia. E’ durato forse tre minuti.
Guardo la temperatura sul termometro del ciclocomputer, mentre pedalo, e capisco molte cose: 52°C! Certo bisognerà far la tara e togliere qualcosa, ma ai 50 siamo comunque prossimi.





Decidiamo così di fermrci un attimo, approfittando della solitaria presenza di una ghiacciaia aperta. E’ ben conservata e porta i segni del passaggio recente di altri nomadi in cerca di refrigerio. Ma a parte le bottiglie di plastica e i resti di un fuoco, è pulita. Ci fermiamo così a mangiare qualcosa, cetrioli a mo di carota cruda (oh yes, dopo la Russia è un must) e meline piccole piccole piccole piccole che praticamente sembrano ciliegie. Ma povere, è già tanto che crescano, qui. Ne apprezzo lo sforzo. Mi chiedo anche chi mai abbia avuto l’idea di costruire una ghiacciaia lì: intorno per almeno 50km per parte c’è il nulla assoluto. Forse un tempo c’era un villaggio o si riuniva mercato, chissà. Ora resta solo questa laconica struttura di mattoni e fango, e noi dentro a sbollire.
















La Signora è rimasta fuori ad aspettarmi al sole, e, per curiosità, controllo la temperatura: 57°C. Annamo bbene! Popo bbene! Ma bisogna ripartire, dobbiamo fare almeno 100km, caldo o non caldo.











La strada continua a salire e si inerpica piano piano attraverso la roccia rossa. Qui il colore che domina è l’ocra, e a tratti mi sembra di pedalare nelle gole delle Montagne rocciose, e di vedere Willy coyote precipitare da un masso. Si alza pure il vento, laterale o contrario a seconda della direzione della strada. Si va piano, pianissimo. La temperatura rallenta ogni movimento ed è come vivere in una moviola.

Ai lati della strada, sui fianchi dei monti, compaiono scritte enormi fatte, credo, con sassi bianchi. Immagino sia la versione farsi del classico striscione da gara ciclistica con tappa in salita: “Forza che in cima è pieno di figa!”. O magari c’è scritto che Allah è grande. O che al paese successivo vendono i poponi a mezz’euro. Chissà.














Iniziamo ad essere troppo stanchi per proseguire ed urge una sosta; siamo ad oltre metà tappa e sono già le 15. Però non c’è un filo d’ombra che possa ospitarci. Allora inizia un’affannosa, seppur al rallentatore, ricerca di un luogo per fermarci. Proviamo sotto a cose che da lontano paiono alberi ma son solo grossi cespugli spinosi. Proviamo con una cisterna interrata ma dentro c’è l’acqua. Intanto il vento alza i turbini di sabbia, haboob credo si chiamino, e ci inducono a proseguire ancora un poco. Non distante dovrebbe esserci il bivio per Mashad, magari lì qualcosa che non sia polvere o sassi si trova.




Quest’ultimo sforzo prima del riposo viene in effetti ripagato. Poco oltre la strada spiana e intorno compaiono più cespugli; in lontananza addirittura alberi! Raymond dice che si tratta di un miraggio ma no, è davvero verde, sono davvero foglie che vibrano al sole come le sacre querce di Dodona che cantavano in esametri il volere di dio! Acceleriamo, attratti dall’ombra, e ci accomodiamo in quella che pare veramente un’oasi, con tanto di frutteto e, prima volta in assoluto in Iran, un campo di frumento (credo). Maturo anche, con le spighe dorate che pare d’esser tornati a casa.







Il paesaggio è tanto dolce e umano, un locus amoenus, l’angulus di Orazio, che mi torna in mente all’improvviso la poesia di Antonia Pozzi:

“Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.

Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.”

E queste parole mi frullano in testa come le ali di un colibrì che beve ambrosia per tutta la sosta, tanto più che furono dedicate, un giorno, e da quel giorno appartengono a un uomo, a un cavaliere errante di pietra e miele.

Il Puill decide, per risparmiare gas e tornare alle passate glorie di quando attraversò il Sahara in solitaria, di fare il fuoco con la legna. E il tè lo beviamo così, al gusto di carboncino, che non è poi male.



