Oggi è stata una giornata così bella che trovo a fatica le
parole per descriverla.
E’ stata per-fetta, ovvero compiuta, conclusa in sé, giusta
dall’inizio alla fine, nonostante il vento serpe e gli sterrati infidi. Ma di questi
parliamo dopo.
Ho viaggiato lungo la linea di minor resistenza.
“Lungo la linea di minor resistenza
siamo in marcia da gran tempo, stanchi
ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell'insieme.
Di noi nessuno, credo,
più ricorda quando cominciò,
né di dove, esattamente; un piccolo scarto forse,
una prima deviazione a evitare vampe lontane,
un tronco di abete o faggio a riparo,
un muricciolo di pietre,
la breve spada per tre quarti nel fodero,
l'occhio attento,
l'orecchio ben spalancato al fragore della battaglia
laggiù. Non sempre era facile seguirla, la linea.
Spariva oltre un torrente ringhioso,
si perdeva nell'incavo di fossi cari
al crescione e a limacciose lumache senza guscio.
O perché
cadeva brusca la notte. Che fare adesso? Stavamo lì
attorno a magri fuochi di sterpi,
malamente accampati,
inquieti, la paura come rugiada sui nostri mantelli.
L'alba svelava molteplici insidie
ovvie a chiunque. Quel bosco troppo fitto
troppo buio,
quella gola tortuosa fra pareti di roccia,
quel ponticello nudo e sottile
sui risucchi del fiume,
la palizzata sbilenca dall'aria indifesa,
un convergere di uccelli neri sulla radura a oriente,
l'ululìo di grossi cani tra ruderi anneriti...
Avevamo imparato, ci tenevamo a distanza
avanzando a ginocchi piegati,
schiena curva, in silenzio.
Ma la linea di minor resistenza
[...]ci sarebbe servita soprattutto nello smeraldo
di un prato
prima di metter piede su dolcissime chiazze
di mughetti, di primule. Finalmente! Lo slancio
era invincibile, ci lasciavamo cadere su quel manto
a braccia aperte,
lo sguardo ozioso, socchiuso, scivoloso
su vaghe ramaglie musicali in un accenno di vento.
Api, anche.
E una libellula incerta nel battito d'ali trasparenti.
Non sembra vero, diceva qualcuno. E infatti
non lo era.”
siamo in marcia da gran tempo, stanchi
ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell'insieme.
Di noi nessuno, credo,
più ricorda quando cominciò,
né di dove, esattamente; un piccolo scarto forse,
una prima deviazione a evitare vampe lontane,
un tronco di abete o faggio a riparo,
un muricciolo di pietre,
la breve spada per tre quarti nel fodero,
l'occhio attento,
l'orecchio ben spalancato al fragore della battaglia
laggiù. Non sempre era facile seguirla, la linea.
Spariva oltre un torrente ringhioso,
si perdeva nell'incavo di fossi cari
al crescione e a limacciose lumache senza guscio.
O perché
cadeva brusca la notte. Che fare adesso? Stavamo lì
attorno a magri fuochi di sterpi,
malamente accampati,
inquieti, la paura come rugiada sui nostri mantelli.
L'alba svelava molteplici insidie
ovvie a chiunque. Quel bosco troppo fitto
troppo buio,
quella gola tortuosa fra pareti di roccia,
quel ponticello nudo e sottile
sui risucchi del fiume,
la palizzata sbilenca dall'aria indifesa,
un convergere di uccelli neri sulla radura a oriente,
l'ululìo di grossi cani tra ruderi anneriti...
Avevamo imparato, ci tenevamo a distanza
avanzando a ginocchi piegati,
schiena curva, in silenzio.
Ma la linea di minor resistenza
[...]ci sarebbe servita soprattutto nello smeraldo
di un prato
prima di metter piede su dolcissime chiazze
di mughetti, di primule. Finalmente! Lo slancio
era invincibile, ci lasciavamo cadere su quel manto
a braccia aperte,
lo sguardo ozioso, socchiuso, scivoloso
su vaghe ramaglie musicali in un accenno di vento.
Api, anche.
E una libellula incerta nel battito d'ali trasparenti.
Non sembra vero, diceva qualcuno. E infatti
non lo era.”
(C. Futtero)
Questa mattina ho lasciato con calma la casa di legno
vecchio dove ho dormito, che portava ancora i segni -barbari, da orda tatara-
della colazione degli operai ucraini. Uova bollite, pannocchie, una zuppa di
funghi e morte, un piatto di spaghetti sconditi a parrucca, con tanto di
wurstel, mangiato a metà.
Sono rimasta qualche minuto a godere il tepore di
quell’azzurro enorme steso su tutto. Al
mio ritorno diverrò pagana e adoratrice del sole, caldo dolcissimo luminoso
sole vivificatore.
Poi in sella, direzione Breslavia, Wrocław in
polacco.
Nel giro di qualche metro mi sono resa conto
di due cose. Il vento, la prima. La seconda, la strada.
Le raffiche erano gelide e così forti da
piegare anche i rami più grossi, e far gemere le lamiere dei tetti, mentre le
nuvole con quella loro corsa lenta, ridisegnavano la luce ad ogni istante. La
strada invece era una non-strada. Un sentiero. Tra i campi. Sterrato. Ora ben
tenuto, ora disseminato di sassi, buche a voragine e sabbia.
