31 maggio 1891.
Non è certo uno
spettacolo consueto vedere uno zarevič spingere una carriola piena di terra, in
un cantiere fangoso, sotto un tiepido sole e mille occhi .
E’ il futuro zar Nicola II
Romanov, di fatto l’ultimo dell’Impero russo, morto nel 1918 dopo un periodo di
detenzione sotto i bolscevichi (il commissario della Čeka, Jakov
Jurovskij, nella notte dell’esecuzione, durata 20 minuti, sveglierà i
prigionieri dicendo loro di mettersi in posa per scattare una foto di notifica;
nel giro di poco arriverà un commando di ex prigionieri austriaci e ungheresi,
gli unici privi di remore nel giustiziare lo zar. Cadrà per primo proprio
Nicola, poi la moglie, il medico, l'inserviente, il cuoco, i cinque figli, e la
dama di compagnia, tre bambine, rannicchiate in un angolo, che dovranno essere
finite a colpi di baionetta, e due cani. Jurovskij, una volta dispersi i
cadaveri nel bosco, dichiarerà: “I gioielli e i diamanti cuciti negli abiti
facevano rimbalzare i proiettili sui corpi delle donne che, ferite e spaventate,
non smettevano di dibattersi in preda al dolore e al terrore. Il mio aiutante
dovette consumare un intero caricatore e poi finirle a colpi di baionetta”).
Ma il giovane Nicola, in quel
mite maggio 1891, nemmeno immagina cosa sarebbe accaduto trent’anni più tardi.
In quel giorno, infatti, si trova
a Vladivostok per la cerimonia d’inaugurazione ufficiale della linea
ferroviaria Transiberiana; si tratta di una delle più mastodontiche opere mai
realizzate. Non poteva che nascere in Russia, terra di sconfinati orizzonti e
molta carne umana da sacrificare. Sono più di 9000km di strada ferrata, mille
fermate, attraverso 7 fusi orari (ma gli orologi in stazione sono tutti
regolati sull’ora di Mosca). Una follia di metallo che ricuce una nazione
grande quanto un continente, anzi due, così lacerata, così unita, attraverso i
fiumi immensi, le steppe, i monti e la neve.
I lavori erano già iniziati
qualche mese prima della cerimonia ufficiale, perché fosse in parte pronta per
l’esposizione universale di Parigi del 1900, dove fu presentata con grande
sfarzo. Nel 1901 già erano stati posati tutti i binari, collegando la parte
russa a quella cinese. Tempi da record. Ogni anno il cantiere era avanzato di
740km, grazie all’impiego di 90.000 uomini alla volta, per lo più costretti ai
lavori forzati e morti per le tremende condizioni di lavoro. La Siberia non
perdona. E nemmeno il popolo avrebbe perdonato gli zar per tutte queste vite
gettate tra fango e ghiaccio. Ancora una volta in Russia sbocciano fiori di
metallo nel sangue che macchia la neve. Di questo passo il 14
luglio 1903 la Gran Via Siberiana viene messa in funzione da capo a
coda, da San Pietroburgo, allora capitale, al Pacifico; si interrompeva solo
sul Bajkal, dove era necessario caricare i treni su un traghetto o girare
intorno all’immenso lago. La conclusione definitiva della linea risale
al 1916.
Allora diventa possibile
percorrere in una settimana un tragitto che prima richiedeva fino a quattro
mesi di viaggio. Tre milioni di contadini vengono spostati dalla Russia europea
alla Siberia, per popolarla e coltivarla. Sorgono città sempre più grandi e
industrie, soprattutto allo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando
diventa necessario allontanare le fabbriche dal fronte, dove invece venivano
scaricati soldati come carne da macello, carne da cannone di cui è fatta parte
della liberazione d’Europa.