Riposati e rifocillati ripartiamo e giungiamo al famoso bivio, per scoprire che in realtà tutte le strade non portano a Roma, ma a Mashad. Noi comunque sappiamo dove andare: la strada controvento. Verso nord. Dobbiamo portarci verso un paese che si chiama Eshq Abad, a 110km dalla partenza, per trovare acqua per la notte e il giorno successivo. 








Prima, però facciamo sosta nell’inatteso agglomerato di case e negozi che è sorto intorno al bivio, dove ci son pure i resti di un caravnserraglio d’epoca Qajar. Prendiamo d’assalto il frigorifero bisunto di un negozietto gestito da questi baldi persiani, ma ripartiamo subito.






Pur controvento, gioiamo: ci si para davanti agli occhi una distesa piana a perdita d’occhio, senza monti né salite in vista. E tutto è abbastanza verde e abbastanza popolato, tanto che si susseguono paesini e paesotti con una certa frequenza. Molti sono anche i siti archeologici che sfilano in questo vallone che per secoli e secoli è stato l’unico luogo di transito attraverso il deserto, che qui troppo deserto non è. Ci dev’esser dell’acqua, nascosta tra i grani di sabbia. Perché crescon radici e muri. E ai bordi del campo visivo scorrono castelli e ruderi e paesi e caravanserragli di ogni epoca, safavide, qajar, pahlavi, e odierna. Non è facile distinguere una cosa dall’altra, ma ormai non mi cruccio più: godo della strada in piano e del verde. Magari tra virgolette: "verde".
















E pure del melone, enorme, che un anonimo camionista ci regala. Il buon uomo ci supera con il suo furgone, ci saluta, mettendosi la mano sul cuore, ci molla in mano sto popò di bambino e se ne va. Non nego la difficoltà di trovargli un posto, ma un melone maturo un luogo nel mio cuore e nel mio stomaco e sulla Signora si trova sempre. Sistemiamo i bagagli in un minuscolo spiazzo, dove ci sono pure dei giochi per bambini. Avete idea poggiare le chiappe su quello scivolo di metallo esposto per ore ai 50 e passa gradi del sole? Sfrigolano come un hamburger buttato in padella!







Passiamo pure accanto a dune di sabbia antichissime, segnalate da un cartello (chè altrimenti non è facile distinguerle dalle altre dune, neh). Il Puill commenta che le avrà viste anche Marco Polo. Penso che le abbiano viste pure i dinosauri e le prime cellule, e prima ancora le stelle e cieli che han fatto giostra in questo cielo dove stiamo appessi sulla nostra biglia azzurra. Immagino cosa possano significare tutti quegli anni, e per fortuna so che a noi ne toccano ben meno. Lo diceva Pessoa, che aveva pena delle stelle. Poi il tempo è convenzione, è mera misura del movimento. Io ad esempio so che esiste un altrove di tempo parallelo dove non si contano gli anni ma i baci, come insgna Catullo. Qui in Iran, per fare un altro esempio, siamo nel 1439 chè non si mette lo 0 in capo a Cristo neonato ma al 622 nostro, anno dell’Egira.







Mentre pedalo nella luce ormai bassa, contenta perché mancano pochi km alla città, sento il culo della Signora deragliare. Mi scodinzola la bici. Mi fermo, controllo, pare tutto a posto. Riparto, felice che non si tratti né di foratura né di raggio rotto, ma dopo poco la situazione peggiora. Ho bucato veramente, mannaggia alla schifosa lurida putrella inferocita!

La ruota va a terra subito e non ce n’è, bisogna cambiare la camera d’aria. Tira fuori tutto dalle borse, cibo e vestiario sparsi ovunque, prendi il necessario… Che palle, che pallissime! Per fortuna il Puill fa tutto il lavoro, perché con le mie braccine bioniche tirar giù i Marathon Plus è operazione da piangere e bestemmiare forte. Intanto si aggrega un giovane motorizzato che decide di aiutarci per l’intera operazione, dando più noia che altro, ma poveretto, lui ci si mette d’impegno.
Purtroppo, come spesso capita, la prima camera d’aria si rompe nel rimettere su il copertone, che è durissimo e richiede violenza bruta. Ah, a forare è stata una graffa tanta probabilmente persa dal carico di un camion.




