La spengo, ero già pronta e reattiva da qualche minuto. È il gran giorno. No, non la laurea (s'è già dato), non il matrimonio (non di dà).
Oggi si parte.
Verranno alcuni amici a salutarmi, il sindaco, le persone che ho conosciuto lavorando (come prof e come giornalista), i simpatici curiosi che mi seguono sui social, i miei zii, le mie cugine... Insomma. Tanta gente che mi vuole bene. Qualcuno si è commosso. La signora Soldera, mai vista prima, mi ha regalato una bandierina dell'Italia da appendere alle borse. Il grande Ezio una coccinella portafortuna. Tanti abbracci e strette di mano. Una video-intervista del Garretta, le foto di Damiano. Domande da genitori in ansia.
E poi via.
Con il vento a favore di tutto questo affetto che io continuo a credere immeritato.
La prima parte della tappa si riassume in: stradacce, campi di mais già altissimo, nostalgia precoce per quel paesaggio che è brutto, ma mio, da sempre, dove ho le radici del mio cuore nomade. Poi, dopo un discreto saliscendi che ha messo a dura prova me e la Signora, ho raggiunto l'allucione del lago di Como. Nel giro breve di una discesa il paesaggio è mutato. Azzurro, cupo e verdastro, a perdita d'occhio, tra quelle montagne che lo custodiscono, silenziose e dritte come sentinelle.
Pian piano ho percorso il lago in tutta la sua lunghezza, bevendo il vento fresco e godendo della bellezza di quel maestoso raccogliersi, in poco spazio, di tanta meraviglia. Anche i numerosi paesini, stretti tra la roccia e l'acqua, non han deluso le aspettative: la pietra antica delle chiese romaniche, i porticcioli dove attraccano i cigni, i bar con gli anziani come da noi non ce n'è più.
Una nota di merito agli assessori o chi per loro: tutto il lungolago è una meraviglia da pedalare. Non solo per i paesaggi, ma anche per le numerose piste ciclabili, ben tenute e furbe. Un esempio su tutti: per quasi ogni galleria c'è una stradina esterna, che passa a strapiombo sul lago, dedicata ai ciclisti.
I primi 90km li ho fatti d'un fiato. Mi ero prefissata di non fermarmi prima di Dongo. Meta simbolica, il luogo di cattura e detenzione di Mussolini e Petacci, presi per le orecchie dai partigiani mentre tentavano di fuggire in Svizzera. Luogo di liberazione (e di mistero: l'oro di Dongo, i valori che Mussolini e i gerarchi al suo seguito portavano con sé, è sparito nelle pieghe più vergognose della nostra storia recente). Insomma volevo arrivare a Dongo. E lì, per celebrare, mi son concessa cocacola e gelato.
Il caldo era tremendo, abbacinante, caino.
Dopo poco sono ripartita: non vedevo l'ora di piantare la tenda sotto le cascate, all'Acquafraggia. Ma quel campeggio non l'ho poi visto.
Appena raggiunto il limite settentrionale del lago mi sono trovata davanti le Alpi.
Enormi, isteriche come cattedrali gotiche, spaventose per una volpe di pianura. Tanto più che in un attimo, appena raccolte le scaglie di luce sul lago di Mezzola, il cielo si è imbronciato di enormi nuvoloni neri. Un tuono, un altro, qualche goccia.
Il diluvio universale.
L'ultima ora è stata un giro gratuito al parco acquatico.
Mi ha tolto di dosso il caldo appiccicoso che mi si era attaccato alla pelle. Ma mi ha anche costretta ad abbandonare l'idea del campeggio.
Sotto ad un balcone, giunta a Chiavenna, ho cercato un ostello. Ce n'era uno, "Il deserto", a poco più di un km. Bene. Chiamo, c'è posto. Via. Peccato scoprire all'ultimo che si trova in cima ad uno stradino ripidissimo e tutto di ciottoli, trasformato dalla pioggia in un torrente infido.
La Signora non voleva salire; l'ho dovuta trascinare su a mano, scivolando a causa degli attacchi sulle scarpe. Bestemmiando tantissimo e forte, per superare i tuoni. Che mi sentisse. Poi ho scoperto che l'ostello è mezzo gestito da una comunità religiosa. E va be'.
Ora sono in stanza, dopo una cena tipica in un fu crotto.
Domani mi aspettano le Alpi. La salita più impegnativa. Sarà bellissimo e faticoso. Maloja, a noi due!
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