Come si fa a non essere
incuriositi da una simile opera? L’anno scorso, prima ancora di tornare da
Mosca, ascoltavo rapita i racconti dei ragazzi che transitavano in ostello e
che stavano per partire proprio per la Transiberiana. Già allora mi era montata
una voglia di risalire in sella alla Signora e continuare verso oriente, verso
l’Asia, oltre il bordo del nostro continente. Ma era settembre e il lavoro a
scuola chiamava. Il desiderio però è rimasto, sepolto come un semino per tutto
l’inverno, e qui nasce l’idea di questa nuova avventura. Di fatto è la
prosecuzione del viaggio precedente: ero arrivata, partendo da casa, a Mosca;
ora riparto dalla capitale russa diretta ad est, con il sole in faccia (spero,
visto che la Siberia, ahimè, non è certo nota per il clima mite).
La destinazione?
Ulaanbataar, capitale della
Mongolia.
E che c’entra la Mongolia?
Si deve sapere che a Ulan Ude,
città sulla Transiberiana, si diparte un’altra linea ferroviaria, la
Transmongolica. Binario unico, per lo più non elettrificata, l’unica
infrastruttura degna di tale nome che crea una rete di trasporto nella nazione
a più bassa densità di popolazione al mondo, con 1.564.16km quadrati di
superficie per 3,2 milioni di persone (di cui il 30% nomade); per intenderci,
l’Italia ha una superficie di cinque volte più piccola (301.340 km quadrati)
per 60 milioni di abitanti. Roma da sola conta un milione di abitanti in più
dell’intera Mongolia, che è pure grandissima.
Insomma, è un viaggio verso
orizzonti vasti e territori sempre meno abitati e più deserti. Gli spazi sono
immensi. Sarà un percorso di più di 6000km, in due mesi abbondanti. Sì, sempre
in solitaria. La mia immaginazione ormai è popolata di boschi e distese di
steppa fin oltre l’orizzonte, fiumi grandi come mari e cieli altissimi. Se
l’anno scorso cercavo il logos greco e l’oro bizantino in terra slava, cercavo
una capitale d’impero sorta a nord dalle mura crollate di Costantinopoli,
quest’anno ho fatto voto di vastità e mi addentro in ciò che Europa non è più.
La Russia, certo, grande madre stesa sui continenti, dà l’idea che nulla cambi,
da Mosca a Vladivostok. Ma la religione cristiana cede il passo all’islam del
khanato dell’Orda d’oro e dei tartari, che a sua volta si ferma là dove han
radice il buddhismo tibetano degli spiriti e della natura vertiginosa e aguzza.
Cambiano i paesaggi, i boschi neri e le betulle si diradano fino alla steppa e
al deserto, passati i fiumi e il Bajkal, che per me rappresenta qualcosa di
talmente lontano e meraviglioso che già mi commuovo all’idea di vedere le sue
acque cupe, specchio di un cielo che non è più il mio. I volti cambiano, gli
occhi si fanno fessura dopo millenni di accecanti riflessi delle nevi
siberiane. Bianco infinito fin dove lo sguardo si spinge. I regimi comunisti
sono una costante di cemento e ferro: oltre all’Urss, la notizia del cui
crollo, in certi villaggi di queste parti, forse non è ancora giunta, c’è il
gigante cinese, che ha allungato le mani sulla Mongolia e prima, fino al 1912
l’ha governata con la dinastia Manciù, per oltre 300 anni. L’anno scorso avevo
seguito due linee tragiche della storia d’Europa, le campagne di Russia
napoleonica e poi nazifascista. Quest’anno sarò invece sulle tracce del
grandissimo e misterioso Gengis Khan, di cui temo di assumere progressivamente
l’aspetto (la Signora si trasformerà in cavallo, il casco diventerà un elmo
piumato e, soprattutto, mi cresceranno dei finissimi e lunghi baffi neri? Nel
caso, mi chiamerete үнэг, üneg, volpe. Oppure prenderò le sembianze di Dersu Uzala?).
