mercoledì 1 agosto 2018

34. NAVOIY, la città del Dante uzbeko. Il volto rurale dell'Asia centrale


31/7/18

A lasciar Bukhara un po’ piange il cuore, chè è stata il nostro porto sicuro, il nostro primo approdo dopo l’oceano di sabbia, dopo il deserto e la teocrazia e il deserto e la dittatura.
In effetti pare che il più alto minareto fosse invero usato come torre di faro, con un fuoco sempre acceso in cima ad indicare ai carovanieri la via. Proprio come un faro. Che il deserto non è poi tanto diverso dal mare aperto, con i silenzi enormi e le stelle e il sole a segnare la rotta, nulla intorno, molto sale e non occhi né radici. La luce che abbacina e il nero più cupo.
Terra in vista, città in vista! Mi immagino la gioia dei mercanti e dei loro servi, delle bestie cariche e di tutti, all’idea dell’acqua e dell’ombra, del riposo finalmente. Della salvezza.

Lasciare Bukhara è stato però facile: innanzitutto non più fitte nè spasmi nè dolori; inoltre la città non è grande ed il traffico è assai ordinato; certo non è Berlino ma rispetto all’Iran non c’è paragone. Siccome percorrere fin da subito l’autostrada, la M37, avrebbe significato allungare di circa 10km il tragitto, già previsto sui 110km, abbiamo deciso di riprenderla solo a metà giornata e di optare, prima, per una serie di strade secondarie che attraversano i paesi e le campagne.






Grave errore: pur essendo strade non piccole e ad alta percorrenza, la qualità del fondo è a dir poco pessima. Ci sono lunghi tratti sterrati, ma sterrati brutti, con la sabbia e i sassi, i tocchi ti asfalto spaccato da decenni buttati in giro e buche grandi come la porta dell’inferno. Le macchine e i marshrutki passano a manetta strombazzando e sollevano nuvoloni di sabbia che rendono tutto ancora più difficile. Non siamo mai stati costretti a spingere le bici a mano, ma questi tratti sfasciati ci hanno rallentati tantissimo, perché il rischio di cadere, se non si fa attenzione, è troppo alto.






Tuttavia, la decisione di far strade secondarie ci ha permesso una full immersion nell’Uzbekistan rurale del sud-ovest, che è una costellazione di paesi e paesini, alcuni più moderni e lindi, altri più vecchi e polverosi; le cascine e le case si alternano ai campi e i filari d’alberi segnano una linea d’ombra sotto cui riposare. I contdini già sono al lavoro, chini a raccogliere o a zappare, o a tagliare il fieno e accatastarlo sui carri.
Quando passiamo, si fermano e ci guardano, appoggiati ai rastrelli e alle vanghe, e salutano con gesti ampi.







cimitero in collina




E’ tutto così verde e giusto, così fresco e a misura d’uomo che mi pare quasi di essere in uno dei paesi di casa, tra Cusago e Gaggiano. Mi dicono per altro che anche lì ora ci sono 38-39 gradi… Come qui praticamente (e ho parlato di fresco perché fino a due settimane fa nemmeno pedalavo con una media di dieci gradi più alta).
Si respira un’aria tranquilla, di vita semplice e lenta, che scorre con il ritmo della linfa e delle stagioni. Ogni tanto sale una brezza fresca dai fossi, e le foglie cantano. Il deserto è su un altro pianeta., non qui.

Passiamo accanto all’imponente complesso architettoico Bahaoddin Naqshband Bokhari, con un gran viavai di turisti e il relativo mercatino delle cianfrusaglie da rifilare a chi cerca un souvenir. Gli edifici in realtà si sono accumulati a partire dal 1300, ma il cuore del sito è il mausoleo del sant’uomo, sufi, mistico ed esperto di legge che viene considerato il patrono degli artigiani (come suo padre era, con la seta). Diceva Nashqbanf che Allah è nel pensiero e nelle mani, nel lavoro, e chi produce  e crea con la propria arte è libero davvero. Nel mausoleo c’è anche una pietra che, se toccata, permette di esaudire i desideri: non pochi pellegrini vengono qui per questo ogni anno. Inoltre si dice che lo spirito del santo avverta di disastri e calamità naturali. Niente di nuovo sotto il sole, insomma.




