Da oggi sono una volpolacca! Ho passato il confine della
quinta nazione coinvolta nel viaggio, sotto all’immancabile
diluvio malefico e gelido.
Ma andiamo con ordine.
Questa mattina sono partita presto dalla stazione sciistica
dove ho dormito. Purtroppo –e l’ho pagato tutto il giorno- la colazione è stata
magra e svelta: volevo mettermi in strada prima che iniziasse a piovere: le
minacce del cielo plumbeo si sarebbero concretizzate di lì a poco, testimoni i
fulmini.
La strada oggi doveva esser semplice: prima barra a oriente,
poi virata secca a nord-est, verso il confine polacco.
I primi 30km invece sono stati un discreto labirinto a
zigozago tra le colline, a causa dei lavori in corso. Volevamo far poche
salite? Compreso nel prezzo il tour dei più inculati paesini rurali della zona:
ciascuno vanta 15 mucche, 5 gaine e 3 abitanti, di cui 2 dispersi dal '45, il tutto sparso tra prati fradici e
boschi nerissimi.
Oggi la Signora sembrava pesare il triplo.
Il freddo, le energie un po’ scarse, il poco sonno, l’ansia
di finire in mezzo all’ennesimo temporale (cosa poi effettivamente successa),
l’aria cupa di quei luoghi han fatto sì che superare le colline sia stato più
faticoso del dovuto. Un calvario. C’è chi portava la croce, chi una bicicletta.
Continuavo a guardare il ciclocomputer, a controllare la
traccia gps… Ogni 20km percepiti ne avevo fatto uno solo.
Ai lati di questo incubo a forma di strada trascorrevano
ancora prati metallici, pinete nere, boschi d’ombra, colline incise nel piombo.
E case con le orecchie lunghe.
Poi eccola, la pioggia. Ci mancava.
Una, due, tre gocce. Il
tempo di mettere il telefono nella sua custodia… e giù il diluvio.
Ho deciso di
non fermarmi. La strada da fare era ancora molta e, anche ad attendere, avrei
solo rimandato la doccia. Il cielo era livido a perdita d’occhio. Non mi sono
nemmeno messa la giacchina impermeabile. Che si fottesse. Almeno avrei avuto
qualcosa di asciutto per le discese, che tanto finchè si sale fa comunque
caldo.
Dunque ho imboccato la lunga salita che mena al confine.
Ha
piovuto con cattiveria, ma io ormai sono un Buddha di pietra con il loto in
grembo e il sorriso scolpito.
Assisto al trascorrere delle cose, trascorro io stessa.
Secondo la dottrina stoica l’uomo è partecipe del Logos, la
ragione universale che ordina e muove la natura; portiamo in noi la scintilla
del fuoco eterno e siamo dei microcosmi, specchio dell’intero esistente.
E,
sempre per gli stoici, l’unica virtù etica è quella di agire in conformità al
Logos, che è in noi e in tutto. Ciò conduce all’apatia, cioè al controllo delle
passioni e degli impulsi. “Sopporta e asitieniti” era la regola. Così. Se io
sono parte del tutto, e la natura che muove ciò che sta fuori da me è anche in
me, è inutile prendersela. Tanto continua a piovere comunque. Accetto ormai la
merda che il cielo mi rovescia addosso, affrontando le cose come una mano
aperta, che lascia il divenire libero, non come un pugno chiuso che vuole
afferrare e trattenere.
Quindi mi sono infradiciata, ma serenamente, per tutta la
scalata.
I rari nantes in gurgite vasto, ovvero i pochi automobilisti
passati nel reo tempo, han fatto il tifo, ma seri, senza ironia.
Vai e vai con dio, la madonna, buddha, la trimurti e il logos,
ho trovato i cartelli del confine, e un bugigattolo dove ho cambiato le corone
ceche in polocchi (zloty). E una giraffa. Seh. Con 8 gradi. Ma perché?
Comunque, appena posto piede di là dalla linea immaginaria
che divide le nazioni, ha smesso di piovere. Un segno dal cielo. Polonia già te
amo na cifra!
Su il giacchetto, su il cappello e giù, tra paesaggi
finalmente belli di nuovo, diversi, appaganti, dolci allo sguardo che si apre.
Basta campi marci!
Colline, nuvole basse a pennacchi, tanto verde addolcito
dalla bruma e spighe chine al peso dei semi.