Le lingue sono un altro aspetto da cui
mi lascerò affascinare. Ho iniziato a studiacchiare il russo per potermi
arrangiare, anche se, nel cercare d’intendermi, sembrerò Salvatore de Il nome
della rosa o Dario Fo in uno dei suoi più appassionati pezzi in grammelot. In
Kazakistan la lingua ufficiale è, sorpresissima, il kazako, ma attenzione: è
una lingua turca, attualmente scritta con caratteri cirillici per la poca
influenza avuta dalla Russia su questa nazione (Stalin lo impose nel 1940,
volendo russificare i cosacchi), ma in passato scritta, a seconda delle epoche
storiche, anche in alfabeto arabo e latino (dal 1927 al ’40, grazie
all’influsso di Ataturk). Ora pare che dal 2020 diventerà ufficiale il kazako
scritto in alfabeto latino, che si chiama Qazaqsa. Siamo proprio a cavallo tra
Europa e Asia… In Mongolia la situazione non è meno complessa: il mongolo è la
lingua ufficiale, ma si frammenta in numerosi dialetti a seconda delle zone;
per la scrittura viene usato ufficialmente dal 1941 l'alfabeto cirillico (tanto
per cambiare), con l'aggiunta di due lettere (la Ү e la Ө).
Nel corso del ‘41 fu usata però una versione dell'alfabeto latino turco, mentre
prima si usava la scrittura mongola Hudum, che sta tornando di moda. Si
scrive in verticale ed è nata come adattamento della scrittura uigura
(lingua turca parlata in Cina), introdotta dallo scriba uiguro Tatar-Tonga, che
fu catturato dai mongoli durante la guerra contro i Naiman intorno
al 1204. Non
siamo lontani da quel meccanismo per cui il cirillico è adattamento del greco
in gola ai nuovi barbari che avevano conquistato il potere, tra vino, preghiere
e bestemmie. Qui però la radice, la provenienza della cultura ha cambiato
baricentro: è a Oriente.
Insomma, queste sono alcune piste
che ho deciso di seguire lungo la strada. Ci saranno vento, pioggia e salite
(Urali e Altai). Ci saranno distanze difficili da affrontare in bici (tra un
paese e l’altro corrono spesso 200km di puro nulla). Ci saranno paesaggi di
meraviglia che prende alla gola e ruba il fiato. Ci saranno persone, stranieri,
barbari, che non vedo l’ora di conoscere perché solo dal diverso si impara. Ci
saranno funghi e pesciolini e noodles disidratati, kebab siberiano e altri cibi
di cui non conosco ancora il nome. Ci saranno i luoghi più incontaminati della
terra, taiga, steppa… Le foche sul Bajkal! Ci saranno silenzio, sacrosanto, e
buio, di notte: da noi non esistono più né l’uno né l’altro. Viaggerò sulla colonna sonora delle Steppe dell'Asia centrale di Borodin.
In fondo Siber significa
"terra dormiente" o "bello", o ancora “acqua e terra
selvaggia” in turco antico.
E quale migliore luogo al mondo
per un’anima sconfinata e vasta che brucia sempre? Dove altro cercare pace per
un cuore nomade?
“Per l’alto valore dei secoli a
venire,
per la nobile stirpe umana ho rinunciato
anche ad alzare il calice al banchetto dei padri
e alla letizia e al mio stesso onore.
Mi incalza alle spalle il
secolo-canelupo,
ma non ho sangue di lupo nelle vene;
ficcami piuttosto come un cappello nella manica
della calda pelliccia delle steppe siberiane,
che io non veda il vigliacco, né
il gracile lerciume,
né le ossa insanguinate sulla ruota,
e per me tutta notte brillino volpi azzurre
nella loro bellezza primigenia.
Portami via nella notte, dove
scorre l’Enisej
e il pino si slancia a toccare la stella,
perché nelle mie vene non c’è sangue di lupo
e soltanto un mio pari potrà uccidermi.”
(Osip Mandel’stam)
Sono stato affascinato da questa lettura e ho intenzione di seguirti in questo tuo "viaggio".
RispondiEliminaIo vado a piedi per gli antichi cammini pellegrini e l'augurio che ti faccio è il mio solito "Buon cammino e che la gioia ti perseguiti"
Meraviglioso viaggio e altrettanto suggestivo racconto. Complimenti!
RispondiEliminaRita, è un piacere leggere i racconti delle tue affascinanti "pedalate"!! Buon viaggio e che il sole possa ogni giorno regalarti il suo sorriso. Sila e Franco
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