Noi ci siam spinti oltre, non avendo percepito alcuna vibrazione che ci avvertisse di mali imminenti. Abbiamo passato i diversi canali che escono dal bacino artificiale Kuiymzarskoe, accanto al grande lago Tudakul che fa verde di linfa e bionda di spighe l’intera regione.








A parte le strade distrutte, è stato un piacere pedalare tra i campi di cotone e i frutteti, tra le cascine profumate di fieno d’oro e i muggiti delle vacche che brucano pacifiche all’ombra, sulle rive dei fossi, a bordo strada.


















Se fino a prima dell’ora di pranzo la gente si limitava a salutare, dopo siamo stati anche più volte fermati da simpatici uzbeki mezzi pieni di vodka, che qui scorre in letti di fiume ampi come l’Ob’. La gente, che poi son pastori e contadini, operai e camionisti o semplici sfaccendati, ci raggiunge in auto e ci chiede di accostare, o esce dall’ombra delle frasche dove riposava per parlare con noi. Di solito lo fanno con tale enfasi che pare abbiano qualcosa di urgente e importante da dirci, come volessero avvisarci di un pericolo o darci un consiglio importante. Invece poi son strette di mano, sorrisi e domande. Il tutto fatto a voce troppo alta e senza rispettare le giuste distanze tra persona e persona, come tipico degli ubriachi. Di questi primi due, estasiati dal fatto di parlare con un’italiana e un francese, posso contare tutti i denti d’oro e i gradi alcolici che hanno nel sangue.
Ci fanno molte domande e si parla un russo sbilenco da alconauti: loro perché pieni, io perché non so la lingua.





Curiosamente per i successivi 30km TUTTI gli automobilisti e i passanti sanno da dove veniamo, ed è un profondersi di “Bella Italia ciao arrivederci Sicilia da karashò ciao!” dai finestrini delle macchine e dal bordo della strada.
Proseguiamo lenti perché la strada è urenda e ci fermano in mille. Le profferte di tè e vodka si moltiplicano, ma noi vogliamo almeno riportarci sull’autostrada.

Così facciamo. Scopriamo che anche là dove i paesi sono un poco più radi (e comunque mai più distanti di 5-10km uno dall’altro) ci sono persone che vendono di tutto a bordo strada, ogni pochi metri, sotto a grandi ombrelloni o gazebo sbiaditi al sole. Sono tutti muniti di frigo e freezer, in cui tengono acqua, alcolici, un energy drink che qui viaggia a manetta e altre bottiglie dal contenuto indefinito. Qualcuno ha frutta, angurie e meloni, qualcuno pane e prodotti da forno che vende sfusi. Ci fermiamo ad un baracchino e due donne simpatiche e ciarliere, anche loro assai curiose, continuano a capir vodka per voda, che è l’acqua. Mannaggia, voda, voda, non vodka! Che ce stan 40 gradi e dobbiamo pedalare!

Passiamo alcuni tratti più desertici e all’orizzonte si profilano, dopo giorni di totale pianura, i primi rilievi, azzurri per la distanza e sfocati dal calore dell’aria. Per ora noi resteremo in piano. Poi no, ma ci penseremo a tempo debito, verso il montuoso Kirghizistan.









Passiamo la cisterna e il caravanserraglio Rabat Malik, che risale a metà dell’XI secolo ed è uno dei più antichi e decorati tra quelli rimasti sulla via della seta. Ovviamente la posizione era strategica: tra Bukhara e Samarcanda, a mezza via.
Notevoli anche i negozietti che vendono acqua e bibite, collocati, perché sia chiaro cosa vendono, in una grande ampolla. Ovvio, no?