Di lì in poi è stata più discesa che salita, con alcuni
strappi secchi da fare con il rampeghino e tanto falsopiano. Peccato aver perso
l’uso delle mani e quella gran cosa che è il pollice opponibile: per il freddo,
le dita erano completamente fuori uso. Anche i piedi, che trasmettevano un gelo
da rigor mortis ai muscolini delle zampe.
Con o senza diti, ho attraversato questi primi 50km di
Polonia con gioia infinita.
E’ tutto bello.
La strada è buona, si lascia seguire e accarezzare
docilmente. Gli alberi sono antichi e proteggono questa terra fertile con la
loro sacralità di linfa. I prati profumano di fieno e camomilla, la gente
sorride. Anche se fa freddo. Mi sono spuntate delle minuscole radici aeree, tra
i capelli e sulla schiena, e ho bevuto della forza di questa natura calma. Ne
sono diventata parte, seguendo il vento e cingendo i fianchi delle colline.
Ecco il Logos, mio e del tutto, che si fonde in un'unica grande verità che è
sensazione, mai ragione. La consapevolezza della vita nella sua totalità.
Se c’è un dio, sta nelle narici e sui polpastrelli, oltre
che nella corteccia.
Mi sono quasi commossa. Eccolo qui Godot, il senso.
Così sono arrivata volando a Jaworzina Slaska, grosso snodo
ferroviario della Slesia, con tanto di museo dei treni.
Sapevo che trovare un posto per la notte non sarebbe stato semplice,
ma tutto ha preso la piega giusta, quella di una curva della strada che
sorride. Il ristorante-penzion che avevo individuato non aveva camere. Allora
mi sono diretta ad una sorta di ostello, poco distante, ma era chiuso,
abbandonato. Quindi mi sono rimessa in sella per proseguire al paese successivo
ma, alla prima curva, sono incappata in una grande insegna: “Noclegi Pensjonat
Pod Jelonkiem”.
Suono il campanello, nulla.
C’è un cartello con un numero da chiamare. Provo, mi dice
che è inesistente. Ma so che il mio cell fa così, per ragioni ancora oscure,
con tutti i numeri polacchi.
Una signora, una radio rungia locale che controlla la via
dal balcone della casa di fronte, mi vede. Mi fa segno di avvicinarmi. Mi dice
(credo) di chiamare. Le faccio capire che col mio telefono non riesco. Detto,
fatto. Chiama con il suo e mi passa il warden. Senza capire una parola (il buon
uomo parla solo polacco e russo, mescolati a un zin di tedesco), chiudo la
telefonata; ho intuito che hanno una camera. Ringrazio la donna al balcone in
tutte le lingue che conosco, e anche con il palmo aperto sul cuore che è
International. Aspetto, scaldandomi al sole che, nel frattempo, ha fatto
capolino. Bella la Polonia. Dopo mezzora arriva una donna piazzata e con baffo.
E’ la moglie del warden, è venuta a preparare la stanza, mi dice che ci vorrà
un’ora. Mentre traffica con lenzuola e aspirapolvere, parliamo in un pidgin
buffo fatto di gesti, radici verbali latine, germaniche e slave. Nn crede che io sia italiana, perchè sono bionda. Mi dice che è
un pensjon per black worker. Ma che, siamo in Alabama? Si corregge:
Ukraina worker. Mi dice che sono odważny avdaci,
coraggiosa, a fare questo viaggio senza towarzysze, tovarish, comrads. Si chiama Lucy,
mi saluta come fossi sua figlia.
Nel frattempo arrivano gli ucraini, operai che lavorano qui, e ancora
adesso ridono e biascicano parole parole piene d’alcool, di là in cucina.
Sembra quasi di essere già in Russia, e sono felice.
La Signora si scalda accanto alla stufa a legna
E voi i Princessa Zebra non ce li avete. E nemmeno il Mleko condensato in tubo, che è la prima volta in vita mia che assaggio e son già dipendente, è una droga!
grazie per il paesaggio che ci mostri e per i popoli che ci fai conoscere, attraverso i tuoi racconti.tutto molto bello, e complimenti ti seguo con il pensiero e con l'invidia ,per non avere il la volontà per fare altrettanto.
RispondiEliminaE' un piacere condividere, gentile anonimo! :-)
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