Si cambia la seconda camera d’aria e finalmente si riparte. Perdo un anello, ma forse è nelle borse. Domani lo cercherò meglio. L’anno scorso li ho persi e ritrovati almeno una decina di volte. Perché, mani gonfie di caldo a parte, nei viaggi qualche kilo rimane sempre sull’asfalto e mi si sfilano gli anelli. Ma la strada dà e la strada toglie. Quindi se pure fosse rimasto nella sabbia è una sorta di obolo pagato al deserto per averci fatto passare. Lo troverà qualcuno, magari, e si sentirà fortunato.

Intanto cala il sole e il tempo è volato via, siamo decisamente in ritardo rispetto al solito.
Ma la Signora funziona benissimo e non è più zoppa, quindi arriviamo di buon passo alla città dove dobbiamo prendere tutto ciò che serve per stasera, domani e dopodomani mattina; pare che dopo questo paese non ci sia più nulla per 160km circa. Invero anche oggi per 110km non ci sarebbe dovuto esser nulla, ma abbiamo trovato paesi e persone e persino alberi. Chissà se domani è deserto o no.





Tra l’altro, avvicinandoci al paese, Eshq Abad, ci rendiamo conto che non si tratta di un villaggetto con quattro case, ma di una città degna di tale nome. Grande, fin troppo, per poterla attraversare, ora che il sole è già tramontato, per campeggiare in luogo tranquillo. Ma grande abbastanza per avere un hotel! Così ci fermiamo in una stazione di servizio e, dopo le solite mille domande da gente che accorre a vedere chi siamo e fa foto e selfie, otteniamo l’informazione: sì, hotel, dormire, qui. Nessuno parla inglese sicchè tutti si fa a gesti e senza esser troppo sicuri mai di aver capito.



Aspettiamo. Altro succo d’aloe per me, altro yogurt per Raymond. Finalmente arriva un omini gentile, in auto, con la sua figlioletta, e ci dice: seguitemi! Non ce lo facciamo ripetere due volte ed entriamo in paese, mentre lui guida piano. 


Dopo poco si ferma davanti ad una struttura che pare una moschea, e ci apre la porta. Si tratta di una scuola religiosa, probabilmente, chiusa per l’estate e pure parecchio roncia, ma perfetta per una notte. Ci sono bagni, cucina, due saloni di tappeti per la preghiera e dei dormitori. Perfetto! E probabilmente sarà pure a gratis.













Dopo un poco di conversazione fatta a suon di google translate, viene finalmente il momento di fare la doccia e cenare. Ci prepariamo la pasta, pensando di condirla con il tonno solito, ma nel frattempo tornano l’uomo a la bimba con un vassoio di… Frittelle di uovo e verdure? Forse, certo buonissime. E così ho un’idea per la quale potrebbe essermi tolta la cittadinanza italiana: usiamo la pasta come contorno! Dunque si cena così. Poi attacchiamo il melone, che si è rinfrescato le idee nel frigor e non sopravvive alla notte.



Insomma, anche stasera l’ospitatlità iraniana ha vinto sul deserto. Domattina avremo modo di far tutte le spese (acqua di fatto) necessarie per la giornata, perché partiamo dalla città. E stanotte, mentre urla il vento che spero si plachi perché fa paura e sposta persino i mattoni, abbiamo un tetto sulla testa. Perché questo deserto è tutt’altro che desertum, e non si è abbandonati affatto, né si percepisce il vuoto, ma una costante cura, un’attenzione gentile che fa stare bene. Non è la mia casa, questa, né la mia vita, che sono altrove, nell’incavo di una spalla dove appoggiare il capo prima di dormire. Ma sono luoghi così umani che non ci si sente stranieri mai.


2 commenti:

  1. In un mondo pieno di placido conformismo c’è chi decide di uscire dal coro e guardare al di là della parete dei sogni. Dovremmo provare a farlo tutti almeno una volta, capiremmo che misurare la vita con il metro dello spazio e del tempo ci impedirà di guardare negli occhi la Bellezza. Che il vento del deserto vi accarezzi sempre le spalle.

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  2. bellissima anche questa pagina di diario, tks 🤠

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