Dopo uno stretto susseguirsi di paesini dall’anima rurale giungiamo finalmente alla periferia della città meta di oggi, Navoiy. Ci accolgono la centrale nucleare in pieno stile sovietico, cioè mezza cadente e spaventosa così grigia nei suoi bianchi fumi, e la zona industriale.
La città infatti si trova inuna regione ricca di gas naturale e di metalli, tra cui una tra le più pure qualità d’oro del mondo. Inoltre è stata creata una zona a tassazione ridotta per le industrie straniere, la Navoiy Free Industrial Economic Zone. Inutile dire che ciò ha attirato numerosi investimenti esteri e tante fabbriche sono state aperte. Nel bene e nel male, è un modo con cui l’Uzbekistan, che fu una delle più povere e arretrate repubbliche sovietiche, sta tentando di sollevar la testa e far decollare la propria economia. Navoiy si è così sviluppata come centro industriale e, seppur non grande (100.000 abitanti) e priva di qualsivoglia attrattiva turistica, presenta tutti i servizi necessari, dai negozi agli hotel ai ristoranti agli uffici.








Originalmente la città era conosciuta come Kermine sotto l'Emirato di Bukhara, ma venne rifondata nel 1958, e fu allora intitolata al poeta e statista uzbeko Alisher Navoi, che scrisse in persiano e Chaghatai alla corte dell'emiro Husein Boykara a Herat.
Il poeta, vissuto a metà del XV secolo, difese la superiorità del Chagatai e delle lingue turciche sul persiano, scrisse un trattato dove comparava questi idiomi ed è considerato il primo grande letterato ad aver usato il chagatai e non il persiano. E’ il Dante uzbeko, praticamente. Non parliamo qui di latino e volgare ma di lingua persiana e lingue turciche, però la sostanza è la stessa.

La città oggi è un perfetto esempio di architettura sovietica pesa: palazzoni in cemento, separati da miseri giardinetti con scivoli e altalene che paion patiboli. La gente vive in questi grandi formicai, tutti affacciati sulle strade principali e protetti alla vista da una fila di alberi. Sembra di essere tornati in Russia, ma d’altronde la città che vediamo oggi è del ’58, quindi proprio russa.
L’unica cosa a cui stare attenti sono i numerosi taxi, che si fermano continuamente a caricare e scaricare gente e accostano e ripartono senza guardare.









Dopo 4km verso il centro raggiungiamo l’hotel a cui stavamo puntando, il Techno park (TEXNO-PARK), un edificio orribile, un tubo nero di quattro piani MA dotato di ogni comfort. a parte l’ascensore. Ai piani inferiori ci sono negozi e locali, mentre all’ultimo, dopo la terrazza l’hotel. Lasciamo le bici nella saletta delle guardie giurate, e me le immagino e pedalare in tondo nel salone principale per tutta notte, perché qui è frequente la richiesta di provare le nostre bici. Poi prendiamo le stanze, e anche qui ci dicono che ben siano separate perché per legge se non si è sposati non si può dormire insieme.
C’è il tè ad libitum self service come in molte strutture, dalla Persia al centr’Asia. E noi ne approfittiamo.



Cala il sole sulle statue di dubbio gusto e sulla soviet-città, mentre noi, con 111km sulle zampe, ci dirigiamo a cena e diventiamo l’attrazione pricipale di tutti i presenti. Ma son persone gentili e tentano ogni cosa per farti sentire a tuo agio. Non ci riescono, perché è imbarazzante aver gente che ti fissa mentre mangi e mentre parli, mentre cammini e mentre riposi. Ma non importa. Samarcanda è sempre più vicina. “Fiumi poi campi poi l’alba era viola, bianche le torri che infine toccò…”


1 commento:

  1. SAMARCANDA
    Religioni ce n’è a josa
    in sta terra misteriosa,
    fanno a gara per trovare
    qual è il Dio per cui tifare.
    Bah...pensiamo a pranzo e cena
    dove il Puill mi si scatena:
    “Qui si mangia alla francese
    non possiam fermarci un mese?”
    Pensi sempre alla vivanda
    c’è da andare a Samarcanda!
    “Samarcanda del Vecchioni?
    Mamma mia che due co****ni!”
    Samarcanda città antica
    arrivarci è una fatica,
    però quando sei arrivato
    poi rimani senza fiato!
    Volpe, il viaggio ormai è a metà,
    chissà quando finirà...



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