Ma ero troppo distratta dalla bellezza del
paesaggio circostante per badare a queste inezie (che mi han costretta ad
arrancare pianissimo e con fatica).
Dopo giorni di cinquanta sfumature di grigio,
ma quello vero, plumbeo e lucido dei temporali, ecco finalmente di nuovo i
colori. Una tavolozza intera di ocra, oro, verde e azzurro. Uno spettacolo
dolcissimo di pianura, di pace, di apertura di sguardi e orizzonti vasti,
rigati dal volo obliquo delle rondini. Si dice che dovunque un marinaio posi lo
sguardo, lì c’è l’infinito. Ma i miei oceani sono fatti di spighe e prati. Ed
eccolo, il mio mare. Con le radici e i semi, non infecondo, per citare Omero,
come la distesa di sale.
Mi sono mossa tra paesini fantasma, abitati
da anziani fatti di corteccia e torba.
Ho anche avuto l’onore di vedere,
vicinissimi, tre caprioli. Appena hanno sentito i cigolii della Signora (un po’
provata dal clima avverso), hanno danzato la fuga a balzi tra gli alberi.
Percorrendo un metro alla volta quella terra
che rideva nel sole, sono poi giunta a Breslavia.
E’ un cuore vivo di cultura e arte, nonché la
quarta città della Polonia per numero di abitanti. E’ il capoluogo del voivodato
della Bassa Slesia e capitale storica della regione, tedesca per
300 anni, fino al ’45. E quanto è fertile la terra grassa, tanto lo sono di
cultura le strade e i muri di questa città. Polo universitario di prim’ordine,
è tutt’oggi una città di studenti, di menti fervide e di sognatori,
storicamente solco che ha visto nascere filosofi, scrittori, scienziati,
musicisti. Vi faccio solo qualche nome sparso legato a Breslavia: Silesio, il
mistico, Italo Chiusano, Edith Stein, il dottor Alzheimer, il colto militare
Carl von Clausewitz… E tanti tanti altri, la cui voce risuona nei musei, nelle
aule, nei teatri e nelle chiese.
Questo è l’imperdibile Rynek, l’antica piazza
del mercato. Al centro si vede il Fondaco dei tessuti ed il municipio
gotico-rinascimentale mentre intorno stanno sull’attenti i coloratissimi
palazzi borghesi medievali, con le loro insegne che tanto raccontano delle vita
politica locale.
Accanto si trova Plac
Solny, la Piazza del sale, dove si trovano i primi gnomi. Una curiosità:
lo gnomo è il simbolo –recente, in effetti- di Breslavia. “Agli inizi degli
anni Ottanta gli slogan anticomunisti scritti sui muri da Alternativa
Arancione, movimento di opposizione, venivano cancellati per ordine delle
autorità governative, così al loro posto iniziarono ad apparire graffiti di
gnomi con l'intento di ridicolizzare il potere” dice Wikipedia.
Questa invece è Ostrów Tumski, l'Isola della Cattedrale, la
parte più antica della città, protetta su ogni lato dalle acque dell’Oder.
Devo essere sincera: non conoscevo Breslavia e mai avrei
pensato di visitarla.
Invece si è rivelata una città meravigliosa, che
meriterebbe, anche da sola, un viaggio.
E’ questo il vantaggio del cicloturismo: la bellezza accade
improvvisa, fortuita, non cercata. Semplicemente, poiché sta, rimane. E non
saltando io nemmeno un centimetro di strada, mi ci trovo nel mezzo. Ci incappo,
per così dire, a caso. Ma è un caso pieno di senso e ordinato in se stesso.
Con l’anima sazia sono ripartita verso Olesnica, meta del
giorno.
Gli ultimi 30km sono stati un po’ difficoltosi: le strade
sembrano ancora quelle dei bombardamenti della Seconda Guerra, quando ci sono.
Altrimenti tocca il sentiero, che si snoda, sì, tra campi e boschi bellissimi,
ma costringe a numeri alla Brumotti. Con la differenza che ogni salto, sgommata
sulla sabbia ed evoluzione varia non è voluta, così come l’atterraggio: tutto è
inconsapevole, fuori controllo e condito da moccoli che hanno di certo
incrinato la vetrata di qualche chiesa. Dev ringraziare il culo pesante della
Signora che, zavorrata com’è, passa come un carrarmato su ogni tipo di fondo. E
si sbilancia ma mai troppo. Sono un cingolato a pedali, praticamente.
A Olesnica avevo prenotato un albergo.
E’ il primo degno di tale nome. Ma è davvero meglio così?
Siamo davvero fatti per brandelli di cielo, schegge azzurre
strappate al vetro di una finestra, nell’angusto giro di angoli di una stanza?
Le quattro pareti bianche iniziano a starmi strette.
In compenso ho assaggiato una specialità locale
buo-nis-si-ma: baccalà in crema di porri con riso aromatizzato. Che godimento.
E vogliamo farci mancare i due litri di sturacessi serale alla frutta chimica?
MAI!
Lento o rapido, il tuo andare ti porta in luoghi che nonpensavi mai di visitare.
RispondiEliminaCoi tuoi occhi e col tuo cuore, prendiamo parte a questo splendore. 😍
Stai visitando città bellissime anche se personalmente mi danno un senso di triste, sarà perché sono troppo mediterraneo e amo il sole spacca pietre?
RispondiEliminaMa la strada su cui hai pedalato e quella che hai fotografato? Se sì è una strada incredibile....